Sul quadro politico in Italia e in Alto Adige nei primi anni Sessanta.

 


 

 

Autore: Carlo Romeo

Rif. bibl.: Romeo, Carlo, L’avvio del centrosinistra in Italia e la questione altoatesina. In: Bruno Kreisky und die Südtirolfrage / Bruno Kreisky e la questione dell’Alto Adige, Veröffentlichungen des Südtiroler Landesarchivs, Sonderband 4, a cura di Gustav Pfeifer / Maria Steiner, Edition Raetia, Bozen 2016, pp. 87-94. ISBN 978-88-7283-590-6.

 

 

 

L’avvio del centrosinistra in Italia e la questione altoatesina

 

di Carlo Romeo

 

 

Una delle fasi più importanti di discussione della questione altoatesina, precisamente tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, si svolse in una fase assai delicata della politica interna italiana: il passaggio dalla formula governativa del “centrismo” all’avvio del “centrosinistra”. Si trattò in realtà di una transizione lunghissima accompagnata da momenti di arresto e di crisi (1).

Dal 1948 e per tutti gli anni Cinquanta la Democrazia Cristiana (DC) era stata ininterrottamente da sola alla guida della politica nazionale, sia con governi “monocolori” sia di alleanza con partiti dal limitato peso elettorale come il Partito Socialdemocratico Italiano (PSDI) e il Partito Liberale Italiano (PLI). Verso la fine del decennio tale formula non resse più, le maggioranze non si trovavano e la DC si trovò nella necessità di allargare la coalizione.

Da un lato, la politica atlantica e la forte influenza degli Stati Uniti nelle scelte del governo italiano (tanto da far parlare in seguito di “democrazia bloccata”) sembravano impedire un’apertura a sinistra, verso i socialisti. Una parte consistente della DC guardava invece alla destra, che si propose spesso in quegli anni quale “stampella” alla coalizione di governo. Proprio in quel periodo il Movimento Sociale Italiano (MSI), sotto la segreteria di Arturo Michelini, accentuò i caratteri di partito conservatore ma non eversivo. Insieme ai Monarchici e ai Liberali, la destra scaturita dalle elezioni del 1953 aveva una forza parlamentare di circa il 15%. Il blocco conservatore che ne sarebbe potuto uscire, aveva un minimo comune denominatore molto netto da un punto di vista ideologico, l’anticomunismo, e avrebbe potuto godere dell’appoggio di ampi settori del capitalismo italiano e internazionale, della Chiesa cattolica, delle forze armate e della stessa Nato.

La tentazione all’interno della DC di una svolta a destra era pertanto forte e di fatto tale opzione rimase aperta almeno fino al governo di Fernando Tambroni della primavera/estate 1960 (25 marzo-19 luglio). Esso venne appoggiato dall’esterno anche dal MSI. La sua caduta, determinata dalle ben note tensioni a tutti i livelli, rappresentò una vera e propria svolta nella politica non solo della DC ma più in generale italiana (2).

 

 

All’interno del partito democristiano prevalsero alla fine i fautori di una pur cauta apertura a sinistra. Ciò avvenne, tuttavia, nel contesto di una dura lotta interna tra le correnti, che in sostanza non avrebbe mai trovato un equilibrio definitivo e che avrebbe condizionato profondamente, limitandola, l’azione riformista dei governi di centrosinistra degli anni Sessanta. All’attivismo di Amintore Fanfani, “uomo forte” della DC dell’epoca − che arrivò in certi momenti a riunire nelle sue mani Presidenza del Consiglio, Ministero degli Esteri e Segreteria del partito − si oppose la nascita della corrente dorotea guidata dall’assai più prudente Aldo Moro, in grado di dialogare con la destra del partito.

