Carlo Lazzerini (1920-2010) è stato per più di 30 anni docente di storia e filosofia al Liceo classico “Carducci” di Bolzano. Nato a Livorno, si era laureato in Lettere e Filosofia presso la Scuola Normale di Pisa. Scoppiata la guerra, fu arruolato e inviato in Grecia. Dopo l’8 settembre 1943 fu catturato a Corfù e internato (come IMI) in campi di concentramento in Polonia. Tornato in Italia a guerra finita, trascorse a Merano un periodo di convalescenza. Si stabilì definitivamente in Alto Adige negli anni ’50 dedicandosi all’insegnamento e agli studi filosofici. È stato tra i fondatori del Centro di Cultura dell’Alto Adige e membro del comitato di redazione della rivista “Il Cristallo. Rassegna di varia umanità”.

Tra le opere filosofiche da lui curate:

I. KantFondazione della metafisica dei costumi; Introduzione, traduzione [dal tedesco] e note di Carlo Lazzerini, Milano, C. Signorelli, 1957.
G. G. F. HegelLa conoscenza scientifica: introduzione alla Fenomenologia dello spirito, Signorelli, Milano 1961. Introduzione, traduzione e commento di Carlo Lazzerini.
PlatoneIppia minore, Firenze, La nuova Italia, 1962 (Collana “Pensatori antichi e moderni”, 60). Traduzione, introduzione e note a cura di Carlo Lazzerini.
PlatoneIl primo libro della Repubblica, Firenze, La nuova Italia, 1967. (Collana “Pensatori antichi e moderni”, 67); Traduzione, introduzione e note di Carlo Lazzerini.
Gottlob FregeRicerche logiche (Collana di letture critiche e filosofiche, XII), Bologna, Calderini, 1970. A cura di Carlo Lazzerini.

c.r.

 

 

Autore: Carlo Lazzerini

Rif. bibl.: Lazzerini, Carlo, Particolarismo e universalità politica nell’idea di Europa, in: “Il Cristallo. Rassegna di varia umanità”, anno IV, n. 1 (marzo 1962), pp. 67-76.

 

 


PARTICOLARISMO E UNIVERSALITÀ POLITICA

NELL’IDEA DI EUROPA

 

di Carlo Lazzerini

 

 

«In questi ultimi anni è stato, ed è, un gran parlare di Europa e di civiltà europea, di Anti Europa e di forze avverse alla civiltà europea, ecc. Appelli, articoli di giornali e di riviste, discussioni e polemiche: insomma il nome «Europa» è stato con insolita frequenza tirato in ballo, a torto e a ragione, per diritto e per rovescio.
Ma se ci fermiamo ad analizzare un po' da vicino che cosa si intenda per Europa, ci accorgiamo subito dell'enorme confusione che regna nella mente di coloro che pur ne parlano e scrivono con tanta foga e insistenza. Qual sia il valore esatto del termine, rimane nascosto: e si potrebbe proprio ripetere il 'che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa'. Ci si serve, cioè, di un concetto del tutto indefinito, vago confuso: anzi dobbiam costatare che si tratta generalmente di parole sonore e vuote, senza nessun concetto dietro».

 

Con queste parole lo Chabod iniziava il suo corso (ora stampato in F. Chabod: Storia dell'idea d'Europa, Editori Laterza, Bari, 1961) alla Facoltà di Lettere di Milano nell'anno accademico 1943-44; ma nel riprendere il corso a Roma nel 1947-48 e più tardi, nel 1958-59, egli non le ripeteva più, come se fossero ormai inattuali.
Che cosa era accaduto? Forse che nei quattro anni, che separano il secondo corso dal primo, e poi negli undici anni, che vanno dal secondo al terzo, la confusione che egli riteneva di dover denunziare non solo «nel campo dei giornalisti» (come diceva più avanti nella sua introduzione citata), ma anche «nel campo degli storici», era stata dissipata? Sarebbe difficile poterlo affermare. In realtà, se ascoltiamo le voci della pubblicistica attuale, ci accorgiamo che il concetto di Europa è ben ancora del tutto indefinito, vago e confuso. Dell'Europa si ha un'idea che è prevalentemente naturalistica, come quella di un continente a sé, distinto dagli altri per ragioni fisiche; ma poi si è incerti persino nel definirla dal punto di vista geografico e politico, per la presenza, ad esempio, di una Russia, che non si è concordi se accogliere o no entro i suoi confini, o di un'Inghilterra che, per la sua insularità e la sua vocazione marinara, ad alcuni sembra dover restare a cavallo di più continenti.

