“Il” libro sul bilinguismo bolzanino (Roberto Antolini sul romanzo Lingua madre di Maddalena Fingerle)

 

Lingua madre

 

Maddalena Fingerle, Lingua madre,

Italo Svevo editore, 2021, 187 p., € 17,00

 

 

“PAROLE FALSE” E “PAROLE VERE”

NEL ROMANZO LINGUA MADRE DI MADDALENA FINGERLE

 

di Roberto Antolini

 

Maddalena Fingerle è una esordiente “di lusso” diciamo così: ha vinto la XXXIII edizione del Premio Calvino, il più importante premio italiano per esordienti e così quest’anno si trova pubblicata dalla casa editrice Italo Svevo, con un buon battage promozionale. Ventisettenne, bolzanina italiana, studi di germanistica a München, attualmente impegnata in un dottorato di italianistica, si presenta ora in libreria con un romanzo che narra il bilinguismo come una forma di ossessione, con finale delirio di pastiche plurilinguistico. Nell’intervista uscita su Nazione Indiana (1), Fingerle dice che vorrebbe il suo romanzo venisse letto «come una storia di finzione che racconta di un giovane uomo ossessionato dalle parole e non solo come una storia su Bolzano». Legittima aspettativa naturalmente, ma certo il rapporto di questo libro con Bolzano non si può dire sia secondario, anzi a me – leggendolo – è sembrato proprio “il” libro sul bilinguismo bolzanino, in fondo il primo che esce dalla comunità italiana della città.

 

Quando, nella citata intervista, Giovanni Accardo le chiede delle sue letture formative, lei risponde «quando leggevo Bernhard non avevo bisogno di mangiare perché mi sfamava e mi faceva piangere». È la stessa identica cosa che capita al suo personaggio, Paolo: appena arrivato a Berlino in fuga da Bolzano, si rifugia in una biblioteca, dove, afferma, «sul tavolo ho Bernhard e Kraus, entrambi aperti, e passo da uno all’altro finché non sento lo stomaco pieno e il petto caldo e mi vien da piangere perché sto proprio bene qui» (Lingua madre, p. 77). Kraus e Bernhard sono due nomi indicativi per inquadrare l’ispirazione di Fingerle: sono entrambi scrittori in rivolta irriducibile contro la loro società: la Vienna della finis Austriae quella di Kraus, la Salisburgo cattolico-nazista quella di Bernhard, il quale morendo  ̶  a perpetua memoria del suo astio  ̶  ha addirittura lasciato il divieto di pubblicare i suoi libri e rappresentare le sue opere teatrali in Austria (divieto fortunatamente dopo un po’ lasciato cadere dai suoi esecutori testamentari). Soprattutto la freddezza astrattamente contemplante di Bernhard, il suo distacco, sembrano essere una delle fonti di ispirazione per la scrittura della Fingerle, concentrata tutta sul filo della vicenda della ossessione linguistica del protagonista Paolo, tanto da mettere in scena personaggi piuttosto astratti, abbozzati solo per quello che risulta funzionale al filo della narrazione, privi di una dimensione psicologica.

 

Il libro è una specie di romanzo di formazione (anche se di una formazione mancata). Il protagonista Paolo viene seguito dall’età scolastica al successivo rigetto dell’uso della lingua italiana per l’uso esclusivo del tedesco, e la (conseguente) migrazione a Berlino, dove si innamora di un’altra esule italiana, la milanese Mira, che gli “ripulisce le parole” (cioè gli dona un po’ di calma) e con la quale ritorna a Bolzano a scodellare un figlio, che scatenerà lo scompenso finale di Paolo. L’ossessione di Paolo è una ossessione linguistica, un rifiuto viscerale delle “parole sporche” e una ricerca disperante di “parole pulite”: «le parole pulite sono così: dici una cosa e intendi quella cosa, sono vere e limpide, non ci sono associazioni mentali che le rovinano, che le macchiano o che le sporcano» (p. 91). La sua idiosincrasia per le “parole sporche” sembra qualcosa di solo suo, ha della rivolta adolescenziale contro la doppiezza del mondo adulto, come quando, irridendo all’ispirazione artistica della madre, dice di preferirle la nonna, senza tante fisime:

 

«preferisco mia nonna che ha, come dice mia zia, un impianto teorico-teoretico da perfetta borghese bolzanina doc. Mia nonna fa tutte le cose che fanno i vecchi borghesi bolzanini doc: va a correre sulle passeggiate, gioca a carte, compra vestiti e fa aperitivi in piazza» (p. 21).

 

E fin qui, effettivamente, quella della Fingerle potrebbe venir letta come una delocalizzata storia adolescenziale di finzione. Ma c’è qualcos’altro che fuoriesce da un approccio del genere. Paolo non è solo con le sue ossessioni, è inserito in una catena generazionale: ha ossessioni linguistico-sociali anche il padre, che ad un certo punto smette proprio di parlare, si ammutolisce per scelta, e si limita ad ammiccare a Paolo quando lui se ne esce contro le “parole sporche” degli altri familiari (e alla fine si getta dal balcone, provocando la fuga a Berlino di Paolo). Ma cosa sono, in fine, queste “parole sporche”? Sono espressioni travisanti, che hanno cristallizzato un sostrato sociale che altera la comunicazione, incardinandola in binari prestabiliti, privando chi le usa di un pieno controllo semantico, perché «quel nome lì, è normale che sia pieno di associazioni e ricordi» (p. 166). Associazioni e ricordi che pesano sul significato: è un qualcosa che ha a che fare con la Storia. Sporco è il linguaggio della madre – che non a caso ha ridotto il padre al silenzio – come quando, parlando del compagno di scuola di Paolo, Jan, dice che è tedesco. Per poi subito correggersi:

 

«mia madre si corregge subito, scandalizzata: Non si dice tedesco, oddio mio, scusa. Si scusa con Jan che però non c’è e non può sentirla. Si dice altoatesino di madre lingua tedesca, anzi no: sudtirolese di madre lingua tedesca e si scusa di nuovo, come una cretina» (p. 40).

