Bolzano fregio Piffrader

Riflessioni a dieci anni dal concorso in un colloquio con Holzknecht e Bernardi (di Elena Morandi)

 

 

Autrice: Elena Morandi

Rif. bib.: Morandi, Elena, Bolzano e la rilettura del fregio di Piffrader, Scuola di specializzazione in Beni Storico Artistici, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna 2019/2020. Indice: Introduzione - Il Fascismo a Bolzano: una storia dolorosa - Monumenti pubblici fascisti a Bolzano - Il fregio di Hans Piffrader - Il concorso del 2011 - Holzknecht e Bernardi: le parole posso cambiare il mondo? Conclusioni

 

 

La rilettura del fregio di Piffrader a Bolzano

A colloquio con gli artisti

 

di Elena Morandi

        

Il concorso del 2011

 

[…] Il 25 gennaio 2011, il ministro italiano alla Cultura Sandro Bondi inviò una lettera al presidente della Giunta Provinciale di Bolzano Luis Durnwalder, con la quale assicurò che in occasione del restauro al Monumento alla Vittoria si sarebbe provveduto a compiere un intervento esplicativo su una serie di monumenti fascisti, coinvolgendo le istituzioni locali. Va sottolineato che il concorso prevedeva non solo l’intervento sul fregio, ma anche sul monumento alla Vittoria. Il 2 febbraio 2011 la giunta indisse un concorso di idee aperto a tutti gli “artisti ed artiste, architetti ed architette, storici e storiche ed operatori e operatrici di cultura”; la soluzione richiesta doveva trasformare il fregio in un “luogo di memoria”, in modo da essere “non più visibile direttamente ma accessibile per una visita consapevole e commentata adeguatamente attraverso testi di spiegazione”. Un criterio fondamentale era che i progetti dialogassero anche con la piazza e l’antistante tribunale, e la commissione, appositamente costituita, avrebbe tenuto conto anche della creatività, della realizzabilità e della qualità dell’informazione storica.

La partecipazione al concorso si può definire un trionfo: 486 progetti. Cinque vincitori ex aequo, tra cui il progetto degli artisti gardenesi Arnold Holzknecht e Michele Bernardi che alla fine è stato realizzato. Alcune opere selezionate presentavano soluzioni tutt’altro che “non invasive”: il Projekt 1 di Gerd Bergmeister e Michela Wolf di Bressanone, in collaborazione con Franziska e Lois Weinberger di Vienna, prevedeva un filare di sempreverdi davanti al fregio, cancellandone di fatto la visione. Il progetto 381 di Julia Bornefeld di Brunico pensava di calare sulla figura a cavallo del Duce un drappo rosso che all’occorrenza poteva essere tirato su tutto il fregio.

Il bando parlava chiaramente di “luogo di memoria accessibile per una visita consapevole”. Ecco allora il projekt di Holzknecht e Bernardi: una scritta luminosa, bianca messa davanti al fregio ancora visibile. La scritta è una frase pronunciata dalla famosa filosofa di origine ebraica, Hannah Arendt (“Nessun uomo ha il diritto di obbedire” in splendida opposizione al motto fascista sotto alla figura del Duce “Credere, obbedire, combattere”). La frase non compare in nessuno scritto della Arendt ma fu pronunciata durante un’intervista radiofonica alla filosofa fatta da Joachim Fest nel 1964: Kein Mensch hat bei Kant das Recht zu gehorchen. Essa intendeva che l’argomento difensivo, addotto dai gerarchi nazisti, di avere soltanto eseguito degli ordini, non giustificava il venir meno della responsabilità per i crimini commessi.

Il progetto di Holzknecht e Bernardi venne realizzato, non senza discussioni tra gli artisti e la commissione. Il 5 novembre 2017 il nuovo assetto della piazza fu inaugurato dall’allora sindaco Renzo Caramaschi. In apertura furono letti testi (in italiano, tedesco, ladino e inglese) tratti daSchöne Welt, böse Leut di Claus Gatterer, Unvergessen di Franz Thaler, Se questo è un uomo di Primo Levi e Eichmann was outrageously stupid di Hannah Arendt. Un minuto di silenzio ha preceduto l’accensione della scritta, seguita dall’esecuzione dell’Adagio for strings di Samuel Barber eseguito dall’Orchestra Haydn. […]

 

 

Holzknecht e Bernardi: le parole possono cambiare il mondo?

