Piero Siena nasce a Castelbelforte (Mantova) nel 1912. Alla fine degli anni Venti si iscrive all’Accademia di Venezia e allestisce le prime mostre personali. Agli anni Trenta risalgono i primi contatti con l’Alto Adige, dove risiedono suoi parenti. Nel 1941 partecipa alla campagna di Russia. È  internato in un campo di prigionia per militari italiani, dove si dedica all’organizzazione dell’assistenza. Conosce membri fuoriusciti del Partito comunista italiano, al quale si iscrive.
Tornato a Bolzano nel dopoguerra, si dedica all’altra sua passione: l’automobile. Corre in diverse Mille Miglia. Nel frattempo si impiega nel settore vendite della Castrol. I numerosi viaggi di lavoro, che lo portano in tutto il continente, gli permettono di confrontarsi con gli sviluppi artistici contemporanei. Si volge sempre più alla collaborazione a riviste culturali e all’allestimento di mostre. Tra gli artisti e critici con cui stringe un solido rapporto vi sono Gino Severini, Renato Birolli, Antonio Corpora, Sandro Bini, Renato Guttuso e molti altri. Nel 1986 partecipa alla fondazione del Museo d’Arte Moderna di Bolzano, che dal 1991 prende il nome di Museion. Piero Siena ne assume la direzione, mantenendola per 14 anni. Si spegne a Bolzano nel 2003.

Nel novembre 2004 fu organizzata una “mostra omaggio” a Piero Siena, su iniziativa della Provincia Autonoma di Bolzano (Assessorato alla Cultura italiana), della Città di Bolzano (Assessorato alla Cultura) e di Museion.
La mostra, i cui spazi si dividevano tra Castel Mareccio, Museion e Centro Trevi, si articolava in cinque sezioni:
Anni di arte e di vita (a c. di Gabriella Belli e Paola Tognon)
La memoria (a c. di Andreas Hapkemeyer e Paola Tognon)
Il territorio e gli anni di Museion ((a c. di Letizia Ragaglia)
Una collezione di una vita (a c. di Fulvio Giorgi)
L’intuizione (a c. di Paola Tognon).

 

Hommage à Piero Siena, SilvanaEditoriale 2004


Rif. bibl.: Colori, conflitti e passioni nella corsa di un secolo, a cura di Silvia Chiesa e Carlo Romeo, in: Il colore della vita. Die Farben des Lebens. Hommage à Piero Siena, SilvanaEditoriale, Cinisello Balsamo (MI) 2004, pp. 28-38.

 

Usando un’immagine assai famigliare a Piero Siena (pilota in diverse Mille Miglia), quella che segue potrebbe essere definita una rapida "corsa" attraverso citazioni che evocano incontri, letture, conflitti e passioni che ne hanno accompagnato la formazione, l’attività e la riflessione critica . Di fronte alla complessità e alla ricchezza degli stimoli che Siena ha colto ed elaborato nel suo lungo percorso, questa piccola e frammentaria selezione può offrire solo alcuni motivi di suggestione intorno ai temi più presenti alla sua attenzione, soprattutto (ma non solo) in merito al rapporto tra arte, politica, impegno e ideologia.
Come "filo rosso" si sono utilizzati alcuni passaggi (in corsivo) tratti dal racconto autobiografico dello stesso Siena: Anni & Vita, a cura di Paola Tognon (SilvanaEditoriale, Cinisello Balsamo, Milano, 2002).

 


- Il grano e la luce

 

…Mi ricordo che [mio padre], per mostrare il grano durante la vendita, prendeva della carta da zucchero blu, nella quale ne metteva un pugno. In questo modo infatti il colore giallo del grano risaltava meglio. Forse è per questo che anche Van Gogh si serviva del blu e del giallo, e forse è per lo stesso motivo che io ho sempre amato molto i colori espressivi della luce e dell’azzurro.  
(P. Siena, Anni & Vita, p. 16)

 