 

Ma se da un capo della storia di Paolo c’è un padre ammutolito, dall’altro capo c’è l’arrivo di un figlio, che lo priva della tranquillità che aveva trovato a Berlino   ̶ fuori dal giro patologico di Bolzano   ̶   per la responsabilità che lo carica di trasmettere a lui una Verità che getti le basi di una nuova esistenza: di insegnare “parole vere”. Il libro finisce con un delirio di Paolo, che per “ripulire” entrambi fa una doccia assieme al neonato, che ad un certo punto «non piange più» (p. 186), e poi si avventura per le strade di Bolzano durante un temporale scrosciante, con in braccio il corpicino, avvolto in un asciugamano, sproloquiando in una lingua mista e stravolta: «Extracomunitari rubano es regnet banchetti Erbe olfo facciamo blaun basta prego buono mettiti calzetti prendi freddo Regen» (p. 185).

 

Nell’intervista contenuta nell’articolo che Marzio Terrani le ha dedicato sull’«Alto Adige» (2), la scrittrice dice: «dipingo Bolzano con i colori del dubbio, della paura e dell’ossessione. Sono parti che esaspero non perché ho qualcosa contro Bolzano e il suo bilinguismo, anzi, ma per far emergere l’ipocrisia e la retorica di quel finto bilinguismo». In effetti, nel romanzo, Paolo fa una tirata polemica proprio contro il falso bilinguismo di Bolzano, dove il tedesco gli italiani faticano a parlarlo (anche per l’uso soprattutto di un escludente dialetto da parte sudtirolese), per la qual cosa tocca andare all’estero:

 

«Tutti bilingui a partire dai cinque anni, qui in Alto Adige-Südtirol, bilingui come Jan, bilingui come io. Si gioca in tedesco e in inglese fin dall’asilo con i Dinocroc, tanto poi comunque vai a fare il soggiorno studio in Germania perché c’è il quarto anno all’estero e così puoi parlare il tedesco che qui tanto non puoi mica parlarlo».

 

Insomma mi sembra che il romanzo della Fingerle (che come il suo protagonista è emigrata in Germania, senza tornare per il momento) esprima una insoddisfazione per la retorica del bilinguismo a cui non corrisponde una realtà matura e diffusa, e per un ambiente spesso indicato come “chiuso” fra i monti, con parole che ricordano il trentino Giacomo Sartori (3): quando Paolo torna in pullman a Bolzano da Berlino, dice: «ma appena rivedo le montagne che chiudono lo spazio e lo opprimono sento un sasso sul petto e mi si blocca il respiro» (p. 142). La “retorica” che indubbiamente ammanta il bilinguismo bolzanino in celebrazioni ufficiali e in discorsi “politically correct” non cade però dalle nuvole, non scende a valle, come una valanga, dalle montagne. Dietro quella “retorica” c’è un compromesso fra gruppi etnici, intervenuto per non far esplodere – come le bombe che hanno riscaldato l’atmosfera della provincia fra gli anni Cinquanta e Ottanta – la situazione di conflitto etnico-politico venutasi a creare dopo l’annessione all’Italia per bottino bellico, e la seguente tragedia identitaria prodotta dal fascismo e dal nazismo (molto prima della globalizzazione, quando cioè le identità tenevano in piedi le persone). Cosa che gli italiani hanno a lungo rimosso anche in epoca democratica, e che gli è tornata indietro solo col terrorismo. Le parole di un compromesso non sono mai “vere”, resta sempre taciuta una parte di Verità, quella che si decide di non mettere in piazza per opportunità, per trovare l’accomodamento del compromesso. La retorica del “politically correct”, quello della madre di Paolo, rappresenta per alcuni la speranza che il compromesso dia alla lunga i frutti sperati. Per altri indubbiamente può essere solo una copertura d’interessi differenti (come l’interesse per la riproduzione di un sistema di potere basato sulla separazione). Il fatto che ora comincino a uscire riflessioni vere sull’identità linguistica e il bilinguismo anche da autori “italiani” (bolzanini italiani) è un ottimo segnale. Direi…

 

 

Note

 

1)  https://www.nazioneindiana.com/2021/03/31/la-heimat-e-una-cosa-da-matti-intervista-a-maddalena-fingerle/

 

2)  https://www.altoadige.it/cultura-e-spettacoli/il-premio-calvino-alla-bolzanina-maddalena-fingerle-1.2369403

 

3)   «il problema naturalmente sono le montagne, che impediscono allo sguardo di spaziare e di muoversi a piacimento, di ritemprarsi, di riposarsi. Per non parlare delle idee, che appena nate sbattono contro le pareti di roccia, e muoiono tra atroci dolori. Ma naturalmente anche la respirazione ne risente» da: Giacomo Sartori, Autismi, Broni (PV), Sottovoce, 2010, p. 50.