Autore: Enzo Collotti

Rif. bibl.: Collotti, Enzo, La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo. In: Andrea Bonoldi, Hannes Obermair (a cura di/herausgegeben von), Tra Roma e Bolzano. Nazione e Provincia nel Ventennio fascista / Zwischen Rom und Bozen. Staat und Provinz im italienischen Faschismus, Città di Bolzano / Stadt Bozen, pp. 129-137.

 

 

Il volume ripropone i contenuti di un ciclo di conferenze sulla storia del fascismo in Italia e in ambito regionale tenutosi a Bolzano tra l'aprile e il novembre del 2004, organizzato dall'Archivio Storico della Città di Bolzano e da "Storia e Regione / Geschichte und Region".

 

Tra Roma e Bolzano
 
 
 
 

La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo

 

di Enzo Collotti

 

 

Negli ultimi anni ho affrontato da diversi punti di vista e con ampie ricerche la problematica del razzismo sotto il fascismo, con particolare riferimento alla questione ebraica. È necessaria questa specificazione perché evidentemente lo spettro della problematica “razzismo” non si può limitare alla persecuzione degli ebrei, anche se essa ha costituito il momento più visibile di una politica razzistica del fascismo. Quest’ultima, infatti, non può prescindere dalla considerazione di altri fenomeni, a cominciare dal trattamento delle minoranze nazionali all’interno dello Stato italiano e dalla problematica del razzismo coloniale italiano.

Anche la problematica del razzismo relativamente alla legislazione contro gli ebrei appartiene ad un aspetto della storia d’Italia che è stato a lungo dimenticato o trascurato dalla storiografia. Per rimanere nel campo della legislazione contro gli ebrei, basterebbe ricordare che, dopo l’importante opera di Renzo De Felice del 1961 - un’opera che quindi arrivava in ritardo rispetto agli anni della Liberazione) - è alla fine degli anni Ottanta, per iniziativa della Camera dei deputati nel cinquantennio delle leggi razziali, che si colloca un convegno di carattere comparato che ha richiamato l’attenzione degli storici su queste tematiche.

Nel 1994 un gruppo di giovani studiosi ha prodotto a Bologna la grande mostra “La menzogna della razza”, che ha riaperto la discussione sul razzismo italiano. Il merito dell’iniziativa - che proprio quest’anno avrà una sua riedizione aggiornata - è stato quello di aprire lo sguardo su tutto il ventaglio delle manifestazioni razzistiche, in senso tradizionale e no. Questo è quindi un capitolo di storia italiana che stiamo, come dire, “rivisitando” e su cui stiamo cercando di fare luce, tra l’altro avendo presente che la documentazione che noi possediamo è sterminata: chiunque abbia lavorato su queste cose, all’Archivio Centrale dello Stato o negli archivi periferici, si può rendere conto di quante cose ancora non sappiamo, di quante aree d’interesse relative a queste problematiche siano ancora da studiare.

 

Devo anzitutto premettere che dal punto di vista storiografico la mia curiosità era stimolata da almeno due affermazioni che ricorrono frequentemente nei pochi studi esistenti.

- La prima affermazione riguarda il carattere cosiddetto “blando” con cui l’amministrazione italiana avrebbe applicato le leggi del 1938. Questa è una sorta di alibi per considerare quello delle leggi razziali un fenomeno tutto sommato “di poco conto”, “secondario” e via di seguito.

- La seconda affermazione riguarda l’aspetto internazionale, comparato del fenomeno e la possiamo così sintetizzare: “Il fascismo italiano non è stato fondamentalmente razzista, è stato costretto dalla Germania a emanare le leggi razziali.” In questo modo tutte le responsabilità vengono ribaltate sulla Germania, come se l’alleato nazista non fosse stato scelto dal regime fascista italiano.

