Autori: Roberto Antolini, Gigi Zoppello, Carlo Romeo

Rif. bibl: Antolini, Roberto/ Zoppello, Gigi/ Romeo, Carlo, Quando la letteratura incontra la storia: gli anni settanta nel romanzo "Ivan il terrorista", in: "archivio trentino", 01/2010, pp. 99-111.

 

 

 

 

NOTE SU IVAN

 

di Roberto Antolini

 

 

L’IDEA


L’idea del romanzo ha una collocazione temporale precisa. Nella prima metà degli anni Ottanta, per due anni, ho frequentato la Scuola di Specializzazione per Bibliotecari ed Archivisti dell’Università di Padova, e tutte le settimane andavo e venivo da Padova, passando per la Valsugana (si frequentava un giorno in settimana, nel quale erano concentrate tutte le lezioni). Erano gli anni degli ultimi fuochi del terrorismo storico, stavano arrestando gli ultimi latitanti, scoprendo gli ultimi covi, mentre già impazzava il pentitismo, che disgregava dall’interno le organizzazioni clandestine, dando l’idea di quanto già fossero “decotte”.

Accendendo l’autoradio durante la guida capitava proprio di sentir parlare di queste ultime convulsioni del terrorismo italiano, mentre fuori dai finestrini passavano i panorami agresti della Valsugana. Percepivo con forza la sensazione di un cambio di fase storico. Gli anni ’60 sono stati, per l’Italia, gli anni della modernità e dell’industria. Il boom economico, l’industria italiana rampante che occupava prepotentemente spazi sul mercato internazionale basandosi sui suoi bassi costi, ma anche su una “qualità italiana” a cui partecipava creativamente tutta la cultura del tempo: il design italiano era il migliore del mondo, l’immagine di una nuova Italia era veicolata dal cinema di giganti come Fellini ed Antonioni, l’arte italiana, con movimenti come l’Arte Povera, era ancora fra le scuole nazionali più importanti, ecc. Tutta la società godeva di questa fase di modernizzazione, che arrivava fino in periferia con nuove possibilità di comunicazione (motorizzazione, televisione ecc.), e conseguentemente con nuovi stili di vita (consumi e scuola di massa). Negli anni dei miei viaggi Trento-Padova si percepiva chiaramente che tutto questo si era rovesciato. Al posto del vento di città (che ormai arrivava in periferia come una marcescenza: crisi economica e disoccupazione degli anni ’70, crisi energetica, Seveso, e appunto terrorismo) cominciava a spirare invece un vento di campagna, che metteva adesso la periferia al centro dell’immaginario collettivo, e fra un po’ le avrebbe dato l’egemonia politico-culturale con il fenomeno leghista, che ha tirato la rinascita della destra italiana, in una prospettiva antimoderna.


Ho conservato dentro di me queste immagini e questa sensazione per anni e anni, pensando che prima o poi avrei dovuto metterle per scritto. E la cosa è avvenuta addirittura nel 2000, quando avendo una estate libera da impegni familiari (ma non dal lavoro: ho scritto dopo le 8 ore di lavoro, usando i week-end per andare a vedere le location dei luoghi in cui ambientare la storia), ho semplicemente messo per scritto questa sensazione. L’ho tradotta in personaggi, situazioni, descrizioni che dovrebbero far “vedere” un Nord-Est che iniziava allora la sua stagione d’oro. Perché la letteratura è proprio questo, un metalinguaggio: parla tramite personaggi e snodi narrativi, ma allude ad altro. In questo caso alla realtà sociale della grande mutazione degli anni ’70, durante i quali è avvenuta una trasformazione molecolare radicale, anche senza niente di eclatante come il ’68 (prima) o la caduta del muro di Berlino (dopo). Siamo usciti da quel decennio in modo completamente diverso da come ne eravamo entrati. Basta pensare alle figure di riferimento del decennio precedente e di quello successivo. Prima Kennedy (anche se adesso la storiografia lo sta ridimensionando, ma insomma era uno che parlava di “nuova frontiera” e “lotta alla povertà”), Krusciov (quello della destalinizzazione, del disgelo), e sul soglio pontifico Giovanni XXIII. Poi, dopo, Reagan e Thatcher da una parte e Brežnev dall’altra. E dalla grande industria del fordismo alla frammentazione della produzione post-fordista sul territorio tramite ristrutturazioni ed esternalizzazioni di cui si racconta anche in Ivan.