 

All'idea di Europa ci si accosta, di solito, non per la coscienza di un ideale civile e politico, ma attratti soprattutto da sperati vantaggi economici, non ben definiti nella loro portata reale, o dalla fiducia in uno sgravio di fastidiosi atti amministrativi. Per molti l'ideale dell'Europa si riduce oggi all'aspettativa di poter viaggiare al di là dei confini senza dover rinnovare il passaporto, o di poter acquistare sigarette «estere» senza dover pagare la dogana. Anche la pubblicistica politica più seria e responsabile il più delle volte, trattando dell'Europa, ripiega su «profezie e piani e vagheggiamenti per il futuro» (come già allora notava lo Chabod) che non manifestano una reale volontà politica, ma si presentano piuttosto come la ricerca di alibi per l'evasione da doveri immediati più concreti. Il sospetto della retorica è inevitabile quando parole grosse come Patria, Europa, Umanità ecc. vengono usate troppo di frequente, e per anni, senza che poi seguano gli atti concreti che a tutta prima fanno sperare.

 

Con tutta probabilità la diagnosi che lo Chabod faceva nel '43 riferendosi al decennio immediatamente precedente è ancora valida. Ma lo storico aveva perfettamente ragione di togliere tali parole dai due corsi successivi, anche se i motivi che devono averlo indotto a ciò nel '47-'48 non dovevano essere gli stessi che nel '58-'59. Se si ripensa al periodo che intercorre tra il '43 e il '48 si ricorderà come in quegli anni l'ideale d'Europa cominciasse veramente a diffondersi nella coscienza degli europei. Pur attraverso inevitabili genericità e banalità e in un'atmosfera di ingenua aspettativa messianica, l'idea di una comunità politica organica ed unitaria, capace di preservare dal pericolo degli imperialismi pazzi e bestiali e di salvaguardare nello stesso tempo le peculiarità dei singoli popoli, si era fatta strada ed aveva cominciato a precisarsi, riprendendo contatto coi temi europeistici più vivi della cultura illuministica e risorgimentale. Negli anni più bui della guerra l'idea d'Europa aveva ridato speranza, come un valore che non era stato intaccato dai nazionalismi gretti ed al quale ci si doveva rifare per ricominciare da capo nell'imminente anno zero della storia. Almeno in senso polemico e negativo l'ideale europeo aveva cominciato a prendere una fisionomia unitaria e precisa, come quello di una possibilità politica che la storia aveva già delineato negli ultimi due secoli, e nella quale non c'era posto per nazionalismi vessatori.

 

Ripetere, dunque, nel '48 le parole del '43 sarebbe stato almeno poco generoso nei confronti di questo sforzo comune. Ma nel '58-'59 quell'atmosfera d'interesse e quella volontà di chiarimento non c'era già più e, come al giorno d'oggi, l'ideale europeo si andava già smarrendo nel torpore dell'indifferenza o nei fumi della retorica. Eppure, per altro verso, il quadro che lo Chabod aveva tracciato per il decennio antecedente al '43 non si attagliava più del tutto alla nuova situazione; anche se per tanti aspetti si era ripetuto, nel frattempo era accaduto qualcosa che lo rendeva insufficiente a descrivere la situazione del presente. La passione politica per l'Europa, diffusa tra il '43 ed il '48, aveva ora trovato un particolare campo in cui svilupparsi e aveva dato luogo ad un'abbondante serie di ricerche storiche che avevano contribuito variamente a precisare con rigore l'idea d'Europa, almeno nel «campo degli storici». Proprio le prime lezioni dello Chabod erano state un efficacissimo stimolo ad una ricerca sistematica che, chiarendo singoli periodi dello svolgimento di tale idea, aveva offerto nel suo insieme un quadro più chiaro dello sviluppo della coscienza europea nei secoli civili che ci precedono. Era così avvenuto che mentre l'ideale dell'Europa, come fattore politico attivo, si era andato di nuovo disperdendo, il chiarimento di tale ideale sul piano storiografico si era andato sempre più perfezionando.
Tutto questo può sembrare per lo meno strano. Ci saremmo aspettati che alla precisazione concettuale sul piano scientifico dovesse far seguito una maggiore chiarezza e penetrazione anche sul piano della pubblicistica; si sarebbe potuto pensare che l'ideale politico avrebbe dovuto trovare alimento e ragione di forza in una maggiore consapevolezza storica; e invece è accaduto proprio il contrario. Per eliminare il paradosso verrebbe fatto di pensare che i due processi siano legati da un ben preciso rapporto di dipendenza, nel senso che il perfezionamento del concetto d'Europa sia, almeno in parte, la causa del diminuire dell'efficacia pratica dell'idea d'Europa. Quanto più veniva chiarito il significato dell'ideale europeistico e quanto più venivano messe in luce le sue componenti morali, politiche e culturali, tanto più si dimostrava, per contrasto coi tempi, la sua inattualità.