 

Le prime ricerche che ho fatto avviare in archivi periferici hanno riguardato, alla fine degli anni Sessanta, l’area di Trieste. Il grosso studio di Silva Bon su queste tematiche (1972) è nato da una tesi di laurea. Era il primo studio di carattere locale su un’entità urbana. Le difficoltà erano molte, perché gli archivi erano ancora parzialmente inaccessibili. Tuttavia già da questo primo studio risultava chiaro come l’esplorazione degli archivi periferici avrebbe potuto dare una misura adeguata di quello che era stato lo zelo dell’amministrazione nell’attuare le leggi e le disposizioni del 1938. Non si tratta solo di una valutazione storiografica: è un filone di ricerca capitale per capire cos’è stato il regime fascista. In anni successivi, estendendo queste ricerche e concentrandole su un’area regionale (la Toscana), ho avuto la conferma di come il rapporto centro-periferia sia stato un rapporto estremamente stretto, solido. Non solo la periferia ha eseguito quello che veniva chiesto dal centro, ma essa, attraverso i prefetti, i comuni e le amministrazioni comunali, ha “aggiunto” alle prescrizioni che arrivavano da Roma un insieme di normative che rese nell’applicazione locale sempre più difficile la vita alla comunità ebraica.

 

La questione della dipendenza del razzismo italiano dalla Germania è ancora più importante. Esso va approfondito perché serve a verificare la totale autonomia dell’iniziativa del regime fascista rispetto ai presunti “ordini” dell’alleato razzista. Questo non significa che l’Italia, quando vara le leggi razziali, non sia in sintonia con un processo di carattere europeo, ma che l’Italia non “segue ordini”: prende autonomamente una serie importante di iniziative. La collusione diretta tra Italia e Germania si verificherà soltanto dopo l’otto settembre 1943: tutto quello che avviene prima, è frutto sostanzialmente unico dell’iniziativa del regime fascista.

Quest’affermazione comporta evidentemente anche l’esigenza di un chiarimento che faccia luce anche sul quadro precedente al momento storico in questione, quando cioè il regime fascista decide di lanciare la campagna contro gli ebrei. Quest’ultimo è, infatti, un processo tutto interno al fascismo italiano. È il momento in cui esso decide quella che (con espressione generica ma forse sufficientemente significativa) si chiama “totalizzazione” del regime; il passaggio da una fase in cui vi è ancora un’articolazione interna relativamente meno rigida, ad una fase di estremo rigore nell’omogeneizzazione della società. Questo processo è dovuto ad almeno due aspetti.

- In primo luogo vi è da parte del regime fascista l’esigenza di rilanciare la dinamica politica in una fase in cui, dopo la conquista dell’impero, esso mira ad un maggiore compattamento dell’opinione pubblica: quello che si chiama (non sempre a ragione) il “consenso” (concetto molto complesso che andrebbe sviluppato molto di più di quanto non abbia fatto a suo tempo Renzo De Felice).

- In secondo luogo, l’Italia dopo la conquista dell’impero entra già nell’ottica di lanciarsi verso altre imprese di carattere internazionale (cioè la preparazione ideologica e psicologica alla guerra) e questo spinge ad accelerare il tornante antisemita, antiebraico.

 

Tutto questo però si può spiegare tenendo conto del fatto che è vero che in Italia non vi era una tradizione antisemita come l’intenderemmo per altri Paesi europei di lungo corso, tuttavia vi era almeno una serie di circostanze che consentivano lo sviluppo e il radicamento di una ideologia di carattere razzista.

La prima è sicuramente la tradizione dell’antigiudaismo cattolico, che è la vera radice storica dell’antisemitismo italiano e che viene sfruttata e stravolta dal fascismo.

La seconda matrice di questo generico razzismo è il razzismo coloniale. Il razzismo coloniale in Italia ha una vecchia tradizione perché dalla fine dell’Ottocento, cioè dal primo contatto politico dell’Italia con l’Africa, l’idea della superiorità razziale dell’Italia rispetto alle popolazioni indigene diventa quasi uno stereotipo, non soltanto di una letteratura popolare, ma di una serie di scienze sociali (demografia, antropologia, sociologia). Vi sono al giorno d’oggi studi piuttosto importanti su queste tematiche, basti pensare agli studi di Roberto Maiocchi sul rapporto tra scienze sociali e razzismo in Italia.

Il conglomerato di queste diverse matrici fa sì che le leggi contro gli ebrei siano generalmente accolte dalla cultura italiana con notevole indifferenza, perché rientrano in una specie di continuum in cui il razzismo non è estraneo al modo di essere della popolazione italiana. Questa è un’altra riprova del fatto che nel caso delle leggi razziali scarso peso ha la presunta dipendenza dell’Italia dagli ordini della Germania.