Per il movimento c’è stata nientemeno che una cancellazione, che ha rimosso addirittura la memoria del conflitto dall’immaginario collettivo. Sono convinto che tutto questo è arrivato in Italia dall’esterno, traumaticamente, nel corso di un conflitto di classe qui ancora aperto. È a livello internazionale che i rapporti di forza erano già cambiati radicalmente, preparando il terreno ai vari Reagan (senza qui ripetermi su questi temi rimando all’articolo L’ira dei ricchi pubblicato su Il Margine n.7 del 2008). L’idea del romanzo è proprio quella di metanarrare questa sconfitta.

 

 

LA DIMENSIONE GENERAZIONALE

 

Quando nel 2000 mi sono messo a scrivere pensavo che fosse venuto il momento “per me”. Ho poi scoperto, soprattutto tramite il libro di Demetrio Paolin Una tragedia negata (Nuoro: Il Maestrale 2008) che proprio dal 2003 sono arrivati sul mercato letterario molti libri simili al mio, su terrorismo e dintorni. Paolin ne cita una quarantina, ma io ne conosco diversi altri, chissà quanti sono davvero. Se sono arrivati all’edizione a partire dal 2003, vuol dire che sono stati scritti più o meno nel periodo del mio (che invece è stato edito solo nel 2009, sia perché lo ho tenuto io in un cassetto fino al 2006, sia perché poi la ricerca di un editore è stata lunga). Questo mi fa capire che i “tempi” non erano proprio solo miei. Prima non ne avevamo avuto voglia perché ancora non avevamo voglia di confrontarci con quella terribile sconfitta che ha anche mutato le prospettive delle nostre vite, ricacciandole nella insignificanza storica e nella passività forzata. E il terrorismo è, non a caso, l’allegoria di tutto questo, visto che ha messo una pietra tombale sul movimento e su ogni possibilità di partecipazione. In Ivan ho scritto «in quel periodo proprio saltavo via sistematicamente tutte le notizie sul terrorismo, non ne potevo più, e mi difendevo in questo modo, ignorando» (p. 156), che è esattamente la narrazione di questa rimozione.


La massa di libri sul terrorismo uscita dal 2003 mi verrebbe da dire che è l’inizio della rimozione di questa rimozione, una ripresa della parola (anche se ormai dal circolo pensionati ed anziani) di quella parte di generazione che si è ammutolita allora di fronte al terrorismo. Il fatto che sia partita intorno al 2000 probabilmente è legato al fatto che quello è un altro crinale storico, il periodo in cui la situazione italiana stava operando un altro cambio di direzione. Fino al 2000 hanno in fondo comandato quelli che hanno vinto lo scontro contro il movimento e, poi, il terrorismo. Ha governato “l’arco costituzionale”. Berlusca era sì sceso già in campo, ma aveva funzionato, fino ad allora, una manovra di contenimento. E così, pur riuscendo già ad incidere pesantemente sull’immaginario collettivo con le sue televisioni, e pur essendo riuscito a dar corpo, per questa via, ad una conseguente nuova cultura pop-televisiva di massa, non aveva ancora avuto – tranne che per una breve parentesi – accesso vero alla stanza dei bottoni. Nel 2000 anche tutto questo stava per finire: Berlusca è arrivato trionfalmente al potere nel 2001 e non se ne è praticamente più andato. Così anche il periodo del terrorismo è divenuto storia passata, storicizzabile, si è allontanato di un altro giro. Con l’avvento di Berlusca si è effettivamente compiutamente realizzato anche in Italia l’assalto neoliberista che ha steso negli anni ’70 il movimento italiano (dall’esterno). E quanto avvenuto negli anni ’70 è diventato la diretta radice del presente (difficile individuare le radici del presente ancora negli anni ’60, con una modernità trionfante, una partecipazione diffusa, dei rapporti di classe capitalistici ancora trattenuti dai mille compromessi del welfare-state post-bellico).