«Invece di cercar di rendere esattamente quello che ho davanti agli occhi, mi servo, per esprimermi con più forza, di colori arbitrari. […] Vorrei fare il ritratto di un amico artista, che ha dei gran sogni, che lavora come l’usignolo canta, perché è quella la sua natura. […] Vorrei mettere nel quadro tutta la stima, tutto l’amore che ho per lui. Lo dipingerò quindi tale e quale, il più fedelmente possibile, per cominciare. Ma il quadro non è finito così. Per finirlo, ora, sarò un colorista arbitrario. Esagero il biondo della capigliatura, arrivo ai toni aranciati, ai cromi, al limone pallido. Dietro la testa, invece di dipingere il solito, banalissimo muro dell’appartamento meschino, dipingo l’infinito, faccio un fondo semplice dell’azzurro più ricco e più intenso che mi sia possibile, e con questo semplice accostamento della testa bionda, luminosa sul fondo azzurro intenso, ottengo un misterioso effetto come di stella nell’azzurro profondo.»
Vincent Van Gogh
(Lettera al fratello Theo, da Arles, agosto 1888, in Lettere al fratello, a cura di M. Valsecchi, trad. it. di O. Del Buono, Milano, Bompiani, 1946, pp.122-3)

 

 

- Dentro il Novecento

 

A mio padre e a mia madre in fondo piaceva che dipingessi […] Magari a volte mi prendevano un po’ in giro, ma mi lasciarono persino allestire una stanza dove poter lavorare e non mi rimproverarono molto quando abbandonai la scuola. Anzi, mio padre mi diede i soldi per un viaggio a Parigi poco prima di morire.
A Mantova, entrai ben presto a far parte del cosiddetto gruppo del Novecento, di recente costituzione…
 (P. Siena, Anni &Vita, p.18)

 

«[…] Perché questa pittura odierna ha molti pregi. Coscienziosa fino allo scrupolo, proba senza ciarlataneria, o almeno si sforza di dissimularla; studiata, o si sforza di parerlo; decorativa, o si sforza di divenirlo; lo sforzo è la sua legge, e lo sforzo è il suo pathos. Non è arrivata a quel punto dove lo sforzo scompare: dove il mestiere, tanto è sicuro, pare che non esista. La pittura, per questi nostri pittori d’avanguardia, non è ancora un mezzo, ma un fine terribilmente presente.»
Margherita Sarfatti
(Il gruppo del Novecento, in Paola Barocchi, Storia moderna dell’arte in Italia: manifesti, polemiche, documenti. Tra neorealismo e anni Novanta, vol. 3, Torino, Einaudi, p.89)

 

 

- Inquietudini

 

I giovani allora si raggruppavano secondo le correnti alle quali aderivano, in genere d’avanguardia. All’università ad esempio c’erano i GUF, Gruppi Universitari Fascisti, che però il fascismo non fu mai in grado di dominare completamente. Molti artisti e critici d’arte partirono infatti dai GUF per poi contestarli ed infine entrare nel partito comunista. Il rapporto tra l’arte e la politica era veramente forte in quegli anni: il fascismo stesso, in fondo, imponeva all’arte di essere politica.
(P. Siena, Anni & Vita, pp. 22-23)

 

«Ci sono vari "malcontenti" del fascismo, tra i giovani, intellettuali e altri. Si tratta della "sinistra", dei giovani del fascismo che fanno capo ai vari giornali e riviste che conosciamo e che sono molto più numerosi di quello che non appaia. Il complesso di questi elementi malcontenti rappresenta, per lo meno allo stato potenziale, un'enorme forza antifascista che noi dobbiamo tendere a mobilitare perché senza di essa è difficile se non impossibile abbattere il fascismo»
Mario Montagnana
(Relazione del luglio 1935, in Paolo Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano, vol. II: Gli anni della clandestinità, Einaudi, Torino 1969)

 

 

- Espressione e lotta

 

La prima Biennale che ho visto è stata quella del 1930 […] Com’è facile immaginare, mi fece una grande impressione: avevo solo diciott’anni e, andando alla Biennale, mi sentivo un cittadino del mondo! Ciò che mi colpì più di tutto fu il padiglione tedesco […] mi stupirono le opere dei grandi maestri dell’Espressionismo, di cui si sapeva pochissimo. Io e gli altri ragazzi pensammo subito che per lottare contro il fascismo, del quale naturalmente eravamo avversari, questo fosse il linguaggio più adatto…
(P, Siena, Anni & Vita, pp. 20-21)

 