Nel frattempo anche il Partito Socialista Italiano (PSI) si predispose all’avvicinamento. Si intensificarono i colloqui tra il socialdemocratico Giuseppe Saragat e il socialista Pietro Nenni e nel settembre 1961 il PSI rimosse la sua opposizione all’alleanza atlantica. Si trattava di un passo fondamentale per superare le diffidenze statunitensi. A livello internazionale, l’avvio del centrosinistra fu favorito da tre fattori: la fase di distensione nella “guerra fredda”, i nuovi orientamenti della presidenza Kennedy negli USA e quelli del pontificato di Angelo Roncalli, Giovanni XXIII.

La svolta definitiva in campo democristiano si registrò in occasione dell’VIII Congresso nazionale (Napoli, Teatro San Carlo, 27−31 gennaio 1962). Vi prevalse la linea Fanfani-Moro, che prevedeva l’apertura a sinistra attraverso un percorso che mirava nell’immediato futuro all’appoggio parlamentare del PSI a un tripartito (DC, PSDI, PRI) guidato da Amintore Fanfani. Il primo vero governo di centro-sinistra organico si sarebbe registrato solo nel dicembre 1963, con Aldo Moro presidente e Pietro Nenni vicepresidente (3).

 

 

Ma quali furono le conseguenze della svolta per la questione altoatesina? Partirei da una citazione tratta da una seduta della direzione provinciale della SVP, il 18 dicembre 1961. Vi era riportata un’osservazione fatta dal senatore Karl Tinzl. Secondo quest’ultimo l’imminente congresso nazionale democristiano avrebbe probabilmente decretato la cosiddetta “apertura a sinistra” e ciò avrebbe giustificato un “prudente ottimismo” per la SVP (4).

Certamente nel giudizio di Tinzl, il politico SVP di più lungo corso (5), influiva anche l’antico ricordo delle posizioni dei socialisti italiani dopo l’annessione, da Filippo Turati a Ezio Riboldi. I socialisti erano stati l’unica forza politica italiana che aveva espresso contrarietà all’annessione del Tirolo meridionale tedesco. Avevano fatto un chiaro cenno al diritto di autodecisione e, in seconda battuta, si erano espressi per forme avanzate di autonomia (6).

Ma, senza andare così indietro nel tempo, Tinzl aveva certo presente che una delle richieste socialiste era di dare finalmente corso al decentramento regionale. Previste dalla Costituzione, le regioni ordinarie non erano di fatto mai state istituite. Le sinistre premevano in questo senso anche perché era prevedibile una loro affermazione e supremazia nelle cosiddette “regioni rosse” (basti pensare all’Emilia-Romagna, alla Toscana, alla Liguria).

Ma, anche tralasciando questo, un osservatore attento come Tinzl aveva certamente dovuto notare soprattutto le nuove dinamiche che venivano sviluppandosi ormai da anni all’interno della DC. Era in corso un avvicendamento della classe dirigente che non era solo generazionale ma anche politico-ideologico e che apriva nuovi margini alle richieste sudtirolesi.

Ciò che accadeva a livello nazionale si rifletteva anche a livello locale. Prendiamo ad esempio i rapporti tra la DC altoatesina e quella trentina. Basta un semplice confronto tra la situazione agli inizi e quella alla fine degli anni Cinquanta. All’inizio del decennio la DC bolzanina era fortemente critica verso quella trentina perché, a suo giudizio, non tutelava a sufficienza gli italiani di Bolzano. In generale prevaleva una netta diffidenza verso lo sviluppo della stessa autonomia regionale, che avrebbe portato vantaggi solo a Trento e avrebbe lasciato gli altoatesini di lingua italiana in una situazione precaria e fragile. Leader locale della DC bolzanina in tutto questo primo periodo era l’avvocato Angelo Facchin (7), eletto per due volte deputato (nel 1948 e nel 1953). Nel suo ruolo di difensore degli interessi italiani aggregava un consenso abbastanza trasversale: un blocco che potremmo definire di centro-destra.