 

Osservando questo quadro è facilmente comprensibile il successo delle leggi razziali. È chiaro che esse introducono nella vita culturale, sociale e costituzionale del Regno d’Italia nel contesto del regime fascista un vulnus, degli elementi di novità che privano largamente una parte della popolazione italiana di tutela giuridica; chi ne è colpito è soggetto a restrizioni nei diritti civili, personali e nei rapporti patrimoniali, che costituiscono una deminutio molto rigida della sua qualità di cittadino.

Questo tipo di statuto nei confronti degli ebrei rientra in un trend avviato già a partire dagli anni Venti in Ungheria (che per prima opera discriminazioni di carattere giuridico), in Polonia (che non opera discriminazioni strettamente giuridiche, ma amministrative e culturali), fino ad arrivare al processo aperto nel 1933 dall’avvento al potere del nazismo e alla conseguente statuizione non più di un generico antisemitismo come fenomeno culturale e sociale, ma di un antisemitismo come ideologia e legge di Stato. L’Italia rientra quindi sicuramente in questo trend.

 

Si dice che l’amministrazione italiana operi in maniera blanda, che attenui cioè, consapevolmente o inconsapevolmente, l’impatto delle leggi. In realtà questo non si verifica. Una delle caratteristiche del sistema normativo che viene imposto al Paese con le leggi razziali è rappresentata dalla proliferazione delle disposizioni di carattere amministrativo. Le disposizioni di legge sono relativamente poche, anche se contengono principi fondamentali. Le disposizioni amministrative sono invece molte, tanto che ancora oggi si fatica a comprendere se vi siano o meno ancora in vita norme amministrative e disposizioni che discriminano gli ebrei. Una delle caratteristiche del sistema normativo italiano è quindi quella di operare attraverso il braccio amministrativo.

Questo vuol dire che non si può studiare l’applicazione delle leggi razziali soltanto in base alla lettera delle leggi, che già di per sé sono sufficientemente esplicite e dure; bisogna studiarne anche la ricaduta nell’ambito della società, cercare di capire compiutamente gli effetti di isolamento che si volevano ottenere escludendo gli ebrei dalle scuole, dalle professioni libere, dalla pubblica amministrazione, impedendo loro di fare determinato uso dei loro beni patrimoniali. Si tratta quindi di una complessa rete di procedure e di provvedimenti che tendono a rendere gli ebrei come degli “ostaggi” in casa propria.

 

Si possono accennare ancora alcuni aspetti, solo apparentemente secondari. Uno è il problema che è stato studiato da uno storico tedesco, Klaus Voigt, che ha pubblicato un’ampia, accuratissima ricerca intitolata Il rifugio precario. Il titolo definisce la situazione creatasi per gli ebrei che erano venuti in Italia dopo il 1933 e, in una seconda “ondata” dopo il marzo 1938, al momento dell’Anschluß austriaco. Con le normative della fine del 1938, costoro vengono posti nella drammatica necessità di abbandonare il Paese. Erano venuti in Italia per rimanervi definitivamente oppure per il tempo necessario per poter predisporre un ulteriore espatrio. Molti non hanno la possibilità di espatriare e si trovano quindi in una situazione ancor più “precaria”, in quanto viene tolta loro ogni possibilità di trovare lavoro. Diventano ostaggi di una situazione senza via d’uscita.

 

Alla vigilia dell’ingresso dell’Italia in guerra, la condizione di questi ebrei viene ulteriormente peggiorata dall’ordine di internamento in campi di concentramento. I campi di concentramento in Italia nascono infatti ben prima dell’8 settembre 1943. Ad essi sono destinati principalmente gli ebrei stranieri e italiani considerati “pericolosi”, assimilati a un numero limitato di antifascisti destinato pure all’internamento. Alla vigilia della guerra in Italia questi campi di concentramento si moltiplicano. Alcuni di essi hanno dei precedenti in luoghi non di confino individuale ma di confino collettivo. Altri vengono aperti appositamente per questa circostanza. Dalle ricerche avviate molto tardi (una quindicina di anni fa), siamo oggi in grado di presentare un censimento di questi campi in Italia, che assommano ad una cinquantina di siti ufficialmente chiamati “campi di concentramento”, quale che fosse poi fisicamente la loro configurazione nella documentazione del Ministero degli interni.

