Autore: Carlo Romeo

Rif. bibl.: Romeo, Carlo, "Un giornale e un territorio", in: “Alto Adige. Corriere delle Alpi”, 24.05.2005.

 

 

Un giornale e un territorio

di Carlo Romeo

 

Presso le edicole lo si sente talvolta chiamare «Alto», forma abbreviata dalla fretta quotidiana. I nomi si adeguano alle necessità, anche a quella di spostare al più presto l’auto parcheggiata in seconda fila. Il nome «Alto Adige», dopo due secoli di vicende semantiche, geopolitiche, giuridiche, militari, all’orecchio quotidiano si associa liberamente all’omonimo giornale. Ogni testata locale stabile è lo specchio del proprio territorio. Sono giornali che hanno avuto la sorte di costruire nel tempo una tale rete di corrispondenze con la società locale da divenirne una presenza quasi istituzionale. Il quotidiano bolzanino offre come ulteriore aspetto d’interesse il proprio contesto di frontiera. Nella sua storia, che ha attraversato ormai 3/4 generazioni, si riflette inevitabilmente il percorso identitario di un gruppo linguistico in una “provincia difficile”. 

La gara
L’«Alto Adige» esordisce il 24 maggio 1945, a tre settimane dalla fine della guerra, come organo del Comitato di Liberazione Nazionale. I mezzi recuperati sono quelli del quotidiano fascista «La Provincia di Bolzano», sequestrati durante l’occupazione tedesca. Il nuovo giornale nasce col cruccio di non essere arrivato primo nella gara. Cinque giorni prima ha ripreso le pubblicazioni il quotidiano di lingua tedesca «Dolomiten» (sospeso dal ’43). Di proprietà della casa editrice Athesia, si è aperto con l’appello del neonato partito di raccolta (Svp) e la richiesta del diritto di autodeterminazione per i sudtirolesi. In tale contesto l’«Alto Adige» nasce come “voce” dell’intero gruppo italiano riguardo a fondamentali questioni: la decisione degli Alleati sul confine, il futuro assetto autonomistico e il confronto col gruppo tedesco. 
Sotto il profilo della rappresentanza etnica, l’Athesia può contare su una solida tradizione, che parte già dagli inizi del ‘900. Il monopolio editoriale cattolico, protetto dal Concordato, è sopravvissuto anche alle leggi fasciste sulla stampa. Nel dopoguerra l’influenza del «Dolomiten» all’interno del gruppo sudtirolese è così forte da creare qualche problema alla stessa dirigenza Svp. Tutte le iniziative del governo italiano di promuovere una stampa alternativa in lingua tedesca saranno destinate al fallimento; nel 1958 l’«Alto Adige» inaugurerà una propria pagina per i lettori tedeschi.

Mal di frontiera
Nella particolare “guerra fredda etnica” che si svolge in Alto Adige, i due fronti non possono rinunciare ad alcuna forza disponibile, soprattutto se intellettuale. Anche in campo giornalistico domina in provincia una certa continuità tra Ventennio e Repubblica. Fino ai primi anni ‘50 le pagine dei due quotidiani si riempiono di aspre polemiche sulla responsabilità delle opzioni del 1939 e sulle vittime del fascismo e del nazismo. La polarizzazione impedisce ripensamenti ed elaborazioni all’interno dei due gruppi e favorisce un processo di relativizzazione delle rispettive pagine “scomode”. Nei commenti dell’«Alto Adige» è agitato lo spettro di un risorgente pangermanesimo intorno ad ogni richiesta sudtirolese. Dall’altro lato, «nazionalista» è l’attributo più ricorrente nel «Dolomiten» per qualificare qualunque atto della politica italiana, sia locale che nazionale. L’unica convergenza tra i due quotidiani è la preoccupazione per le elezioni del ’48, nei confronti del pericolo comunista. L’«Alto Adige» rimarrà sostanzialmente di orientamento «centrista» e governativo. Il «Dolomiten» appoggerà la collaborazione in Regione tra l’Svp e la Dc trentina, per la comune matrice cristiano-sociale. 

Todesmarsch
Lo sviluppo numerico dei gruppi linguistici diviene antagonismo nella polemica che parte nel 1953 sulla stampa tedesca. E’ l’allarme della Todesmarsch (“marcia della morte”), cioè il “soverchiamento” numerico del gruppo sudtirolese a cui mirerebbe il governo attraverso la continua immigrazione italiana in provincia. Grandi servizi (anche fotografici) sul “Dolomiten” rappresentano la Bolzano di quegli anni come una “Babele linguistica”, un cantiere inarrestabile dell’italianizzazione. L’«Alto Adige» oppone la versione governativa, che riconduce il fenomeno migratorio alla naturale ripresa postbellica della vita economica. La prospettiva del ritorno in provincia dei “rioptanti” sudtirolesi spinge anzi a denunciare che saranno gli italiani «a dover fare le valigie». 