Ma una spiegazione del genere è valida entro i limiti ben ristretti e, semmai, potrebbe servire soltanto a farci capire le reazioni della cultura più viva e più attenta ai risultati della storiografia. Per troppi aspetti è evidente che, a indebolire nella cultura comune l'ideale di una realtà politica europea, hanno contribuito soprattutto le vicende politiche del periodo che va dal '48 ad oggi, che creavano intorno a tale ideale un'atmosfera asfittica. In un mondo diviso in blocchi animati da intransigente settarismo e in un clima di lotte ideologiche intolleranti c'è poco posto, evidentemente, per l'ideale europeo; tanto più che il nostro continente si trova ad essere solo marginalmente attore nell'attuale divisione del mondo e si dispone ad essere più terreno di scontro che protagonista. Al clima di aspettativa fiduciosa, di cui aveva bisogno l'idea di una comunità civile più vasta e di maggiore respiro umano, è subentrato un clima di apprensione e di sospetto. Per altro verso poi, il risorgere, prima timido e clandestino, ma poi sempre più scoperto e conclamato, di atteggiamenti nazionalistici, di revanche o di grandeur, che dell'Europa sono l'antitesi più radicale, non poteva col tempo non gettare discredito sull'ideale europeo.

 

Per questo, se le lezioni dello Chabod son nate per rispondere, come egli dichiarava, «ad un problema storiografico strettamente allacciato con i problemi del presente» e per dare un corpo conoscitivo alla «fede in alcuni valori supremi, morali e spirituali che sono creazione della nostra civiltà europea», oggi esse sono per noi diversamente preziose in quanto, mentre ci aiutano a capire l'idea d'Europa, come è nata e come si è andata perfezionando nel tempo, ci mettono anche in grado, per contrasto, di intendere più a fondo un aspetto della crisi che ha caratterizzato i nostri tempi.
Merito grande dello Chabod è stato di avere risolutamente sbarazzato il terreno dell'indagine da ogni residuo di quel naturalismo che è prepotente nella cultura comune e che grava pesantemente sul concetto d'Europa, distorcendone il significato.

 

«Quando noi diciamo Europa, oggi, intendiamo alludere non soltanto ad una certa estensione di terre, bagnate da certi mari, solcate da certe catene montuose, sottoposte a un certo clima, ecc.; intendiamo, assai più alludere ad una certa forma di civiltà, a un certo 'modo di essere' che contraddistingue di primo acchito l’‘europeo’ dall'uomo di altri continenti. L’‘europeo' è assai più che il 'bianco'...: è, anzitutto, soprattutto, un certo abito civile, un certo modo di pensare e di sentire, a lui proprio e diverso ecc.» (pag. 12).

 

Questa insignificanza per il concetto d'Europa degli attributi geografici ed etnici non è un criterio metodologico (come potrebbe sembrare per il fatto che è dichiarata senza giustificazione nella premessa delle lezioni), non è, cioè, una delimitazione della ricerca, ma è la tesi fondamentale che tutta l'opera intende comprovare nel suo svolgimento. Tanto è vero che la prima redazione delle lezioni la ripeteva alla fine, sottolineandola come la conclusione di tutto il corso.