Si può dire, quindi, che lo studio del problema delle leggi contro gli ebrei investa complessivamente quello del sistema repressivo del regime.

 

Se poi si tentasse una periodizzazione interna a questo processo, il primo aspetto rilevante è che le prime norme di esclusione degli ebrei dalla società italiana hanno riguardato la scuola, in ogni suo ordine e grado, dalla scuola elementare all’università. La scelta della scuola non è di ordine pratico (l’inizio dell’anno scolastico in autunno), bensì strategico. Vuol dire entrare in una delle leve fondamentali dell’educazione del cittadino (suddito in questo contesto) e di formazione della società.

Il ministro Bottai, che in genere viene presentato come un “fascista critico”, è tra i gerarchi uno dei più accaniti razzisti. La quantità di energia del Ministero della Pubblica Istruzione profusa nell’applicazione delle leggi razziali è enorme. Basterebbe guardare le infinite liste di “libri proibiti” che vengono inviate alle scuole.

L’applicazione dei provvedimenti nel mondo della scuola costituisce anche una “cartina di tornasole” dell’atteggiamento dell’intera società italiana di fronte alla politica razzista del regime. E la reazione della società italiana - in questa che Sarfatti chiamerebbe la “fase di lesione dei diritti” - è di generale indifferenza.

 

L’ebreo viene isolato non solo ad opera dell’amministrazione pubblica ma dalla stessa società. Non proiettiamo sulla società italiana in questa fase quell’insopportabile atmosfera di “buonismo” che sempre sembra accompagnarla anche nelle vicende più drammatiche della sua storia. Il fatto che molte vite siano state salvate dopo l’8 settembre 1943 non deve far dimenticare che in questa prima fase l’atteggiamento prevalente è stato di indifferenza.

Si potrebbe a questo proposito vedere l’esempio dell’università. Anche qui non sembrano manifestarsi reazioni sensibili di indignazione o solidarietà. Anzi, vi sono segnali di opportunismo da persone che sperano, pensano e ottengono di fare carriera sfruttando l’allontanamento dei colleghi ebrei. Vi sono certo Rettori che con rammarico comunicano ai docenti che debbono lasciare l’insegnamento, ma ve ne sono anche altri che “infieriscono” e considerano giusto il provvedimento.

Tuttavia anche in questo campo scontiamo il ritardo della ricerca. A tutt'oggi non conosciamo quanti appartenenti alla pubblica amministrazione in generale siano stati cacciati dai diversi settori dell'amministrazione. Salvo che per la scuola e l’università (soprattutto università), per le quali ormai possediamo ricerche e dati sufficientemente definitivi, non sappiamo esattamente quante persone siano state allontanate dai singoli settori dell'amministrazione pubblica.

Il discorso sulla periodizzazione dovrebbe riguardare poi l'accelerazione di questo processo di “demonizzazione” degli ebrei e della loro esclusione nel corso della guerra. Nel corso della guerra, al di là del problema dell'internamento degli ebrei cosiddetti “pericolosi”, si assiste ad un inasprimento della campagna di stampa contro gli ebrei sia in occasione di reati annonari sia in occasione di sconfitte militari dell'Italia, allorché l'ebreo compare a grandi titoli nei giornali come responsabile delle sconfitte dei disastri della nazione.

 

All'inizio del 1942 viene emanata la legge per l'invio degli ebrei al servizio del lavoro obbligatorio. La cosa è grottesca perché le motivazioni di questa disposizione richiamano gli ebrei al dovere di servire la nazione (quindi lavoro coatto per gli ebrei). Ma chi aveva escluso gli ebrei dalla possibilità di partecipare al servizio militare, se non lo stesso regime che adesso si vendica in questo modo? L'Italia non aveva bisogno del lavoro coatto degli ebrei, anche perché l'Italia è uno dei pochi Paesi in guerra che ha disoccupazione, a differenza degli altri Paesi mobilitati per la guerra. Questo si configura quindi come un ulteriore gesto di prepotenza e di umiliazione a carico degli ebrei.