 

Arnold Holzknecht e Michele Bernardi sono due artisti altoatesini originari della Val Gardena, tradizionale fucina di scultori del legno, tecnica alla quale appartengono anche entrambi […] Il primo con cui parlo è Michele Bernardi, che vive e lavora a Monaco. Ha cominciato scolpendo metallo e ferro ma si sente uno scultore concettuale. Vivendo fuori provincia ha saputo del concorso tramite l’amico Arnold. Quando gli chiedo come gli sia venuta l’idea della scritta di Hannah Arendt, dice che gli capita spesso di pensare alle parole più adatte per un luogo, quali vi si relazionino meglio. In quei giorni a Monaco c’era una mostra su Hannah Arendt; l’aveva visitata e aveva visto alcuni video con interviste. Era rimasto molto colpito dalla sua personalità e aveva approfondito il suo pensiero. Sottolinea però che a suo avviso il significato della frase è da mettere in relazione più con Kant che con la Arendt. Gli chiedo come colloca la scritta sul fregio all’interno della sua produzione artistica; risponde che per lui è qualcosa che esce un po’ dai suoi canoni dal punto di vista della realizzazione. Nei suoi lavori punta in genere a realizzazioni poco dispendiose, minimali nella lavorazione e nei costi. In questo caso gli piace molto che la scritta risulti “sospesa” nell’aria, come se si trattasse di “qualcosa nell’aria”, contrapponendosi al fregio fascista, “fisso”, scolpito nella pietra. Secondo lui la frase deve indurre l’osservatore a riflettere su se stesso.

Visto che nel sito dedicato all’opera si parla di “opportune modifiche ed integrazioni” al progetto originale, gli chiedo come sia stato il rapporto tra i due artisti e la commissione competente. Mi dice che ci sono state alcune discussioni riguardo ad alcuni aspetti della frase. La prima questione riguardava il colore della scritta. Chi ha realizzato la grafica avrebbe voluto la scritta in rosso, ma lui preferiva un colore neutro: il rosso avrebbe rappresentato come una sottolineatura, un’“informazione in più”, non necessaria. Anche sulla versione tedesca della frase ci sono state alcune discussioni: gli artisti avrebbero preferito mettere solo un “keiner” (nessuno), la commissione ha optato invece per un “kein Mensch” (nessun uomo). La parola in più è rimasta, ma sul colore della scritta sono stati appoggiati da uno storico italiano all’interno della Commissione.

Chiedo come abbia vissuto le polemiche e mi dice che esse sono state precedenti alla realizzazione dell’intervento, poi tutti “hanno constatato che la scritta era efficace”. Aggiunge che a lui non interessa la politica o le polemiche, ma vive l’opera solo dal punto di vista artistico: a lui interessa la parola usata come una cosa, una scultura. In questa nuova forma la parola non è più letteratura, o filosofia ma è poesia materiale. La scritta è in dialogo con il fregio.

Sottolinea poi che, secondo lui, l’unico punto in comune con la scultura di Piffrader è che entrambe sono commissioni politiche anche se di tempi diversi. Per il resto è un dialogo tra il passato e il presente. Cita Jirì Kolar e Mansel Prodor come i primi artisti che si sono interessati all’uso della letteratura in arte. In modo particolare mi parla di Kolar che da poeta è diventato artista, passando alla poesia visiva, usando oggetti come utensili di casa.

In conclusione cita anche il Vangelo secondo Giovanni, che inizia con la frase “All’inizio era il Verbo”. La sua visione è che quando la parola non riesce più a tenere il passo con la realtà inizia la guerra.

Dal colloquio ricavo una visione più poetica del fregio, l’immagine di una frase che fluttua nell’aria mi ha molto colpito: la frase della Arendt è una risposta arguta e intelligente a una scultura che celebra totalitarismo e ideologia come quella sul fregio.