 

«Il concetto di Europa... è costituito da elementi morali, culturali, spirituali, non da elementi naturalistici. Parlando dell'idea di nazione, abbiamo visto come due fossero i modi di considerare la nazione : dal punto di vista « naturalistico » l'uno (e lo sbocco fatale ne sarà il razzismo); dal punto di vista «volontaristico» l'altro.
Ora, il senso europeo è tutto costituito da volontarismo, non da naturalismo... Possiamo dunque concludere che, nel formarsi del concetto d'Europa e del sentimento europeo, i fattori culturali e morali hanno avuto, nel periodo decisivo di quella formazione, preminenza assoluta, anzi esclusiva» (pagg. 203-204).

 

Cercare di seguire lo Chabod nella documentazione di questa sua tesi significherebbe seguire passo per passo tutto il corso, nella sua abbondante messe di spunti e di riferimenti, ed anzi rifarsi a quasi tutta la sua opera di storico, dai. primi saggi sul Machiavelli alle pagine sulla politica estera italiana. Qui basta rilevare che l'argomento decisivo che riaffiora di continuo in tutta la serie dei momenti presi in considerazione è dato dal fatto che la coscienza di essere europei non nasce mai da una cognizione geografica, ma dalla sensazione di vivere in una civiltà comune, la cui estensione non coincide necessariamente con quella del continente.

Lo Chabod segue fin dall'inizio un criterio storiografico che è particolarmente efficace per mettere in luce questo fatto. Partendo dal presupposto che la storia è il prodotto della volontà degli uomini, e che anche gli accadimenti, naturali o umani che siano, in tanto interessano la storia in quanto gli uomini ne prendono coscienza e li fanno oggetto della loro volontà, egli si propone di ricercare non quali siano i «fatti» che han costituito l'Europa, ma come è nata la «coscienza» di tali fatti. La storia d'Europa può esser così vista indipendentemente dal presupposto etnico o geografico ed esser ricercata nella testimonianza di coloro che, dall'antichità ai nostri giorni, hanno lasciato traccia della loro coscienza di europei; e il risultato della ricerca è, in tutti i casi, che tale coscienza è sorta non sulla base di presupposti naturalistici, ma per la volontà di interpretare e realizzare un certo ideale di civiltà. Anzi, si può notare (anche se è argomento che lo Chabod sfiora appena) che, ogni qual volta l'ideale degli europei si consolida prevalentemente sulla base di elementi etnici o geografici, la sua efficacia si perde o diventa addirittura negativa, mutandosi in fattore di conservazione o di arresto.

 

In verità la coscienza europea si forma proprio per la differenziazione dell'europeo da chi tale non è e per contrapposizione del continente agli altri continenti; ma la coscienza della differenza diviene feconda solo quando il confronto non è preclusivo e non porta all'idoleggiamento di primati naturalistici, e serve soltanto a rendersi conto delle proprie virtù e dei propri limiti, per accrescere le prime e superare gli altri. Anzi si può dire che nella ricerca dello Chabod, al di sotto dell'analisi dei singoli casi, la traccia dello sviluppo storico dell'idea d'Europa è data proprio dal diverso reagire della coscienza degli europei nel confronto con gli altri. All'inizio, nella civiltà ellenica, la coscienza europea si forma su un fondamento polemico, per orgogliosa differenziazione dal mando asiatico; e finché resiste su questa posizione, nell'ecumene romana o cristiana (che si riconoscono in opposizione immediata al barbaricum o all'infedele), non fa un passo avanti. Siamo ancora alla preistoria di quella coscienza. Solo nell'età moderna essa si fa precisa e chiara, quando si riprende si il motivo ellenico della radicale opposizione fra Occidente e Oriente  ̶  la libertà nella molteplicità degli stati da una parte, e la servitù nella uniformità dispotica dall'altra ̶ , ma ci si serve della contrapposizione con gli altri continenti non più soltanto per una superba affermazione di sé, ma anche per riconoscere i propri limiti ed ascoltare la lezione degli altri. Paradossalmente si può dire che l'idea d'Europa matura soltanto in un ambiente di polemica anti-europea, quando, beninteso, la polemica viene condotta non perché veramente si voglia la fine dell'Europa, ma, anzi, perché se ne vuole una più alta vita; quando, cioè, la polemica nasce «non da odio, ma da grande amore» (pag. 70).