«Cognac, Whisky, Punch svedese, / vedo maschere orribili!! / Sono allacciato da collane coralline di teste rosse / - oh il cielo come è vicino - / e angeli ingessati sono scesi dal soffitto. / Suonano i pifferi / ora – tanta nostalgia del negro, - / hanno denti verdi e qual e là han perso il bronzo. / I lampioni del gas sono palloni, gettati da qualcuno nell’aria / e pendono come scemi / - sempre negli stessi luoghi - / Sono come un bambino in migliaia di Lunapark / e come pellicole, il film / gira rosso e giallo / e i tavoli cambiano colore e forma / e se ne vanno a spasso / in mezzo alle grosse gambe delle signore e alle vesti bianche. / Uno gira in continuazione. / Il mio tavolo è un pezzo ovale di marmo, / - i circoli diventano uova - / e le note fanno come una gragnuola di pallini piccoli buchi nel mio cervello. / Gli angeli di gesso sono svaniti, / dice che sono al primo piano a giocare a biliardo / - Un marco per un’ora!! - / Cameriere!! – per favore dell’acqua di selz - / Sono una macchina, con il manometro rotto - ! / E tutti i cilindri giocano in tondo - / Vedi: siamo tutti quanti nevrastenici.”
George Grosz
(Kaffeehaus in D. Schmidt [a cura di], Schriften deutscher Künstler der zwanzigsten Jahrhunderts, I: Manifeste, Manifeste. 1905 – 1933, Dresda, Verlag der Kunst, 1965, p.69)

 

 

- Dinamismo

Mi aveva profondamente colpito l’affermazione di Marinetti sul fatto che un’automobile in corsa fosse più bella della Vittoria di Samotracia. La velocità e il correre si avvicinavano in effetti all’idea che io avevo della poetica futurista come sviluppo del movimento…
(P. Siena, Anni & Vita, p. 38)

 

«1. Noi vogliamo cantare l’amore del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerarietà. 2. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia. 3. La letteratura esaltò, fino ad oggi, l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. 4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile [sic] in corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo…un automobile [sic] ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia. 5. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita. […] 11. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa; canteremo le maree multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano; le officine appese con le nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasi giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta.”
Filippo Tommaso Marinetti
(Fondazione e Manifesto del futurismo, pubblicato sul “Figaro” di Parigi il 20 febbraio 1909, in M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del novecento, Milano, Feltrinelli, [1986], 1998, pp. 374 – 376)

Piero Siena pilota in una delle Mille Miglia, primi anni '50

 

- Incontri importanti

 

…Per me era stato importante conoscere anche Sandro Bini, che all’inizio per vivere faceva il correttore di bozze a Milano: Bini è stato il primo che abbia scritto su Birolli, su Tomea o sul primo Sassu. Ci vedevamo spesso e io lo stimavo molto. Morì in un bombardamento durante la guerra, mentre aspettava Birolli alla stazione di Verona…
(P. Siena, Anni & Vita, p. 62)

 

«Su nomi di giovani per i quali […] l’agitazione riflessa di un problema era questa volta felicemente compresa in un senso di distinzione e di forma, ugualmente dalla necessità di ridare alla cultura del proprio intimo gesto un contenuto di manifestazione sociale, una prerogativa di movimento. Birolli, Sassu, Manzù, Grosso, Tomea, in quegli anni che determinarono, col gusto delle posizioni rare e profetiche, […] il crollo degli ideali formali che la teorica del “novecento” non aveva risolto al di là dei termini dell’unità di provincia, ebbero veramente un contatto di posizione: […] moralità di coscienza, misura poetica di comprensione, la necessità espressiva del gesto, del gesto qualunque, da risolvere poi, attraverso il processo dell’arte, nella sofferta purità di una legge.”
Sandro Bini
(Responsabilità della forma – scritti su Renato Birolli e sulle arti a Milano dal 1936 al 1943, a cura di Zeno Birolli e Francesco Bartoli, Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1971, pp. 62-65)

 

 

- Realismo sovietico

 

Per anni ho trascinato […] dentro di me il profondo contrasto tra il compiacimento e il piacere intimo che capivo di nutrire davanti all’arte astratta, e, dall’altra parte, le teorie del Realismo sovietico e quelle sull’impegno dell’arte.
(P. Siena, Anni & Vita, p. 23)

 