Guerra dei tralicci
Dalla metà degli anni ’50, l’escalation della tensione si può misurare con i centimetri di titoli, occhielli e foto: manifestazioni, incidenti nell’ordine pubblico, bombe e processi. L’allarme dell’«Alto Adige» è continuo, dalla “notte dei fuochi” alle successive fasi di un terrorismo sempre più guerrigliero e che non risparmia vite umane. Sul versante delle trattative politiche, il giornale richiama alla fermezza, critica l’intervento austriaco nelle faccende italiane e relativizza il ricorso all’Onu. Accoglie come un “cedimento” del governo l’istituzione della Commissione dei 19 e sottolinea che al suo interno è scarsamente rappresentato il gruppo italiano altoatesino.

Addio Regione
L’ostilità dell’«Alto Adige» verso il Pacchetto riflette l’opinione dominante tra gli italiani in provincia, che temono un’autonomia provinciale integrale. Il legame dell’«Alto Adige» con l’altra parte della Regione si istituzionalizza con la nascita della redazione di Trento. E’ il periodo della contestazione studentesca. La Facoltà di sociologia, voluta dalla Dc trentina, diventa uno degli atenei più caldi del Paese. L’«Alto Adige» interpreta il ruolo di “voce laica” in questo vero paradosso, che vede una tumultuosa agitazione giovanile all’interno di un contesto politico-sociale votato all’ordine e alla tradizione.
A Bolzano è «Il Giorno», di proprietà dell’Eni, a lanciare un’edizione locale (1967-71), orientata ad allargare in campo italiano la disponibilità al Pacchetto, nella fase finale delle trattative.

Convivenza
Una certa distensione etnica accompagna l’avvio del secondo Statuto di Autonomia (1972). Tra il resto, nell’«Alto Adige» sono cambiate proprietà e linea editoriale. L’attenzione sembra assorbita dai radicali mutamenti in atto nella società italiana. Anche in provincia giungono, anche se attenuati, i clamori della conflittualità sociale e gli echi della contestazione giovanile. Il «Dolomiten» non perde occasione per segnalare il caos italiano, deprecando i casi di convergenza tra lavoratori italiani e tedeschi. Alla lotta di classe “italiana” viene contrapposto il modello della “Soziale Partnerschaft” di marca bavarese. Fioccano anche le censure verso le nuove aggregazioni e “mescolanze interetniche” giovanili. In campo culturale domina il motto «Separiamoci per capirci meglio». In aperta contrapposizione, sull’«Alto Adige» ricorrono le parole-appello di «ponte» e «convivenza». Grande spazio è rivolto alla questione di un’università a Bolzano, su cui pesa il veto irremovibile dell’Svp. 

Trasparenza
Verso la metà degli anni Ottanta la parola più diffusa comincia ad essere «disagio». Entrata a pieno regime, la seconda autonomia fa pesare i suoi effetti su un gruppo che si sente ora «minoranza nella minoranza»: il Patentino di bilinguismo e la Proporzionale etnica nel pubblico impiego sono avvertiti come un caro prezzo pagato alla soluzione trovata tra governo e Svp. Tale disagio preme per uscire dalla trasparenza e diventare tema nazionale. Mentre lo scrittore Vassalli fa un’inchiesta sugli «italiani trasparenti», il sociologo Acquaviva ne prevede l’estinzione. A livello politico questa fase coincide, com’è noto, con l’exploit del Movimento Sociale Italiano, che si conferma negli anni successivi il partito più votato dagli italiani della provincia. 

Figli dell’autonomia
La chiusura della controversia aperta all’ONU arriva dopo 32 anni (1992) in un contesto politico, economico, sociale lontanissimo dagli anni ’60. Insieme al panorama editoriale, anche gli sviluppi della società locale sono sempre meno riconducibili alla contrapposizione etnica. Lo stesso termine “etnico” è fuori moda (“linguistico” è politically correct). A tratti tornano i «noi e loro» che sembravano dimenticati, ma i «figli dell’autonomia» sembrano ormai accogliere le cicliche polemiche (censimento, toponomastica, Euregio, etc.) come normali rovesci di stagione. Diffusa è la consapevolezza delle nuove sfide che ha davanti a sé l’autonomia: gli standard del welfare, le nuove povertà, i problemi della globalizzazione, la sostenibilità ambientale delle scelte economiche. E l’identità? Regionale, nazionale, europea, femminile, maschile, culturale, religiosa, persino l’«identità» (parola-chiave di questa terra) sembra essere entrata in crisi, sempre meno riducibile a quella etno-linguistica e sempre più libera di cercarsi nuove, più ampie dimensioni. E l’augurio migliore che si può fare all’«Alto» nel suo 60° è di continuare a rispecchiare tale cammino.