Il mito della saggezza e della tolleranza dei cinesi, le fantasie sugli imperi del Messico e del Perù, gli stati immaginati nelle utopie dei filosofi, la nostalgia per il buon selvaggio e per lo stato di natura, tutto serve per denunziare le contraddizioni interne della politica e della cultura europee, per potenziarne le peculiarità positive e per proporre un quadro di civiltà sempre più ampio e comprensivo. Procedendo in questo allargamento di orizzonte è evidente che l'idea d'Europa nella sua piena maturità non avrà più di fronte a sé «gli altri», in cui scontrarsi e per cui riconoscersi. Di questo passo è inevitabile che l'idea di una civiltà finisca con l'essere l'idea della civiltà; il suo universalizzarsi è fatalmente il suo perdersi. Che è poi quello che lo Chabod implicitamente suggeriva nella rapida conclusione del suo primo corso, là dove faceva constatare come dalla seconda metà del secolo XIX gli europei sempre meno si sono sentiti europei, proprio perché molti degli attributi specifici della loro civiltà erano ormai diventati patrimonio comune di tutti. In una condizione del genere quel che resta di più proprio dell'Europa è soltanto la sua storia e le sue tradizioni: «più il suo passato che il suo presente» (pag. 197). È ben vero che resta pur sempre un certo modo di sentire e di pensare, non sempre facilmente precisabile, ma sempre intuibile, «...che continua a rivelarti L'Europa» (ibid.); ma questo è elemento di colore, quasi nota superficiale di folklore. Se, pur nella sua dispersione, l'ideale europeo sopravvive, ciò avviene perché nel suo espandersi l'idea di Europa non ha potuto recidere le sue radici storiche, né ha potuto risolvere i problemi che porta con sé.

 

Se prescindiamo dalla prospettiva del tempo e cerchiamo di individuare gli attributi dell'idea di Europa, quali si sono conservati nella storia e in quella forma che hanno assunto nella piena maturità dell'idea, troveremo che essi non son tutti sullo stesso piano e si presentano piuttosto come problemi pratici che come soluzioni già proposte.
Europa significa civiltà urbana: quindi residenza stabile, prevalere dell'agricoltura sulla caccia e sulla pastorizia, sviluppo dei commerci e delle industrie; quindi, anche, vita di società, cura dell'aspetto esteriore degli uomini e delle cose, cortesia e gentilezza, umanità. Una civiltà urbana che si rivela anche, e soprattutto, nelle piccole cose, nelle sfumature appena percettibili, se prese a sé, ma che nel loro insieme qualificano inconfondibilmente il clima europeo. La differenza più grande fra noi e gli orientali, poteva dire con spirito di paradosso il Voltaire, è il modo con cui noi trattiamo le donne.


Europa significa anche civiltà umanistica; e quindi civiltà che celebra il lavoro, che ripudia l'inerzia fatalistica, che sollecita la volontà di conoscere e trasformare il mondo. Le scienze e le tecniche del mondo moderno nascono e si sviluppano in Europa, danno al continente un'unità culturale e morale che supera le divisioni politiche. La «repubblica delle lettere», la «società degli spiriti», che sorge nell'Europa del Settecento sullo sfondo dei contrasti diplomatici e militari delle potenze, orienta sempre più l'europeo verso la tolleranza, il rispetto, la volontà di comprensione delle fedi e dottrine diverse, in un modo tutto proprio e particolare.
Ma tutti questi caratteri, se pur sono inequivocabilmente attributi dell'idea di Europa, non sussistono senza contrasto, non possono veramente dirsi patrimonio sicuro. Per un verso recano ancora i segni delle lotte che hanno dovuto sostenere per affermarsi, per altro verso rispondono a bisogni universali dell'umanità e sono facilmente suscettibili di un rapido trapianto in altri ambienti culturali. In quanto sono tipicamente europei sono ancora instabili e non hanno inciso a fondo nel costume; in quanto sono ormai ben saldi, sono già patrimonio di tutti.