Va segnalato poi che alla vigilia della caduta del fascismo (25 luglio 1943) viene progettato l’invio coatto di tutti gli ebrei italiani (non più solo quelli stranieri) in campo di concentramento. Vi è insomma un’ascesa, un’escalation della persecuzione, aggravata dalla guerra.

 

L’ultimo elemento di periodizzazione che richiamo è ciò che succede dopo l’8 settembre 1943, perché questo giorno rappresenta in questa storia in parte una continuità in parte una cesura profonda. I tedeschi non introducono elementi di legislazione nella persecuzione degli ebrei in Italia, i tedeschi operano con l’arresto e la deportazione. Gli elementi peggiorativi della legislazione sono tutti opera della Repubblica Sociale Italiana.

La RSI mette a disposizione dei tedeschi un potere esecutivo: in genere (salvo la razzia nel ghetto di Roma del 16 ottobre 1943) sono proprio le forze della Repubblica sociale che eseguono gli arresti, sia che essi avvengano per ordine dei tedeschi, sia che essi avvengano per iniziativa autonoma delle autorità della RSI.

 

La RSI si serve della rete di nuove disposizioni, per esempio della fine del regime che escludeva alcune categorie di ebrei dalle persecuzioni (“i benemeriti della patria”). È la RSI che proclama (nell’art. 7 del Manifesto di Verona) l’antisemitismo fra i suoi fattori costitutivi e quindi priva gli ebrei di ogni tutela giuridica, dichiarandoli nemici, estranei, stranieri e, per il tempo della guerra, “appartenenti a stato nemico”: questa è la dizione esplicita della legislazione e della “costituzione” materiale di Salò. Quindi la Repubblica Sociale non si può considerare esente da responsabilità nel processo di internamento e di consegna degli ebrei ai tedeschi. Secondo le disposizioni di Buffarini Guidi, la RSI deve predisporre in ogni provincia un campo di concentramento per gli ebrei. Nei fatti questo non avverrà per le ragioni più diverse, spesso anche per ragioni strettamente legate al procedere delle operazioni militari. Tuttavia, laddove questo avviene, a consegnare gli ebrei ai tedeschi sono sistematicamente le autorità della RSI.

 

Qui si apre quindi il grande capitolo della responsabilità della Repubblica Sociale per quanto riguarda la fase della “soluzione finale” in Italia e - ambito in cui i militi della RSI sono particolarmente attivi - in tutte le procedure di spoliazione di beni. Le spoliazioni di beni sono opera essenziale della RSI. Esse hanno comportato un incremento di arricchimenti illeciti di dimensioni notevolissime e non - come pretendeva la stampa della RSI – un arricchimento patrimoniale a beneficio delle vittime dei bombardamenti aerei. La Commissione presieduta dall’onorevole Tina Anselmi ha elaborato una Relazione molto ampia che non è solo un documento di constatazione delle perdite patrimoniali subite dagli ebrei, ma è anche un documento storico di grande interesse, perché attraverso questa documentazione emerge lo stretto nesso che vi è tra deportazione e privazione di ogni bene, a cominciare dai semplici utensili di uso quotidiano e personale. Non è una spoliazione di patrimoni industriali o di capitale finanziario, è una depredazione totale di ogni avere che potesse servire alla sopravvivenza degli ebrei; e questo non è l’ultimo degli inquietanti interrogativi legato alla problematica della deportazione e spoliazione.

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI CITATI

 

Bon Gherardi, Silva, La persecuzione antiebraica a Trieste. 1938-1945, Udine 1972.

Centro Furio Jesi (a cura di), La menzogna della razza. Documenti ed immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, Bologna 1994.

Collotti, Enzo, Il fascismo e gli ebrei: le leggi razziali del 1938, Bari 2003.

De Felice, Renzo, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Milano 1961.

Sarfatti, Michele, Gli ebrei nell’Italia fascista, Torino 2000

Voigt, Klaus, Il rifugio precario. Gli esuli in Italia dal 1933 al 1945, 2 voll., Firenze 1993-96.