«Il compagno Stalin ha definito i nostri scrittori ingegneri dell’animo umano. Cosa vuol dire? Che obblighi implica? Prima di tutto vuol dire che dovete conoscere la vita per poterla rappresentare fedelmente nella produzione artistica, per rappresentarla non accademicamente, come una cosa morta, non semplicemente come un “fatto oggettivo”, ma interpretando la realizzazione nel suo sviluppo rivoluzionario. La fedeltà e la concretezza storica della rappresentazione artistica devono conciliarsi nel contempo con il compito di plasmare ideologicamente e istruire il popolo a operare nello spirito del socialismo. Questo metodo è ciò che noi chiamiamo realismo socialista nella letteratura artistica e nella critica letteraria.»
Andreij Zdanov
(Pervyi vsesojuznyj s’ezd Sovetskich pisatelej, Mosca, 1934, p. 4, in Igor Golomstock, Arte totalitaria nell’URSS di Stalin, nella Germania di Hitler, nell’Italia di Mussolini e nella Cina di Mao, Milano, Leonardo, 1990, p. 105)

 

«Non tutto ciò che è accessibile è geniale, ma tutto ciò che è veramente geniale è accessibile; e un’opera sarà tanto più geniale quanto più sarà accessibile alle grandi masse del popolo […] il popolo non ha bisogno di musica che non riesce a comprendere.»
Andreij Zdanov
(Soveščanie dejatelej sovetoskoj muzyki v CK VKP/b, Mosca, 1948, pp.143-144, in Igor Golomstock, Arte totalitaria nell’URSS di Stalin, nella Germania di Hitler, nell’Italia di Mussolini e nella Cina di Mao, Milano, Leonardo, 1990, p.201)

 

 

- Rivoluzione e regime

 

…La società sovietica fu sostenuta con vera passione e convinzione da artisti come Rodcenko o Tatlin con il Monumento alla Terza Internazionale, che poi è diventato un simbolo, o come Majakovskij con le sue poesie. Il regime sovietico bloccò invece ben presto l’impatto e la forza propulsiva dell’avanguardia, che subì un forte e inappellabile regresso, mentre sarebbe stato necessario lasciar aperta la possibilità di ricerca nel campo dell’arte…
(P. Siena, Anni & Vita, pp. 24-25)

 

«La rivoluzione ci ha insegnato molte cose. Il Lef [Fronte di sinistra delle arti] sa bene che, per consolidare le conquiste della rivoluzione d’ottobre, rinvigorendo l’arte di sinistra, esso immetterà nell’arte le idee della Comune e le schiuderà la strada dell’avvenire. Il Lef agiterà con la nostra arte le masse, attingendo da loro la propria forza organizzativa. […] Il Lef combatterà per un’arte che sia costruzione della vita. […] Noi crediamo nella giustezza della nostra propaganda e, con la forza delle opere compiute, dimostreremo che siamo sulla strada dell’avvenire.»
Vladimir Majakovskij
(Per che cosa si batte il Lef?, pubblicato sulla rivista “Lef”, n. 1, 1923, in M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del novecento, Milano, Feltrinelli, [1986], 1998, p.415)

 

«Compito del gruppo produttivista è l’espressione comunista del lavoro costruttivo materialista. Il gruppo si occupa della soluzione di tale problema basandosi su ipotesi scientifiche e sottolineando la necessità di sintetizzare l'aspetto ideologico e formale in modo da indirizzare il lavoro sperimentale sulla via dell’attività pratica. […] L’arte collettiva del presente è la vita costruttiva!»
Aleksandr Rodcenko, Barbara Stepanova
(Programma del gruppo produttivista, 1920, in M. De Micheli, Le avanguardie artistiche del novecento, Milano, Feltrinelli, [1986], 1998, pp. 406-408)

 


«Gloria, Gloria, Gloria agli eroi!!! Del resto abbiamo loro tributato i dovuti onori. Ora parleremo della canaglia. Si sono placate le tempeste dei grembi rivoluzionari. Si è coperto di melma il miscuglio sovietico. Ed è strisciato fuori dalla schiena della Repubblica Federativa Socialista il ceffo del piccolo borghese. Da tutte le immense pianure russe sin dal giorno della nascita sovietica sono confluiti, mutando in fretta il piumaggio, per insediarsi in tutte le istituzioni. Col sedere incallito da cinque anni d'inerzia, robusti come lavandini, vivono ancor oggi, più cheti dell'acqua. Si sono arredati comodi salotti e camerette (…) Alla parete Marx. La cornicetta è rossa. Accucciato selle «Izvestija» si riscalda un gattino. E di sotto il soffitto schiamazza un canarino scatenato. Marx dalla parete guarda a lungo… e a un tratto spalanca la bocca e si mette a gridare: - Ha ingarbugliato la rivoluzione l'ordito del filisteismo (…) Svelti, torcete il collo ai canarini, perché il comunismo dai canarini non sia sopraffatto! -
Vladimir Majakovskij
(Della canaglia, 1921, in A.M. Ripellino, Poesia russa del 900, Feltrinelli, Milano, 1954, pp. 274-5)