Pochi anni dopo, verso la fine del decennio, la situazione appariva sostanzialmente capovolta. All’interno della DC altoatesina aveva assunto la guida un nuovo gruppo dirigente, sotto molti aspetti legato alla svolta che in quegli stessi anni Fanfani aveva impresso al partito a livello nazionale; un partito ristrutturato come partito di massa, con grande radicamento sul territorio, un partito che rivendicava la sua centralità come fonte di indirizzo politico e anche di gestione del potere. E ora i rapporti tra Trento e Bolzano si configuravano di segno opposto: i vertici della DC bolzanina si esprimevano in modo molto più aperto riguardo alla prospettiva di allargamento delle competenze provinciali; quelli trentini sembravano frenare in tutti i modi.

 

 

Tra i motivi di questa “svolta bolzanina” vi era senz’altro la spinta del mondo cattolico più orientato al sociale. Vi era l’influenza delle ACLI (Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani) e della CISL (Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori) nonché i mutamenti all’interno della curia vescovile sia di Trento che di Bressanone. Sono gli anni in cui, sotto la guida di Josef Gargitter, si stava preparando lentamente la grande svolta del 1964, quando sarebbero stati ridefiniti i confini tra le due diocesi in modo da farli coincidere con quelli delle due province (8). Gli indirizzi di Gargitter, tra cui la famosa pastorale del febbraio 1960 (9), rappresentavano – oltre che una condanna verso la radicalizzazione della lotta etnica che aveva anche preso la strada del terrorismo – un preciso invito per la politica democristiana locale a rivedere le proprie posizioni prima che la situazione degenerasse.

 

 

Tutti i politici democristiani altoatesini che sarebbero stati attivi in questo cambiamento di prospettive provenivano o risultavano comunque molto legati all’associazionismo e alle organizzazioni cattoliche: Alcide Berloffa (10)   ̶   che dal 1958 subentrò a Facchin come “deputato italiano” dell’Alto Adige)  ̶  Armando Bertorelle (11), Giorgio Pasquali (12) e altri. In questo contesto non mancarono anche lucidi intellettuali − come Lidia Menapace (13) e Giuseppe Farias (14) − che elaborarono e proposero assai presto (intorno al 1959) l’unico possibile compromesso per risolvere politicamente la questione posta dal “Los von Trient”: mantenere la cornice regionale e allargare al suo interno le competenze provinciali, con alcuni eventuali strumenti di salvaguardia per il gruppo italiano.

Va ricordato che proprio Lidia Menapace nel 1959 venne nominata “commissario straordinario” della DC altoatesina proprio in seguito al grande scontro interno sull’autonomia, ingaggiato tra la corrente (alla fine vincente) di Berloffa e quella dell’ex segretario Amerigo Finato (15). La congiuntura nazionale in campo democristiano si presentava favorevole ai sostenitori a livello locale di un allargamento delle autonomie provinciali. A ciò spingeva anche una parte qualificata del mondo intellettuale che si rispecchiava nel centrosinistra. Per fare un esempio, l’associazione “Amici e collaboratori del Mulino” di Bologna organizzò a Bolzano nel novembre 1961 − a pochi mesi di distanza dai clamorosi attentati della “Feuernacht” (12 giugno) − il suo VI convegno, in cui predominarono le proposte di modifica dello Statuto (16).

 

 

Un altro segnale si registrò nello stesso momento nella politica trentina, dove terminò l’era politica di Tullio Odorizzi (17), a lungo alla guida della Regione. Odorizzi si era battuto contro l’interpretazione della SVP dell’art. 14 dello Statuto d’Autonomia (sulla delega delle competenze dalla Regione alle Province), vincendo la battaglia da un punto di vista giuridico – attraverso il parere della Corte costituzionale – ma perdendo irrimediabilmente l’appoggio del partito sudtirolese. Rimase al governo della Regione fino al gennaio 1961 pur nella consapevolezza del vento nuovo che stava provenendo da Roma. Nell’impossibilità di recuperare il sostegno della SVP, il suo indirizzo rimase però fondamentalmente contrario all’apertura a sinistra, fino ad accettare persino l’appoggio della destra missina e cadendo infine su una mozione di sfiducia del PSI. A nulla era servito l’estremo tentativo di ricucire il rapporto con la SVP tentato da Bruno Kessler (18). Il cosiddetto “piano Kessler per l’Alto Adige” (febbraio 1960) arrivò probabilmente troppo tardi (19).

