Sul sopralluogo bolzanino di Pasolini per il Decameron (1970).

P.P. Pasolini

 

 

Autore: Carlo Romeo

 

Rif. bibl.: Romeo, Carlo, Mein lieber Cepperello: santità e grazia nel sopralluogo bolzanino di P.P. Pasolini, in: Pasolini e l’Alto Adige a trent’anni dal Decameron, a cura di Daniele Barina, Ed. Artisti Senza Frontiere, Bolzano 2000.

 

 

Mein lieber Cepperello: santità e grazia

 

nel sopralluogo bolzanino di P.P. Pasolini

 

di Carlo Romeo

  

«Io ho vivendo tante ingiurie fatte a Domenedio, che, per farnegli io una in su la mia morte, né più né meno ne sarà. E per ciò procacciate di farmi venire un santo e valente frate, il più che aver potete, se alcun ce n’è, e lasciate fare a me…» (Decameròn, gior. I, nov. I)

 

«Questo di Bolzano è uno dei più bei musei che abbia visto: ero quasi commosso durante la visita; anzi, ero addirittura commosso: c’è una grazia straordinaria in quelle sale.» (P.P. Pasolini)

 

L’appassionata ricerca di ambienti per il Decameron porta Pasolini a Bolzano nell’agosto del 1970. Il capoluogo altoatesino, com’è noto, gli fornirà la maggior parte dei luoghi per la novella di Cepperello, che sia nel progetto iniziale sia nella struttura finale del lungometraggio assolve la funzione di filo conduttore di tutto il primo tempo. La Borgogna, dove nella novella boccaccesca ser Cepperello viene inviato a riscuotere crediti da messer Musciatto, è quindi sostituita da un nord tedesco «tra medioevo e Quattrocento, ma sostanzialmente astorico, poetico, non databile». La soluzione altoatesina, adottata secondo criteri meramente estetici, appare particolarmente felice anche applicando una prospettiva storico-filologica, da Pasolini certamente non voluta. Bolzano rappresenta infatti un’ambientazione storicamente convincente della falsa confessione del mercante e dell’inganno del «santo frate» sia per la realtà mercantile della Bolzano medievale (con l’ininterrotta presenza di imprenditori italiani e specificamente toscani) sia per la forte tradizione di devozione religiosa popolare di questa terra, che, partendo dalla Controriforma, raggiungerà il culmine della celebrazione nell’immagine dell’heiliges Land Tirol.

«Sarei felice» scrive Pasolini «se trovassi un altoatesino che fosse in grado di farmi il frate, tutto d’un pezzo, ma in fondo ingenuo e santo (la santità di Ciappelletto è in realtà sua)». L’ingenuità del frate confessore boccaccesco è infatti direttamente proporzionale alla sua santità. Una santità che, ingannata dalla scaltrezza mercantile “tosco-napoletana” del Cepperello pasoliniano, fa rima con tradizione, o meglio con l’amore della tradizione. È su quest’ultimo elemento che s’incentrano alcune dense righe del «sopralluogo» a Bolzano.

 

«A Bolzano sceglierò anche dei personaggi e delle figurazioni: anche qui cercherò l’atipico che sia tuttavia concreto. Ho già visto delle facce stupende, soprattutto di uomini anziani, che ricordano tutto quello che di poetico si sa del mondo tedesco (…) Questo momento del lavoro, la ricerca dei personaggi e dei luoghi, è forse il momento più bello, e la ragione vera per cui il cinema mi piace tanto. Certo, ripeto, si hanno anche dei dolori.

Questa volta il dolore è stato uno, ben preciso, ben chiaro: è stato il registro continuo della mia ricerca attraverso mezza Italia: tale dolore consiste nel vedere che in questi ultimi due o tre anni l’Italia neocapitalistica ha distrutto, con inaudito cinismo, l’Italia. Non vorrei sembrare retorico o sentimentale, eppure devo dire che questo per me è diventata un’ossessione. Quando penso a questa distruzione mi prende un furore che non riesco neanche a parlare: il furore dell’impotenza. Non c’è niente da fare, il Potere, pur continuando a dichiararsi tradizionalista, conservatore, protettore della cultura occidentale, in realtà ha deciso di non conservare nulla, di ignorare ogni tradizione e di essere completamente privo di ogni rispetto per la cultura, appunto, occidentale. Non appartengono alla cultura occidentale i castelli normanni in Sicilia o i villaggi nelle Madonie? Non appartiene alla cultura occidentale la struttura delle città altoatesine? Eppure per poter salvare non dico un castello, ma una casetta, un muricciolo dalla devastazione neocapitalistica, nessuno può fare nulla.

