Autore: Giovanni Alfredo Cesareo
Rif. bibl.: Cesareo, Giovanni Alfredo, Nella città della morte: Messina, in: De Franco, Ernesto (a cura di), Sicilia (Collezione Almanacchi Regionali), Paravia, Torino 1925, pp. 215-218.
Nella città della morte: Messina
di Giovanni Alfredo Cesareo
Volevo veder la mia, casa, i luoghi dov'ero nato, le vecchie pareti che avean sorriso a' miei giochi puerili, l'austero portone che aver, custodito la pace operosa di tante generazioni. Infilai via Primo Settembre, scompigliata e deserta, e giunsi in piazza del Duomo.
Dal magnifico tempio, finito d'edificare nel 1197 e sempre insignito di nuovi ornamenti sotto i re aragonesi e spagnuoli, non rimaneva fuor che un'ala. Crollata la vòlta di lacunari istoriati; rotte ed atterrate le pittoresche colonne di granito orientale, che avevan sostenuto il tempio di Poseidone su la estrema punta di capo Peloro durante l'età greca e 'romana; schiacciato il, pergamo snello, in forma di calice; scolpito sul legno dal cinquecentista Batta Mazzolo; scrostata e sfondata la decorazione mosaica alle tre grandi tribune del fondo; sgangherati gli stalli corali di Giorgio Veneziano; l'arche, le cappelle, il battezzatoio, il campanile, le torri, distrutta e seppellita ogni cosa.
In mezzo la piazza, fra la decorazione degli edifizi prostesi, la fontana d'Oriente biancheggia pura e serena come la rivelazione dell'arte sugli oscuri vestigi della passione scomparsa. Una squadra di bersaglieri viene a passo di carica. — Dove vanno? — chiedo al tenente, che m'era noto. — Venga con noi. — Li seguo per il corso Cavour: di cumulo in cumulo, di monticello in monticello, calpestando stracci, masserizia, rottami, vacillando su tavole rotte, sbirciando, con uno stringimento di cuore, le botteghe sventrate, gli usci sconficcati, alcune stanze rimaste intatte, fuorché il muro davanti ch'era caduto e scopriva la vista fittizia d'una decorazione da palcoscenico, dopo alcuni minuti si giunge sul luogo.
Era un palazzo dietro villa Mazzini, quasi tutto diroccato: si tenean solo ritti due terrazzini con le persiane serrate, al canto che dava sur un'altra via. Tacemmo tutti origliando nell'opprimente silenzio: d'un tratto s'esalò un grido, ma così fioco e lontano che parve salire dall'imo di qualche abisso. Pale, marre, zappe, picconi si mettono all'opera; l'entusiasmo de' soldati è visibile: la speranza di salvare una vita eccita in loro un'ebbrezza straordinaria. Gli occhi intenti su le macerie, io affretto con l'ansietà del mio spirito la miracolosa resurrezione: le ore trascorrono come minuti: la sera comincia a foscheggiare nell'aria. Improvvisamente i soldati s'arrestano: un piede, un piede gracile, esangue, ma vivo, si convella di sotto a un trave. I soldati gittan gli arnesi e si dànno a sterrare con le palme, risoluti e guardinghi ad un tempo, procedendo con cautela infallibile, senza perdere un attimo. Spunta una gamba, poi l'altra, il lembo d'una camicia trapunta: il resto del corpo è difeso dal parato d'un letto. Si solleva con riguardo anche quello, e apparisce un viso di donna cereo, inanimato, non bello, ma di una grazia puerile. — Morta? — Il tenente le tasta il polso. No; batte; è svenuta. Presto dell'acqua! Dopo un par di spruzzi, si risente, apre gli occhi, si pone a sedere e scoppia in singhiozzi, come se allora soltanto avesse avuto coscienza della propria sventura.
A un tratto si rizza in piedi come demente, si sgombra i capelli dagli occhi, guarda smarrita per terra - e prorompe in uno strido straziante: — La bimba! dov'è la bimba? — La cercheremo domani, signora — promette pietoso il tenente: — ora è notte: non ci si vede più.
E la poverina si lascia avvolgere le membra in una portiera di drappo giallo a fiorami raccattata fra i ruderi, e sorretta da due soldati, s'allontana in silenzio, crollando il capo con movimento d'automa. Rimasi solo. Nell'ombra, che dilagava più fitta, il silenzio era mostruoso. La mia casa sorgeva di là dalla villa i cui alberi accennanti a gramaglia pareano fratelli della Buona Morte, che recitassero le litanie dei defunti. Allungai il passo, giunsi in via Placida, ebbi uno schianto.
Tutta un'ala della mia casa era abbattuta; l'altra pareva ritta, ma a traverso gli spirali delle persiane si vedeva palpitare la notte. Il portone, ben che serrato, mal resisteva, con i battenti sconnessi, allo sforzo del materiale che vi s'era addensato dentro. Lì pure la strada era ingombra di cocci, tavole, carte, terriccio, rottami d'ogni maniera, e il lezzo accorante della putredine mozzava il fiato. E i miei congiunti eran lì, forse morti, forse mal vivi: che qualcuno si divincolasse sotto la muta rovina per tentare di scuotere il pondo che lo schiacciava? Misi un urlo d'orrore; balzai su la mole paurosa e li chiamai tutti per nome, a più riprese, durante un'ora, come invasato. L'ombra fu irremovibile.
Fuggii per non ismarrir la ragione, e di nuovo mi volsi dalla parte del mare, su cui le navi da guerra, sfolgoranti di lampade elettriche, pareano insultare alla muta desolazione della città rovesciata.