La letteratura ha in questo caso (come in molti altri frangenti storici) la funzione di cominciare a fare dei bilanci, di mettere in campo una ricerca di senso sugli anni ’70 che procede per la sua via, quella di una autonoma forma di conoscenza (parallela ma diversa dalla conoscenza documentaria delle scienze umane), basata sul metalinguaggio che abbiamo visto sopra: quello dei personaggi, delle atmosfere, delle scelte stilistiche significanti.

 

 

AUTOBIOGRAFICITÀ DEL TESTO E RAPPORTO CON I MIEI ANNI SETTANTA

 

Dopo aver firmato il contratto di pubblicazione, l’editore Claudio Maria Messina mi ha chiesto confidenzialmente: «è autobiografico vero?». Ho risposto che non lo è per niente, ma forse non è tutto così semplice, ed il tema in fondo non è irrilevante. Ivan il terrorista può essere definito autobiografico? Solo alla maniera di Flaubert, che affermava: «Madame Bovary sono io». Io negli anni ’70, fino al ’77, ero effettivamente a Milano, e conosco direttamente per averli frequentati allora ambienti e location del romanzo, come il Bar Magenta. Studiavo, lavoricchiavo, e militavo nel Manifesto, l’unico gruppo extra-parlamentare che possiamo definire “illuminista”, ispirato com’era ad una razionalità politica di derivazione gramsciana, che nulla aveva da spartire – io credo – con le vere formazioni sessantottesche come Lotta Continua e Potere Operaio (e poi l’Autonomia), che, sotto una bardatura marxistica, affondavano le loro radici in un irrazionalismo soggettivistico, fondamentalmente indifferente alle condizioni oggettive, ed ai limiti storici della situazione.

Nel ’77 ero tornato da poco a Milano dopo il servizio militare, lavoravo al quotidiano Il Manifesto (seguendo le spedizioni), ed avevo ancora qualche filo che mi legava all’università perché stavo completando la tesi. Quando è scoppiato il movimento del ’77 (non mi sembra corretto dire “improvvisamente”: ricordo di qualche mese prima un articolo di Alberoni sul Corriere della sera che in qualche modo lo annunciava, deducendolo dai dati della disoccupazione e sottooccupazione intellettuale giovanile del periodo) ho ripreso a frequentare le aule universitarie per assemblee e riunioni. Facevo esattamente quello che Lucia Annunziata dice facevano gli studenti del PdUP (a cui però io non ero più iscritto): con uno sparuto gruppetto di amici provavamo a dire nelle assemblee «ma il rapporto con gli operai... attenti a non farci isolare... ecc.». Dopo un po’ ci strappavano di mano il microfono dicendo «basta sparar cazzate!». Quando un giorno uno mi ha detto «guarda che vi facciamo un terzo occhio», ne ho avuto abbastanza. Mi è capitato in mano un bando di concorso per la biblioteca di Tione - il paese da cui era partito mio bisnonno per scendere a valle, a Trento - ed ho deciso che era un segno del destino. In quattro e quattr’otto mi sono iscritto, lo ho vinto, e mi sono trasferito a Tione, fra le montagne, lasciandomi dietro le spalle la metropoli, la politica, la partecipazione. Non mi sono proprio ritirato nel privato, piuttosto fra i libri, fra le idee (visto che erano state proprio le idee che ci erano mancate), nel metalinguaggio delle arti, terreno da cui si riparte dopo le sconfitte storiche. Me ne sono andato non solo dalla minacciosa truculenza dei residuati bellici del movimento, anche se avrei dovuto farlo anche solo per quello, poco dopo hanno cominciato ad accopparsi anche fra di loro (vedi il caso di Wlliam Waccher, ucciso nell’80 vicino a dove abitavo io a Milano, che con dolore ho rivissuto nel bellissimo film di Renato De Maria La prima linea). Me ne sono andato a ricominciare un’altra vita, visto che quella precedente era finita, giunta al capolinea. Come capisce il mio personaggio Ivan a Marostica.

Autobiografismo? In realtà è la storia della nostra generazione, ma non è neanche solo autobiografia generazionale. Credo il problema sia più generale, sia storico. Il problema è: “chi è Harry Kellerman, e perché parla male di me?”. Ovverossia: che cosa è avvenuto davvero negli anni ’70, e perché grava ancora sulle nostre spalle?