Forse è per questo che ho visto con tanto amore il museo della città di Bolzano; perché in esso l’amore per la tradizione è grazia (e pensare che ho saputo che i bolzanesi lo ignorano!). È inutile, ormai l’amore per il passato è una sfida al potere, che vuole disfarsene.»

 

Il sopralluogo pasoliniano coincide dunque con una delle fasi più sofferte della sua riflessione sulla devastazione che il neocapitalismo si accinge a fare della tradizione regionale, popolare, dialettale italiana. Anche se Pasolini non lo segnala esplicitamente, l’immagine stessa di Bolzano in quell’agosto del 1970 potrebbe aver rappresentato ai suoi occhi, nella sua prospettiva, lo scontro tra aggressione e resistenza, tra integrazione e eccezione, tra omologazione e particolarità. La questione altoatesina ha appena superato gli anni più caldi del terrorismo. Fervono, tra mille polemiche, le trattative che porteranno di lì a qualche mese all’approvazione del “pacchetto”, alla nuova autonomia provinciale ottenuta dalla lotta tenace di una compatta minoranza linguistica. I vicoli angusti, i profili gotici, i portici della città vecchia si contrappongono icasticamente ai capannoni della zona industriale, ai larghi viali e ai cantieri frenetici dei quartieri della nuova Bolzano.

Lo stupore e la commozione di Pasolini nelle sale del Museo Civico di Bolzano, di fronte ai segni di un mondo caparbiamente teso alla tutela delle proprie peculiarità, è lo stesso registrato da quasi tutti i viaggiatori italiani – in particolare letterati – che siano passati in Alto Adige dagli anni Venti in poi. “Grazia”, “amore” e “tradizione” sono i vocaboli più ricorrenti per esprimere la tenerezza verso un piccolo mondo dato per “spacciato” di fronte al greve e grigio avanzare della modernità.

Non poteva essere presente nel “sopralluogo” pasoliniano la considerazione di quanto di quell’«amore della tradizione» sarebbe entrato – o era già entrato - in rapporto funzionale con un progetto politico di difesa etnica e di gestione del «Potere». Quanto di quella «grazia» avrebbe rivelato i caratteri dell’omologazione e del folclorismo.

 

Bolzano, agosto 2000. Il forestiero tenta un nuovo sopralluogo, a distanza di trent’anni da quello pasoliniano. La veste architettonica del Museo Civico non è stata «devastata», anzi ha compiuto un balzo all’indietro nel tempo con la restaurazione della torretta del primo Novecento. Le Stuben e i costumi sono sempre lì, anche se, a quanto si dice, i bolzanini continuano ad ignorarlo. Dall’altra parte della strada centinaia di turisti in fila attendono pazientemente di entrare al Museo Archeologico, dove le più aggiornate tecnologie riescono a conservare quasi intatto il corpo di un uomo dell’eneolitico. Proprio nel cuore dell’estate la tradizione sembra particolarmente rappresentata in questa terra, dalle mostre nei castelli alle sagre di paese, dai concerti alle serate medioevali, mentre s’è spenta appena l’eco della festa dello Speck. Ogni angolo su cui si posa lo sguardo sembra celebrare l’«amore per la tradizione».

Ma, si chiede il forestiero, esso può dirsi ancora «grazia»? Anche qui, come nel resto del mondo, nulla sembra più essere gratis et amore Dei. E mentre si domanda ancora se questa grazia ci sia mai stata veramente o fosse solo un’illusione, torna, beffardo, alla mente l’ironico inciso di Cepperello moribondo, che chiede di cercare un santo frate, il più santo che ci sia, «se alcun ce n’è».

 

Nota: Le citazioni da Pasolini sono tratte da La Trilogia della vita, Cappelli, Bologna 1977, pp. 251-254.

 

Decameron, Pasolini