 


- Arte "di classe"

 

…Io invece ero convinto che la sola arte impegnata, non creata per esclusivo godimento estetico, fosse quella espressionista. L’arte per me doveva essere «di classe», non estranea al momento in cui vive.
(P. Siena, Anni & Vita, p.23)

 

«Il problema di una nuova via della critica d'arte rimane essenzialmente un problema scientifico. Come tale, esso deve partire dall'abbattimento di un pregiudizio: il pregiudizio per cui l'ideologia marxista apparterrebbe soltanto al campo dell'economia e della politica. Poiché è chiaro che il rapporto esistente tra un'opera d'arte, il tempo e la società non essere considerato che al lume del suo effettivo contenuto di classe»
Antonello Trombadori
(Ideologia e critica, in «Rinascita», III, 9, sett. 1946, p.228)

Renato Guttuso, Operai fucilati in Piazzale Loreto, dono dell'autore a P. Siena

 

- Suonare il piffero per la rivoluzione?

 

Io non riuscivo mai a mettere d’accordo le mie idee sull’arte con le mie idee politiche e allora pensavo di non essere né un buon artista o appassionato d'arte né un buon comunista. Per me contava soprattutto la tolleranza: l’artista doveva essere lasciato libero di creare ciò che voleva. Non ero quindi d’accordo per nulla con il discorso di Togliatti sull’arte.
 (P. Siena, Anni & Vita, p. 46)

 

«Questa critica [alla rivista «Il Politecnico»] è stata da noi concepita su di un piano sul quale credo non vorrai negare che l'uomo politico, anzi la corrente politica che noi siamo, ha tutto il diritto di collocarsi e muoversi con piena libertà, cioè sul piano dell'esame critico dei differenti indirizzi di cultura che si manifestano nel Paese. Sarebbe bella che dovessimo, poiché siamo uomini politici e corrente politica, disinteressarci di queste cose! Come se l'affermarsi o lo svilupparsi in un modo piuttosto che in nell'altro di un determinato indirizzo di cultura non possa avere le più profonde ripercussioni sullo sviluppo più o meno rapido e persino sul successo di una corrente politica come la nostra! Quando il Politecnico è sorto, l'abbiamo tutti salutato con gioia. Il suo programma ci sembrava adeguato a quella necessità di rinnovamento della cultura italiana che sentiamo così vivo. Naturalmente noi non pensiamo che spetti a noi, partito politico, il compito immediato e diretto di rinnovare la cultura italiana […] Ma a un certo punto ci è parso che le promesse non venissero mantenute. L'indirizzo annunciato non veniva seguito con coerenza, veniva anzi sostituito, a poco a poco, da qualcosa di diverso, da una strana tendenza a una specie di «cultura» enciclopedica, dove una ricerca astratta del nuovo, del diverso, del sorprendente, prendeva il posto della scelta e dell'indagine coerenti con un obiettivo […] Il nostro voleva quindi essere un richiamo alla serietà del compito che sta davanti a voi, uomini di cultura, e un appello a lavorare, secondo le linee che voi stessi avete tracciato, in modo adeguato a questa serietà. E a parte il fatto che qualcuno di noi possa anche come uomo di cultura essere interessato alla cosa, tu non vorrai negare che proprio come uomini politici essa può e deve starci a cuore.»
Palmiro Togliatti, Lettera a Elio Vittorini
(in «Rinascita», III, 10, ott. 1946, p. 285)

 