L’estraneità del mio personaggio Ivan è l’estraneità di tutti noi dopo gli anni ’70. È l’estraneità della politica intesa come progetto (volontà di dirigere i processi, invece di starci semplicemente sdraiati sopra, lasciando che vadano alla deriva) e come partecipazione (partecipazione sociale, non virtual/televisiva). Non solo affare professionale del ceto politico.

 

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UN ROAD-BOOK CHE ATTRAVERSA IL RIMOSSO DEGLI ANNI ’70

 

di Gigi Zoppello

 


La prima cosa che ho pensato, nel leggere il romanzo di Antolini, è che si tratta di un romanzo di viaggio, il più classico dei “road book”, poiché il personaggio principale è un uomo in fuga, senza amici e senza appoggi, in un paesaggio che non conosce e in automobile.
Mi sono venuti in mente subito Kerouac, ma anche Steinberg e Cormac Mc Carthy. Con un lapsus, stavo per scrivere: è un “road movie” ed è vero anche questo: in effetti sembra un libro pronto per una sceneggiatura cinematografica, e lo dico come un complimento.
Un road book, o road movie, in tanti particolari: certo i motel nel deserto californiano sono altra cosa dallo scalcinato alberghetto di Strigno che si trova nel romanzo, ma in fondo assolvono alla stessa funzione narrativa.
Ho poi pensato che si tratta anche di un giallo, nel senso più ampio del termine: il meccanismo narrativo è perfetto perché sa mantenere la suspence e ci sospinge avanti, chiedendoci ad ogni pagina cosa accadrà. Il meccanismo che si innesca è ben costruito anche per la micidiale precisione dei tempi narrativi, che ne fanno una lettura godibilissima.
Il terzo elemento fondante è la descrizione di un paesaggio (prima quello veneto, poi quello trentino) che è un vero protagonista aggiunto. Infatti Ivan, a tratti, dialoga con esso e lo scruta come si guarda un compagno di avventura. Ma siccome ogni paesaggio geografico è anche un paesaggio umano (basta leggere la sezione in cui il protagonista si trova a Castelfranco, fra le commesse che finiscono il lavoro ed entrano nei bar per l'aperitivo), il dialogo che il protagonista ha intrecciato con l'orizzonte si scioglie poi in un confronto con un paesaggio al quale sente di non appartenere. Il senso di straniamento di Ivan, quindi, carica ulteriormente il suo ruolo di una marginalità che è ancora una volta rispondente alle caratteristiche del road movie – o road book – in cui è sempre lo straniero a dover affrontare le insidie (e talvolta le sorprese piacevoli) di un luogo che non conosce. Mi viene in mente, come esempio, una scena in cui Ivan guida la Renault 4 nella campagna pedemontana e accanto al vecchio cimitero di paese scopre una palestra con centro fitness. Un lampo, uno schizzo, che però dice moltissimo.

Una parentesi va aperta su un aspetto marginale ma essenziale: questo libro è costellato di citazioni di brani musicali del tempo, dai Sex Pistols (dei quali si vendono le magliette al centro commerciale) alla rock-wave degli anni Settanta. Citazioni pertinenti, mai fuori tempo, mai pleonastiche; ci danno una colonna sonora indicativa già pronta ma soprattutto una colonna sonora generazionale. E per la generazione che fu giovane negli anni Settanta la musica non fu una componente marginale. Anzi.

Certo questo romanzo può essere affrontato anche da un altro punto di vista, partendo cioè dalla questione degli anni Settanta. In questi giorni è uscito il nuovo romanzo di Silvia Ballestra I giorni della Rotonda che si aggiunge a molti altri che hanno provato ad affrontare quel periodo della storia italiana con gli strumenti della narrativa. In un'intervista a Simonetta Fiorri su La Repubblica (23 novembre 2009, p. 37) Silvia Ballestra dice: «C'era la volontà di sapere, ma nessuno ci raccontava, nessuno ci spiegava. Abbiamo aspettato quasi trent'anni per conoscere. E ora che sappiamo possiamo scriverne». Una dichiarazione che sembra contraddittoria: di fronte a decine di film o telefilm recenti, di fronte a tanti romanzi o racconti che hanno affrontato la storia degli “anni di piombo” italiani, come è possibile dire che nessuno li raccontava? Probabilmente Ballestra vuole significare quello che molti di noi percepiscono: a fronte di tante pagine e tante scene di film, dov'è la verità? Perché sulla stagione degli anni Settanta in Italia pesa ancora una cappa oppressiva?