 

Una volta aperta la controversia presso l’ONU nel 1960 (20), le posizioni ufficiali italiane rimasero tecnicamente immutate: formalmente il principio rimase che l’accordo di Parigi fosse stato adempiuto. Nel settembre 1961 fu istituita − a livello, si ripeteva, “meramente interno” − la Commissione dei 19 su iniziativa del ministro dell’Interno Mario Scelba, col parere favorevole di Fanfani ma con perplessità da parte di Segni, Taviani e Piccioni (21). Senz’altro i lavori della Commissione, sebbene nata quando il centro-sinistra non era ancora organico, finirono col risentire comunque del nuovo indirizzo politico italiano. Nel quadro complessivo dei suoi risultati – anche se mantenevano un valore meramente consultivo − venne a profilarsi un concetto dello Statuto d’autonomia sostanzialmente nuovo.

 

 

Nel periodo del centrosinistra ormai organico − cioè con il coinvolgimento diretto del PSI nel governo – con il ministero degli Esteri del socialdemocratico Giuseppe Saragat (1963-64) si giunse vicini persino all’accordo con l’Austria. Saragat non solo presentò al “collega” austriaco Bruno Kreisky la “Relazione dei 19” come base di discussione fra gli esperti dei due paesi che avrebbero dovuto continuare le trattative, ma ventilò anche la possibilità di un “aggancio internazionale” sotto forma di un arbitrato a tre.

La questione dell’“aggancio internazionale” sarebbe rimasta anche in seguito uno dei punti che maggiormente avrebbero distinto le posizioni dei partiti di sinistra (socialdemocratico e socialista) e quelle democristiane. Per i primi non vi erano eccessive remore a un riconoscimento internazionale della nuova sistemazione autonomistica, mentre per la DC la dimensione interna di quest’ultima rimase un punto fermo irrinunciabile. Uno dei motivi, tra l’altro, era che tale concessione avrebbe rappresentato una sconfessione di tutta la propria politica a riguardo, dall’impostazione degasperiana in poi.

 

 

La figura politica che incarnò più di ogni altra la parabola del centrosinistra in Italia fu Aldo Moro e proprio allo statista pugliese toccò affrontare lungo i suoi governi − o comunque i governi che appoggiò e ispirò − lo scioglimento della difficile questione. All’uomo delle “convergenze parallele” riuscì di far quadrare il cerchio sulle più difficili contraddizioni che poneva il problema: le richieste della SVP e quelle dei partiti italiani, le richieste di ancoraggio internazionale da parte dell’Austria e il principio italiano dell’avvenuto adempimento dell’accordo di Parigi (22).

 

Il cammino che avrebbe portato all’approvazione del cosiddetto “pacchetto” sarebbe stato lungo e accidentato e certo non privo di differenti posizioni all’interno e tra i partiti del centrosinistra. Tutti i partiti nazionali registrarono a riguardo forti tensioni con le relative federazioni in provincia di Bolzano e, a volte, dovettero imporre dall’alto e con forza la propria linea. Per i socialisti, ad esempio, un punto di profonda controversia fu la cosiddetta “proporzionale etnica”, come pure la possibilità di voto del bilancio provinciale per curie etniche. Ma anche i repubblicani si espressero assai criticamente sulla rigidità etnica del sistema autonomistico che sarebbe stato messo in piedi. Ciononostante, pur con molti distinguo e cautele, il “pacchetto” e poi lo Statuto furono approvati dal parlamento con i voti dei partiti di tutto il centrosinistra più quelli del Partito Comunista Italiano (PCI), senza il quale non sarebbe stata possibile l’approvazione a maggioranza qualificata.