«Voglio esprimere interamente la perplessità in cui ci troviamo tanti e tanti intellettuali (parlo anche di intellettuali non iscritti al P.C.) di fronte a qualcosa che oggi inaridisce o comunque impedisce di essere più vivo il rapporto tra politica e cultura entro e intorno al nostro Partito. […] Io non ho mai inteso dire che l'uomo politico non debba "interferire" in questioni di cultura. Io ho inteso dire ch'egli deve guardarsi dall'interferirvi con criterio politico, per finalità di contingenza politica, attraverso argomenti o mezzi politici, e pressione politica, e intimidazione politica. […] Rivoluzionario è lo scrittore che riesce a porre attraverso la sua opera esigenze rivoluzionarie diverse da quelle che la politica pone; esigenze interne, segrete, recondite dell’uomo ch’egli soltanto sa scorgere nell’uomo, che è proprio di lui scrittore scorgere, e che è proprio di lui scrittore rivoluzionario porre, e porre accanto alle esigenze che pone la politica, porre in più delle esigenze che pone la politica. […] E se accuso il timore che i nostri sforzi in senso rivoluzionario non siano riconosciuti come tali dai nostri compagni politici, è perché vedo la tendenza dei nostri compagni politici a riconoscere come rivoluzionaria la letteratura arcadica di chi suona il piffero per la rivoluzione piuttosto che la letteratura in cui simili esigenze sono poste, la letteratura detta oggi in crisi. Rifiutare e ignorare i migliori scrittori di crisi del nostro tempo, significa rifiutare tutta la letteratura problematica sorta dalla crisi della società occidentale contemporanea. E non è un rifiuto di riconoscere la problematicità stessa per rivoluzionaria? Non è un rifiuto di riconoscere la crisi stessa per rivoluzionaria?»
Elio Vittorini, Lettera a Togliatti
(Politica e cultura: lettera a Togliatti, in «Il Politecnico», n. 35, gennaio-marzo 1947, pp.105-6)

 

 

- Astrattismo e censure


Mi colpiva direttamente l’imposizione che cercava di piegare gli artisti solo verso un’arte naturalistica, scambiata per realista. Il novanta percento degli artisti italiani nel 1948 era vicino al partito comunista. Solo in seguito cominciarono le polemiche. Ad esempio, quella sull’astrattismo  fece perdere i contatti con il quaranta percento degli artisti che erano già iscritti. Ma dal momento in cui prevalse una corrente, gli altri si sentirono esclusi e offesi.
(P. Siena, Anni & Vita, pp. 57-58)

 

“Se tu fatichi la giornata intiera [sic] attorno a un sacco di grano che t’han detto di spostare, ma la sera non l’hai smosso un pollice dal posto suo, puoi esser morto di stanchezza, ma non hai fatto il lavoro che volevi fare, e il padrone non ti passa il salario. Ci accuserete di materialismo e praticismo esoso se oseremo anche a voi applicare qualcosa di simile a questo criterio? Se le vostre elaborazioni, o esperienze figurative, o posizioni polemiche, o che altro dir vogliate, non giungono a darci un’opera che susciti un palpito almeno di comprensione e di commozione, lasciateci la libertà di dirvi che ciò che avete fatto sarà tutto quello che volete, non opera d’arte.”
Palmiro Togliatti [Roderigo di Castiglia]
(Postilla, in “Rinascita”, V, 1948, pag.470)

 

 

- Modelli di scrittura


Mi piaceva scrivere non perché lo pensassi utile per chi leggeva. Piuttosto era utile a me, perché scrivere ti porta a chiarire, anche a te stesso, quello che pensi. Amavo lo stile di Venturi o altri scrittori d’arte: magari anche in articoli che valevano poco, riuscivano infatti a farti trovare quelle due righe che bastavano a illustrarti l’intera situazione. Non mi piace lo scrivere prolisso e le lungaggini, bensì la concentrazione del pensiero che porta ad esprimere un concetto, a farsi capire e nel contempo a capirsi, chiarendo a sé stessi un problema…
(P. Siena, Anni & Vita, p. 60)

 

