Autore: Alexandre Dumas
Tratto da:
Dumas, Alexandre, Impressions de voyage. Le capitaine Arena, Paris 1842.


Lo scrittore Alexandre Dumas (1802-1870) compì diversi viaggi nell’Italia meridionale e in particolare in Sicilia verso la metà degli anni ’30. In queste famose pagine Dumas ritrae le spaventose condizioni di lavori dei forzati impiegati nell’estrazione dello zolfo a Vulcano. Tale attività era cominciata in stile industriale agli inizi del XIX sec. su iniziativa del generale borbonico Nunziante. Fu allora che vennero costruiti i sentieri, le baracche e le piccole grotte di cui parla lo scrittore. Riguardo al numero dei forzati sappiamo che nel 1848 era di 400 (50 erano invece, nel loro insieme, sorveglianti, custodi, tecnici etc).

Dopo l’unità d’Italia l’industria fu rilevata da un inglese (Stevenson) che cercò di mettere in atto sistemi più moderni di estrazione. Tuttavia l’eruzione del 1888-90 interruppe per sempre tale attività.

 

La descrizione del cratere fatta da Dumas si riferisce quindi alla situazione precedente l’eruzione di fine secolo, che ne cambiò notevolmente la conformazione. Le preziosissime annotazioni di Dumas relative alle Eolie sono state pubblicate in edizione italiana dall’editore Pungitopo di Messina (Viaggio nelle Eolie, trad. di Angelita La Spada, 1996) (C.R)

 

Il cratere di Vulcano in un'illustrazione dell'arciduca Luigi Salvatore d'Austria

 

 

I dannati di Vulcano

di Alexandre Dumas

 

 

E così cominciammo la salita verso il cratere del primo vulcano. Sotto i nostri passi la terra rimbombava come se camminassimo sopra catacombe: non ci si può nemmeno immaginare la fatica di una tale salita, fatta alle 11 del mattino, su un suolo infuocato e sotto un sole abbagliante.
La scalata durò circa tre quarti d’ora e alla fine ci trovammo proprio ai bordi del cratere. Era spento e la sua vista non presentava nulla di particolarmente interessante. Quindi ci dirigemmo subito verso il secondo cratere, che era posto a circa mille piedi sopra il primo ed era in piena attività.

Mentre camminavamo ci trovammo a costeggiare una parete piena di grotte; alcune erano chiuse da una porta e a volte persino da una da una finestra. Altre si presentavano, invece, come delle vere e proprie tane di animali selvatici. Si trattava del villaggio dei forzati. Su quel monte vivevano all’incirca 400 uomini. Il loro diverso grado di zelo o di negligenza faceva sì che alcuni lasciassero degenerare lo stato della loro dimora, altri invece tentassero di renderla più dignitosa.

Salimmo per un’ora circa e arrivammo al bordo del secondo cratere. In fondo ad esso, proprio in mezzo ai fumi che ne uscivano, c’era un cantiere in cui si muoveva un intero popolo. L’immensa fossa era di forma ovale e il suo punto più largo era lungo all’incirca mille passi.

Vi potemmo scendere per un comodo pendio circolare, che era il risultato del franamento di scorie vulcaniche e serviva anche per il trasporto delle carriole.

Impiegammo venti minuti per scendere fino al fondo di questa gigantesca caldaia. Più scendevamo, più aumentava il calore del sole insieme a quello del terreno. A quel punto dovemmo fermarci per un po’ perché l’aria era quasi irrespirabile.

Ci voltammo indietro per vedere dove fosse finito Milord e lo scorgemmo serenamente seduto sul margine del cratere. Probabilmente per la paura di una qualche novità simile a quella già sperimentata, aveva ritenuto prudente non seguirci oltre. (1)

Dopo pochi minuti cominciammo ad abituarci alle tremente zaffate di zolfo che provenivano da un’infinità di piccole fessure dentro le quali si vedevano le fiamme.

Di tanto in tanto, però, dovevamo arrampicarci su qualche masso di lava un po’ sopraelevato dal livello del terreno, per respirare un po’ d’aria meno soffocante.

Intorno a noi si aggiravano persone che sembravano essere ormai così abituate a quell’aria da non risentirne per nulla. Persino i signori Nunziante sembravano esservi ormai abituati, ed erano capaci di restare per ore ed ore sul fondo del cratere senza soffrire particolarmente di quel gas per noi quasi insopportabile.

Questi sventurati condannati ai lavori forzati presentavano un aspetto davvero curioso. Le diverse vene del terreno dove erano costretti a lavorare conferivano loro diversi colori: alcuni erano gialli come i canarini, altri rossi come gli Uroni, altri imbiancati come i pagliacci, altri invece scuri come i mulatti. Vedendo questo bizzarro spettacolo ci pareva difficile pensare che ciascuno di essi fosse un ladro o addirittura un assassino. Ci colpì soprattutto un ragazzino che poteva avere sì e no quindici anni e aveva un viso dolce e quasi femmineo. Chiedemmo quale fosse stato il suo crimine e ci fu risposto che, a soli dodici anni, aveva accoltellato a morte una cameriera della principessa Cattolica.

Dopo aver osservato attentamente quegli uomini, passammo ad esaminare meglio il terreno. Ci accorgemmo che più ci si avvicinava al centro del cratere e più esso diventava molle e addirittura acquitrinoso, tanto da affondare con i piedi. Se vi si lanciava un sasso, questo finiva per scomparire, affondando lentamente, come nel fango. Rimanemmo un’ora intera nel cratere e poi cominciammo a risalire accompagnati dalle nostre due gentili guide (2) che ci scortarono passo dopo passo fino sul bordo.

 

 

 

Note

 

1) Il cane Milord si era "scottato" nell'acqua delle emissioni gassose.

 

2) Si tratta dei due figli del generale Nunziante.