 

Per concludere, il contributo principale del centrosinistra verso un nuovo approccio alla questione altoatesina mi pare ben sintetizzato nella dichiarazione di voto dell’onorevole Renato Ballardini (23), deputato socialista trentino, allegata alla “Relazione dei 19” consegnata nel 1964: “L’aspetto principale è politico. La Commissione con i suoi lavori, che fra poco diventeranno di pubblica ragione, ha contribuito a rendere cosciente l’opinione pubblica nazionale della realtà del problema sudtirolese, cioè a togliere la questione dalla concezione superata di un contrasto di nazionalità, per portarla entro le dimensioni proprie di un moderno fenomeno di organizzazione democratica”. In altre parole, il concetto del necessario passaggio da un conflitto identitario a un conflitto di interessi.

 

 

 

NOTE

 

1)      Il contributo riproduce la relazione tenuta alla giornata di studi “Bruno Kreisky e la questione dell’Alto Adige” (Bolzano 12.06.2015) con la semplice integrazione di minime indicazioni bio-bibliografiche.

2)       Luciano Radi, Tambroni trent’anni dopo: il luglio 1960 e la nascita del centrosinistra, Bologna 1990.

3)        In ordine sparso e senza alcuna pretesa di esaustività, alcune opere rappresentative dell’immensa letteratura riguardo a questo delicato passaggio della storia repubblicana: Giuseppe TAMBURRANO, Storia e cronaca del centrosinistra, Milano 1990 (2° ed.); Agostino GIOVAGNOLI, Il partito italiano. La Democrazia Cristiana dal 1942 al 1994, Bari-Roma 1996; Nicola TRANFAGLIA, La modernità squilibrata: dalla crisi del centrismo al “compromesso storico”, in: Francesco BARBAGALLO (a cura di), Storia dell’Italia repubblicana, vol. II, tomo 2, Torino 1995, pp. 4-111; Umberto GENTILONI SILVERI, L’Italia e la nuova frontiera: Stati Uniti e centro-sinistra 1958−1965, Bologna 1998; Guido CRAINZ, Il paese mancato: dal miracolo economico agli anni ottanta, Roma 2005.

4)      «Nach dem D.C.-Kongress wird die sogenannte apertura a sinistra wahrscheinlich, was uns zu einem vorsichtigen Optimismus berechtigt.». Verbale della riunione del direttivo della SVP a Bolzano, svoltasi il 18.12.1961, Südtiroler Landesarchiv/Archivio Provinciale di Bolzano, SVP, Landesleitung, Nr. 1024. Il documento è riportato integralmente da Rolf STEININGER (a cura di), Akten zur Südtirol-Politik, Bd. 3: 1961 − Das Krisenjahr, Halbband 2, pp. 418 sg.

5)        Karl Tinzl (1888-1964) era stato eletto alla camera dei deputati, tra le file del Deutscher Verband, nel 1921 e nel 1924; commissario prefettizio di Bolzano dal 1943 al 1945; ancora deputato dal 1953 al 1958 e quindi senatore dal 1958 al 1963. Sulla sua figura: Annuska TROMPEDELLER, Karl Tinzl (1888–1964). Eine politische Biografie, Innsbruck/Wien/Bozen 2007.

6)      Sulle posizioni storiche delle sinistre riguardo al problema cfr. Edio Vallini/Paolo Alatri, La questione dell'Alto Adige, Firenze 1961.

7)      Angelo Facchin (1904-1990), di origini veronesi, assessore comunale di Bolzano, poi deputato alla Camera dal 1948 al 1958.

8)      Cfr. Paolo VALENTE, La sfida di una diocesi plurilingue. Fatti e testimonianze sulla nascita della diocesi di Bolzano-Bressanone, Bolzano 1999.

9)      Giuseppe GARGITTER, Lettera pastorale di Quaresima 1960 del vescovo di Bressanone. Esigenze cristiane dell'ordine sociale in Alto Adige, Bolzano [s.d.].