«Afro, Birolli, Corpora, Moreni, Morlotti, Santomaso, Turcato, Vedova appartengono alla generazione che giunge ora alla maturità; sono tutti tra i 30 e i 45 anni. Il loro modo di dipingere è attuale e le loro opere possono essere considerate tra le più rappresentative del gusto italiano odierno in pittura. […] Essi non sono e non vogliono essere degli astrattisti; essi non sono e non vogliono essere dei realisti: si propongono di uscire da questa antinomia che da un lato minaccia di trasformare l'astrazione in un rinnovato manierismo, e dall’altro obbedisce ad ordini politici che disintegrano la libertà e la spontaneità creativa. […] Se essi sentono il piacere di una materia preziosa, di un accordo lirico di colore, di un effetto di tono, essi non vi rinunziano. Non sono puritani in arte, come gli astrattisti; accettano l’ispirazione da qualsiasi occasione e non si sognano di negarla. Eppure essi rimangono fedeli al principio, che è essenziale per l’arte moderna, e cioè che una pittura vale anzitutto per le sue linee, per le sue forme e per i suoi colori, per quella coerenza di visione che è l’intima forza di ogni opera d’arte dipinta. I piaceri della bella materia o dell’esperienza della realtà devono essere subordinati alla coerenza formale, e possono esserne un accompagnamento opportuno se non pretendono di prevalere. La visione degli otto pittori non ha quindi mai tagliato i ponti con la vita dei sensi e dei sentimenti, non è mai diventata un semplice gioco dell’immaginazione, e rivela sempre quell’impegno sociale, totale, disinteressato, che è necessario all’opera d’arte.»
Lionello Venturi
(Otto pittori italiani, Roma, De Luca Editore, 1952, pp.7-8)

 

 

- Militanza e cultura artistica

 

Per quanto riguarda i rapporti con il partito, Guttuso era molto amico di Mario Alicata, il quale, pur non possedendo idee o convinzioni particolari, ne era il responsabile culturale. Nessuno dei dirigenti comunisti aveva infatti avuto tempo di farsi una cultura artistica. Ciò è perfettamente comprensibile: avevano avuto problemi ben più gravi da affrontare, come la clandestinità, le persecuzioni, la galera. Dopo la guerra, erano quindi ancora ancorati all’idea di un’arte naturalistica. Del resto anch’io, quando ad esempio andavo a trovare Terracini, non avevo nemmeno il coraggio, dato il profondo rispetto che avevo per lui, di fargli delle osservazioni, anche se su certi argomenti diceva delle cose che per me erano antiquate e sulle quali non ero affatto d'accordo.
(P. Siena, Anni & Vita, p. 67)

 

«Coerenza significava disprezzo per chi affermava una verità in termini "universali" e ne praticava, individualmente, un’altra; significava entusiasmo per Faust, il quale aveva coraggiosamente scritto che "nel principio era l’azione", non "la parola" e, al tempo stesso, ribellione contro il tentativo postromantico, decadente, di sciogliere questo nodo essenziale dello spirito moderno tentando di presentarci "la parola" come "azione", la letteratura come "vita"; significava perciò, anche prima di arrivare al marxismo e già in polemica col mio primitivo crocianesimo, entusiasmo per tutti quegli artisti contemporanei che s’erano posti il problema di un’arte che non si limitasse a rappresentare i rapporti degli uomini, ma aspirasse esplicitamente a cambiarli.
 […] Fra il 1946 e il ’47, quando mi giungeva l’eco di certe discussioni che ancora si svolgevano tra vecchi amici e compagni per decidere se essi dovessero continuare a fare i funzionari del partito o dovessero riprendere, in un modo o nell’altro, la loro vecchia attività professionale,  ciò mi riusciva già allora […] abbastanza incomprensibile. Come potevano non comprendere […] che in un paese come il nostro, nel periodo storico ch’esso attraversava, non c’era forma di attività intellettuale più alta che quella dell’azione politica rivoluzionaria e che senza quest’azione politica rivoluzionaria […] non c’era nessuna possibilità neppure d’un effettivo rinnovamento culturale?”.
Mario Alicata
(Intellettuali e azione politica. 1940-1966, a cura di R. Martinelli e R. Maini, Roma, Editori Riuniti, 1976, pp.324-27)

 

 

- Pittori "ufficiali"

 

… Insomma, avevo parecchi contrasti con Guttuso, soprattutto per questa sua posizione dominante all’interno dell’apparato comunista, che causava l’allontanamento anche di altri giovani pittori. Non parlava più per sé, ma era diventato la voce ufficiale del partito, quindi non era amato, anzi per alcuni aspetti era persino odiato. Non aveva protetti o seguaci: con gli altri artisti c’era una sorta di separazione, anche se comprava i quadri dei giovani e li aiutava.
(P. Siena, Anni & Vita, p. 67)

 