La verità che ci è stata raccontata – tardivamente – è fatta di brandelli: qualche “scoop” di pentito, qualche schermaglia fra reduci, qualche tardiva ricostruzione di dettagli. Ma manca ancora una ricostruzione storica complessiva che faccia luce su meccanismi e soprattutto sulla situazione d'insieme. Ovvero non solo sulla storia dei movimenti armati, ma anche sull'intreccio perverso che si realizzò fra apparati deviati dello Stato, politici, forze dell'ordine, influenze straniere vere o presunte. Quel decennio fu forse quello in cui la manipolazione dell'informazione fu più scientifica.


La critica italiana si è divisa da tempo fra chi accusa scrittori e registi di voler “annacquare la tragedia” e chi invece legge gli anni Settanta come anni blindati, in cui l'unica risposta all'incubo fu una stagione di pesante repressione generalizzata. «È dalla repressione della lotta armata – dice Nanni Balestrini (La Repubblica, 23 novembre 2009) – che è nato l'imbarbarimento italiano».

Ivan, il protagonista, arriva alla lotta armata quasi per caso, avendo percorso le tappe del sindacato, della rabbia operaia che fa i conti con le prime esternalizzazioni aziendali. Ma vede anche i primi segni di un distacco totale fra la politica e la società: stanno arrivando gli anni della Thatcher, di Reagan, gli anni del riflusso e dell'edonismo: l'epilogo della lotta armata è la discoteca e il fallimento della rivoluzione conduce alla rassegnazione dei centri commerciali. Oliviero Ponte di Pino, direttore editoriale della Garzanti, la casa editrice della Ballestra, dichiara a La Repubblica che i giovani scrittori vi si rifugiano come «l'ultima opportunità di crescita civile, l'occasione mancata della storia italiana». 
Di certo ci sono voluti anni, o decenni, per poter affrontare questo periodo nella letteratura e nel cinema. Come se gli intellettuali avessero avuto bisogno di un distacco (emozionale e temporale) per poter narrare. Si tratta probabilmente di un bisogno vero, di una necessità: così anche Antolini arriva oggi a scrivere un romanzo ambientato quasi quarant'anni fa. Ma come ci racconta l'autore stesso, questo testo fu scritto molti anni fa: ed ecco che io ci ritrovo la lungimiranza dello scrittore. Lo scrittore, come Omero, si presenta a noi per dirci: “io sono il tuo poeta cieco, posso vedere le cose che tu non vedi”. Ed è questa la forza della scrittura.

La scrittura di Antolini è magnifica: per raccontare ci vuole un linguaggio, ma per raccontare gli anni Settanta ci vorrebbe il linguaggio degli anni Settanta. Qui Antolini però non cade nella trappola, e tiene invece un registro asciutto, per niente aulico, ed è per me la più autentica sorpresa di questo volume. È anche attraverso questo linguaggio misurato che l'autore riesce a mantenere la “giusta distanza” fra la narrazione ed il periodo storico. Lasciandoci come Ivan: in viaggio, in fuga, verso un destino che ci aspetta fra le curve di una maledetta statale.

 

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UN PAESAGGIO ANTROPICO ATTRAVERSO OCCHI CLANDESTINI

 

di Carlo Romeo

 

 

La prima osservazione, anche se può sembrare banale, è che si tratta di un vero romanzo. Non è un racconto “a tesi” o una soluzione narrativa a istanze diverse. Lo sottolineo perché conosco Roberto Antolini quale attento, lucido (e forse anche un po’ scettico) osservatore della realtà e dei suoi riflessi artistici e letterari. Non è frequente che l’abitudine alla destrutturazione critica dei linguaggi lasci intatta una vena narrativa così spontanea. Ivan il terrorista non soffre di alcun appesantimento didascalico o esplicativo. Il racconto è di per sé metaforico, come ogni vero romanzo. Costruita su un arco temporale di nemmeno una settimana, la trama concentra i momenti essenziali con cui si racconta un film (o una vita): l’irrompere dell’emergenza, la fuga, l’illusione e la sconfitta finale.