10)  Alcide Berloffa (1922-2011), originario del Trentino ma trasferitosi a Bolzano nel 1928, nel dopoguerra è consigliere comunale e presidente delle ACLI. Dal 1953 al 1976 è deputato al parlamento italiano. Le sue memorie sono raccolte in: Alcide BERLOFFA, Gli anni del pacchetto, a cura di Giuseppe FERRANDI, Bolzano 2004.

11)  Armando Bertorelle (1919-2013), avvocato, nato nel Vicentino ma trasferitosi sin dall’infanzia a Bolzano, attivo fino dal dopoguerra nell’Azione Cattolica fu consigliere regionale dal 1952 al 1978, più volte assessore nonché presidente del consiglio provinciale e regionale.

12)  Giorgio Pasquali (1925-2012), ingegnere, fu quasi ininterrottamente sindaco di Bolzano dal 1957 al 1968 e poi consigliere regionale fino al 1983, più volte assessore provinciale.

13)  Lidia Brisca Menapace (nata a Novara nel 1924), partigiana, docente di letteratura, consigliera e assessore provinciale per la DC dal 1964 al 1968, passò poi al PCI e poi al gruppo del “Manifesto”. Dal 2006 al 2008 senatrice per Rifondazione comunista.

14)  Giuseppe Farias (1922-2013), docente di fisica, fu consigliere e assessore comunale dal 1957 al 1961 e in seguito rivestì importanti ruoli nella scuola altoatesina, soprattutto per ciò che riguarda la formazione professionale.

15)  Amerigo Finato (1922-1972), di origini vicentine, sindacalista, dal 1952 al 1968 consigliere e assessore comunale a Bolzano; dal 1968 alla morte (1972) consigliere regionale e assessore supplente (1969-1970). Rivestì a lungo la carica di segretario provinciale della DC.

16)   CONVEGNO AMICI E COLLABORATORI DEL MULINO, Una politica per l'Alto Adige, Bologna 1962.

17)  Tullio Odorizzi (1903-1991), avvocato, sindaco di Trento dal 1946 al 1948, poi ininterrottamente presidente della Regione Trentino-Alto Adige fino al 1961.

18)  Bruno Kessler (1924-1991), consigliere regionale dal 1956, presidente della Provincia di Trento dal 1960 al 1974, deputato dal 1976 al 1983, senatore dal 1983 sino alla morte.

19)  In generale sulle vicende della DC trentina in quel periodo, cfr. Fabio GIACOMONI/Renzo Tommasi, Dall’ASAR al Los von Trient. “La Regione si chiama Odorizzi”: gli anni dell’egemonia democristiana 1948-1960, Trento 2002; Paolo PICCOLI/Armando VADAGNINI, La Democrazia Cristiana e il Trentino (1945-1994). Un partito di popolo, di governo e di potere, Trento 2015.

20)  Fondamentale l’ampia ricostruzione diplomatica di Rolf STEININGER, Südtirol zwischen Diplomatie und Terror 1947-1969, Band 2: 1960-1962, Bozen 1999.

21)  Sui retroscena della nascita della Commissione e soprattutto sul ruolo di Scelba cfr. il recente studio di Federico SCARANO, Le origini della Commissione dei 19 e il suo significato, in: Giovanni BERNARDINI/Günther PALLAVER (a cura di), Dialogo vince violenza. La questione del Trentino-Alto Adige/Südtirol nel contesto internazionale, Bologna 2015, pp. 241−278.

22)  Cfr. Federico SCARANO, Aldo Moro e la soluzione della questione sudtirolese, in: Renato MORO/Daniele MEZZANA, Una vita, un paese: Aldo Moro e l'Italia del Novecento, Roma 2014, pp. 511-532.

23)  Renato Ballardini (1927), partigiano, avvocato, deputato dal 1958 al 1979. Tra i suoi numerosi interventi sulla questione, cfr. Renato BALLARDINI, La prospettiva italiana, in: Andrea DI MICHELE/Francesco PALERMO/Günther PALLAVER (a cura di), 1992. Fine di un conflitto. Dieci anni dalla chiusura della questione sudtirolese, Bologna2003, pp. 159−165.