«L’arte di oggi si dibatte fra questi due poli: un’arte astrusa, intellettualistica, che nega la realtà o si compiace di offenderla nell’amore morboso del deforme, e una figurazione grigia, fotografica, fatta di esterne verosimiglianze, di falsità, di tristezza accademica. Al di sopra di questi aspetti si fa strada la corrente realista, la quale aspira ad un’arte, ad una pittura che non nasca nel chiuso dello studio, frutto di riflessioni astratte, di condiscendenza alle mode cosmopolite, […] ad una pittura che non si serva di formule buone indifferentemente per un pittore bulgaro, australiano, cinese e per un pittore italiano: una pittura legata alla vita ed alla società moderna, ma (come sempre è accaduto nella storia, e si pensi ai due grandi momenti di Giotto e di Caravaggio) non a quel che di questa società è rinsecchito o in decomposizione ma a quello che progredisce ed avanza. A quella parte della società che porta le nuove idee, le nuove energie, che si avvia a costruire un mondo più libero, più giusto, più felice. Un’arte dunque chiara nella sua forma, ottimista ed edificante nel contenuto, un’arte legata ai motivi profondi della nostra tradizione ma nutrita dalla nuova storia dell'umanità, portavoce delle sue lotte e delle sue speranze.»
Renato Guttuso
Sulla via del realismo, conferenza tenuta a Roma il 20 febbraio 1952 alla VI Quadriennale, in «Società», VIII (1952), pp.80-88.

Karl Plattner, Ritratto di un amico, Coll. Piero Siena

 

- Evidenza e storia

 

Ma di tutti i fatti legati alla mia esperienza e al Museion, […] voglio però ribadire e sottolineare il rapporto tra arte e società. Quando Giotto dipinse l’uomo alto come il santo, quel gesto aveva una funzione sociale importante e, in tempi a me vicini, anche l’astrattismo, spesso criticato come arte del disimpegno – persino io, da giovane, avevo questa errata convinzione! -, creò nel periodo nazista una forma di espressione invisa al potere, facendo in questo modo opposizione al regime.
Sono convinto inoltre che l’arte non abbia bisogno di spiegazioni: deve essere così evidente, così palese e così forte da poter incidere sul visitatore senza alcun tipo di mediazione scritta o vocale. Credo nella "storia" dell'arte, mentre credo meno nella "critica" d’arte: la storia dell’arte è un fatto, anzi dei fatti che sono indiscutibili, messi in fila uno dopo l’altro. Ma, in entrambi i casi, alle spalle ci sono delle persone che hanno vissuto, sofferto, sono maturate e alla fine hanno trovato una propria dimensione. Non è che con queste mie parole io voglia disinteressarla gente all’arte moderna e contemporanea… Voglio solo disinteressarla alla superficialità!
(P. Siena, Anni & Vita, pp.92-93)

 

«Il pittore non parli - diceva Matisse. Il pittore non deve esprimersi che con i suoi pennelli.» Ed io spero che la mia pittura esprima meglio delle mie parole quanto io penso sulla funzione dell'arte: la pittura, cioè, come la musica e la poesia, deve dare anzitutto un godimento profondo, una gioia (secondo me). Si parla molto della funzione sociale dell’arte; ma questa non viene certamente assolta con la rappresentazione veristica di officine o di uomini al lavoro, bensì con le opere che sono capaci di aiutare gli uomini a vivere. Io credo che la gioia aiuti a vivere, e che il godimento estetico possa dare gioia. Non escludo, con ciò, che quei temi, come ogni altro tema, possano essere svolti in forma puramente pittorica; ma il linguaggio plastico del nostro secolo, tipicamente del nostro secolo, è senza dubbio quello “astratto”. Credo, inoltre, che un artista non debba rimanere isolato nel mondo dei propri fantasmi, ma, cosciente di tutti i bisogni umani, debba cercar di trasferire le proprie esperienze e le pure esperienze estetiche anche in altri campi, senza disdegnare nemmeno le interferenze della tecnica. Il pittore assolve così una funzione sociale evidente e incontestabile anche per coloro che non giungono a riconoscere quella più profonda ma più indefinita a cui rispondono i quadri.”
Luigi Veronesi
(Risposta all’inchiesta di T. Sauvage (1957), in Veronesi. Le ragioni astratte, a cura di Paolo Fossati, Torino, Martano, 1970, p.75)