Certo, si tratta in senso lato anche di un romanzo storico, perché si “fa carico” della storia; quella degli anni Settanta, o meglio della generazione che li ha così fortemente caratterizzati. Tuttavia l’abilità dell’autore ha saputo tenerla sullo sfondo, sfumata e richiamata nei momenti e nelle misure necessarie. Lo stesso personaggio di Ivan, nella sua psicologia e nelle sue tragiche scelte, emerge a poco a poco da flashback sempre più intensi, introdotti da associazioni di pensiero. È un passato evocato più che descritto.

La scrittura di Antolini appare sin dall’inizio densa e concentrata, mirata all’essenziale. E fin dalle prime pagine sembra lasciar parlare un protagonista non frequente nella narrativa italiana contemporanea: il paesaggio antropico. Questo mi sembra l’aspetto più efficace ed originale del romanzo. Il paesaggio è quello del “Nordest” nel suo momento di massima metamorfosi; il boom, il cosiddetto “miracolo” della piccola e media impresa, ma anche il definitivo tramonto della provincia rurale, la fredda corsa a un’ambizione di benessere parcellizzata, anonima, quasi indifferente. Tutto questo viene descritto dall’“occhio clandestino” di Ivan, attento per necessità alle sfumature, alle espressioni e ai gesti quotidiani delle tipologie umane tra cui confondersi e non farsi notare.

La clandestinità è la condizione esistenziale, la “normalità” del protagonista. Nel momento in cui all’improvviso viene recisa la rete dei suoi contatti, questa normale solitudine subisce un’accelerazione fino quasi a prospettarsi nei termini di una possibile liberazione. Nella mente di Ivan si rincorrono, in un miscuglio di lucida analisi e mera casualità, le risoluzioni sulle vie possibili di questa fuga, ovvero quasi tutte le direttrici verso l’estero: l’Austria, la Svizzera, la Francia.


È un romanzo “on the road” in cui però la frontiera è solo immaginata e la strada (statali e provinciali che più si addicono alla clandestinità) non corre “dritta verso il tramonto”. La Renault 4 di Ivan è costretta per tutto il romanzo a un percorso tutt’altro che lineare; la rotta è piena di deviazioni fino alla percezione finale che essa si sia chiusa, avvitata su se stessa in un inutile circolo.

Dentro questo circolo c’è anche Mary, la parentesi amorosa o meglio del corpo, che non mente mai, come fanno invece l’anima e la ragione. Ma è una parentesi che già in partenza sembra negarsi ogni ulteriore sviluppo.
L’inizio e la fine del (breve) tentativo di liberazione hanno un loro luogo, che può forse essere individuato come centro simbolico di tutta la narrazione. La vecchia casa diroccata dove Ivan nasconde le armi e i soldi è un inatteso, temporaneo rifugio. Un luogo di sospensione dall’accerchiamento antropico che preme tutt’intorno. È un relitto. La sua precarietà rimanda a quella di Ivan, che vi si sofferma per ben tre volte. La prima, come detto, per “scaricare” gli oggetti più pericolosi della propria identità. Senza di essi, Ivan può muoversi in modo più leggero, quasi libero. La seconda è per controllare che vi siano ancora. È una visita piena di esplorazioni, immaginazioni e ricordi, piacevoli anche se come sempre solitari. L’ultima volta che entra nella casa è per riprendere il suo “bagaglio” e andarsene per sempre. Indugia ancora nel desiderio di soffermarsi e guardare dall’alto la vita di quel microcosmo valligiano, come qualunque altra vita da cui si è escluso senza troppi rimpianti: «Una farfalla colorata attraversò tremolante i suoi pensieri, posandosi di fronte, su un trave marcio del tetto. Scricchiolio del legno. Tempo d’andarsene, tempo scaduto.»