Il carattere invece che l'Europa ha sempre riconosciuto come suo, e soltanto suo, fin dalla preistoria della sua coscienza, è da ricercare piuttosto, anziché sul piano del costume e della cultura, sul piano politico. L'idea di un'Europa come sede di una libertà politica realizzata in virtù di una pluralità di Stati, che esclude l'uniformità asservitrice del dispotismo, quell'idea per cui già i greci antichi si sentivano europei di contro agli asiatici, si mantiene costante e si sviluppa e perfeziona di continuo nel corso della sua storia. Quando quell'idea vien meno, nell'Alto Medioevo o nell'Impero romano, di Europa, a rigore, non si può più parlare. I suoi legami con tutta la storia del continente son tali che essa non può essere esportata altrove: fuori del suo ambiente naturale immediatamente si deforma.

Da questo punto di vista carattere precipuo dell'Europa è dunque un'organizzazione politica che è unitaria per certi principi comuni, ma è divisa per quella molteplicità dei suoi stati, alla quale non si può rinunciare se si vogliono garantire le libertà, la ricchezza del tessuto civile e culturale, la varietà e le peculiarità dei popoli. Seguire la storia del diverso conformarsi di questa organizzazione significa ripercorrere tutti i momenti della storia politica europea nell'età moderna, dall'affermarsi delle autonomie di contro l'universalismo medioevale alla politica dell'equilibrio, ai tentativi imperialistici, al sorgere dell'idea di nazione. Da questa storia risulta evidente che l'ideale struttura politica europea è, per sua natura, sempre insidiata dalle due forze opposte che la compongono e rischia sempre di venire travolta o dall'unificazione livellatrice (che è poi in realtà tentativo di predominio di una parte sulle altre) o dal particolarismo chiuso (che sfocia ancora in guerre di predominio a vantaggio di una sola parte). I tentativi per uscire da questo impasse falliscono nella storia moderna l'uno dopo l'altro, ma l'ideale risorse sempre dopo il fallimento e ripropone il suo problema. Quando nella prima metà del secolo XIX si afferma l'idea di nazione e di una missione affidata ai singoli popoli, che non è incompatibile con la maggiore comunità europea, ma anzi la sostiene e la alimenta; quando, cioè, sul fallimento della politica settecentesca dell'equilibrio delle potenze si impone l'ideale risorgimentale del «concerto dei popoli», sembra che il problema sia sulla via di essere risolto definitivamente. Ma se l'ideale della nazione è estremamente efficace per chiarire i termini del problema in quanto, per dirlo con felice espressione dello Chabod, storicizza i caratteri tipici della civiltà europea, li rende, cioè, più concreti, esso poi non si traduce in forza politica che garantisca la soluzione del problema. Il rinascere, dal suo stesso seno, degli imperialismi e dei nazionalisti, che dalla fine del secolo fino ai nostri giorni hanno turbato la vita europea, ne è la prova più evidente.


L'ideale d'Europa, in quanto ha di più peculiare, è dunque un ideale problematico; ci si presenta non come una conquista già realizzata, da ammirare e conservare e di cui compiacersi, ma come un compito pratico niente affatto ancora risolto. Nel che, in definitiva, è proprio la sua forza: perché un ideale che sia solo oggetto di contemplazione e di celebrazione è un ideale ormai morto, che, se, per inerzia, riesce ancora a produrre istituti e organismi civili, non riesce poi a sostenerli e li lascia isterilire in vuote accademie che la storia travolge. Da questo punto di vista possiamo forse dire che il pericolo più grave che l'idea d'Europa ha corso ai nostri tempi è costituito proprio da quell'europeismo retorico che vagheggia istituzioni europee, senza affrontare il problema della necessaria coesistenza del particolare e dell'universale, delle nazioni singole e della comunità generale. Quando si ignora il problema che la realtà storica dell'Europa porta in sé, o, peggio ancora, lo si ritiene risolto per la virtù taumaturgica di ideologie che vengono dall'Occidente o dall'Oriente, si corre il rischio di favorire, senza neppur rendersene conto, lo sviluppo disarmonico ed antagonistico delle due forze europee e la loro degenerazione. Se si ritiene di poter realizzare l'Europa con uno spirito da Santa Alleanza, si può bensì arrivare alla creazione di istituti comuni ed alla riunione di Congressi, ma si apre anche la via, pur senza volerlo, alle degenerazioni naturalistiche dei particolarismi, alle diatribe sui sacri confini geografici, ai razzismi, al Volkstum, e si spiana così il terreno al risorgere degli imperialismi. Come è appunto nella cronaca dei nostri giorni.