La sera riesco a raggiungere, sempre telefonicamente, Arnold Holzknecht. […] Gli chiedo come abbia saputo del concorso: mi risponde che l’ha saputo dai media, che hanno parlato tanto del fregio. Da anni durava la discussione su che cosa farne. […] Mi dice che per un artista era un’occasione importante. Gli chiedo com’è nata la collaborazione con collega Bernardi sul progetto. Ne parlarono una sera mangiando una pizza. L’amico, vivendo in Germania, non sapeva del concorso.  Arnold gli espose la sua idea iniziale, che consisteva nello spostare le lastre di marmo, che sono singole come se fossero una scacchiera. Avrebbe messo Mussolini da una parte e sul cavallo una donna contadina. Ripensandoci ora, dice che l’idea sarebbe stata troppo invasiva. L’amico gli parlò del paradosso della Arendt. Holzknecht ne fu entusiasta, soprattutto per la potenza etico-politica della frase, e spronò il collega affinché partecipasse.

Lui aveva già fatto foto e gli studi preparatori. Concordarono la grafica, la realizzazione, lui propose di scrivere la frase nelle tre lingue parlate in provincia, inserendo anche il ladino che è la loro lingua madre. Realizzato il bozzetto lo mandò a Bernardi che lo approvò. Riguardo alla discussione sul colore della scritta, mi dice che il gruppo di grafica che ha realizzato il progetto espositivo del Monumento alla Vittoria pensava, per coerenza visiva, di realizzare la frase in rosso (infatti, su una colonna del monumento è stato inserito un led che gira intorno, mostrando la scritta “BZ ’18-45” in colore rosso). I due insistettero affinché fosse bianca. Conferma l’appoggio avuto in seno alla commissione da parte dello storico italiano Andrea Di Michele. Realizzare la scritta in rosso sarebbe stato come cancellare il rilievo.

 

Bolzano Monumento alla Vittoria

 

Mi conferma anche che hanno dovuto cedere sulla scritta in tedesco (Kein Mensch), ma in questo caso il compromesso non si è trattato di un costo troppo alto per loro. Sottolinea che, al momento dell’accensione della scritta, tutti hanno capito che “il bianco è sensibile e rende importanti solo le parole, il rosso avrebbe gridato, tagliato a metà il fregio, lo avrebbe cancellato e sarebbe stato troppo aggressivo”.

Chiedo come ha vissuto il cambio di materiale, dato che lui lavora così tanto il legno. Risponde che loro hanno pensato all’estetica della frase e una ditta ha pensato a come realizzarla: “Se sai quello che vuoi e come lo vuoi, non è difficile ottenerlo”.

Secondo Arnold la soluzione della frase è perfetta perché risponde al credo fascista presente sul fregio: “Credere va bene, Combattere l’hanno dovuto fare tutti ma Obbedire… si può mettere sempre in discussione!”. Riguardo alle polemiche, sottolinea che all’inaugurazione c’era una sola persona con un cartello con una scritta che neanche ricorda. Forse la polemica c’è stata prima, alcuni hanno detto che la fase era ambigua e paradossale, ma Holzknecht afferma che è proprio quello che piace a lui e a Bernardi. La frase è paradossale e dovrebbe far riflettere.

[…] Entrambi gli artisti, lo spirituale Bernardi e il più sanguigno Holknecht, hanno unito le forze per creare un’opera che, da un lato, parla della identità locale odierna e, dall’altro, rilegge il credo fascista. Sono presenti tutte e tre le lingue del territorio, e questo è già segno del cammino percorso dalla Seconda guerra mondiale, quando sembrava che la lingua tedesca e quella italiana non potessero convivere (la minoranza ladina non era neanche presa in considerazione). Poi la parte filosofica: inciso sul fregio il credo fascista Credere, obbedire, combattere, sul led bianco nelle tre lingue Nessuno ha il diritto di obbedire. Oggi chiunque passi in piazza del Tribunale, durante il giorno o la sera con la scritta illuminata, si trova davanti ad una frase che lo invita a riflettere, un “paradosso sospeso nell’aria”, come lo hanno definito i due artisti; un paradosso che, anche solo per un attimo, rimane nella testa. È un raro esempio di arte pubblica che interagisce non solo con l’opera di sessanta anni fa, ma anche con i cittadini di oggi.