Sul tragico episodio che insanguinò le strade di Bolzano a fine guerra (di Carlo Romeo e Mario Rizza)

 


 Partigiani bolzanini alla cerimonia del 22 giugno 1945 in piazza Vittoria

 

 

Autori: Romeo Carlo, Rizza Mario

Rif. bibl.: Romeo C., Rizza M., Tre maggio 1945: una storia cittadina. In «Alto Adige», 01.05.2020, pp. 24-25.

 

 

BOLZANO, TRE MAGGIO 1945: UNA STORIA CITTADINA

di Carlo Romeo e Mario Rizza

 

 

Promosso dall’Archivio Storico della Città di Bolzano, con il coordinamento della sua direttrice Carla Giacomozzi e l’apporto della ricerca di Marco Cavattoni sulle vittime della zona industriale, si è concluso lo studio “Bolzano, Tre Maggio 1945: una storia cittadina”. I due autori, Carlo Romeo e Mario Rizza, sulla base di un’ampia ricognizione tra fonti archivistiche, storiografiche e memorialistiche, hanno ricostruito sia il contesto, le dinamiche e lo svolgimento di quella tragica mattinata che insanguinò le strade cittadine, sia la sua difficile e per certi aspetti controversa memoria nei decenni successivi. Per il nostro giornale, da tempo impegnato attraverso le sue numerose interviste e inchieste a riportare l’attenzione su quegli eventi, i due autori ripercorrono qui alcune delle principali questioni. 

 

Nei primi anni del dopoguerra bolzanino, la ricorrenza del Tre maggio era oggetto di una propria, distinta celebrazione, con solenne e ampia partecipazione di autorità, fino a quando venne “assorbita” dalla Festa della Liberazione, istituita nel 1949. Sin dall’inizio i fatti del Tre maggio furono rappresentati come la declinazione in chiave locale della grande insurrezione nazionale che aveva scosso le grandi città del Nord-Italia a partire dal 25 aprile 1945. Collegato idealmente al sacrificio che per due anni aveva svolto una coraggiosa minoranza, quello compiutosi in quella tragica mattina, veniva presentato come punto d’arrivo di una palingenesi collettiva. Mentre il primo si era consumato in una dimensione clandestina e “oscura” (tra le sofferenze delle torture nei sotterranei del comando SS o nelle celle del campo di concentramento di via Resia), quello del Tre maggio era avvenuto di fronte a tutta la comunità cittadina. Per questo nei discorsi e nelle simbologie delle commemorazioni veniva indicato come una cesura in almeno tre direzioni, compresenti e talora intrecciate: democratica (vittoria sul nazifascismo), patriottico-nazionale (ritorno della provincia all’Italia) e sociale (difesa delle fabbriche e del lavoro).

Come per molti casi di stragi, eccidi e rappresaglie avvenute in Italia durante il secondo conflitto mondiale, anche sull’episodio bolzanino si svilupparono da subito “memorie divergenti” (più che “divise”), distribuite lungo un ampio spettro di immagini: da un’unitaria “insurrezione popolare”, al colpo di coda di un “mostro” in agonia, fino a quella, sotterranea ma persistente, di una strage evitabile, provocata dall’improvvido attivismo di alcuni o, peggio ancora, da ciniche strategie politico-nazionali. Riguardo a questo, infatti, il Tre maggio bolzanino entrò a più riprese nell’accesa controversia storiografica che accompagnò la questione altoatesina, specificamente in merito alla priorità dell’obiettivo nazionale che avrebbe avuto l’ultima fase della Resistenza italiana in Alto Adige.

 

La lapide inaugurata il 26 novembre 1945 al muro della Lancia

 

 

 

TRA STORIA E MEMORIA

 

Sui fatti di Bolzano non vennero allora svolte vere e proprie indagini, come ad esempio avvenne per quelli della val di Fiemme (3-4 maggio). Quasi totale è il “silenzio” delle fonti tedesche. La narrazione bellica nelle decine di relazioni, resoconti, memorie di generali, ufficiali, diplomatici presenti in quei giorni a Bolzano termina immancabilmente con la data “fatidica” del 2 maggio, il riuscito raggiungimento della resa, di cui ovviamente ciascuno tende ad attribuirsi il merito principale; un superficiale accenno è solo nelle memorie di Frido Senger und Etterlin. Anche la completa incertezza sul numero dei caduti tedeschi (a noi è riuscito di individuarne solo cinque) potrebbe derivare da una ragione “tattica”: a fronte dell’elevato numero di caduti civili e partigiani italiani, conveniva da parte del comando avvallare l’idea di un uguale tributo di sangue da parte tedesca.

Le fonti italiane, dirette e indirette, sono invece numerose, ma presentano una serie di problematiche. Intanto le loro diverse tipologie e finalità: memorie etico-civili, celebrazioni, apologie e polemiche oppure documentazioni redatte per i riconoscimenti delle qualifiche partigiane. In secondo luogo, il loro frequente conformarsi a modelli generali della narrativa partigiana nazionale, spesso con l’adozione di un linguaggio militare che tende a deformare la concreta esperienza di quei giorni. Infine, l’inevitabile soggettività delle prospettive che naturalmente ambiscono a farsi assolute. La dinamica stessa di quegli scontri, intermittenti e disseminati in momenti e luoghi diversi del reticolo cittadino, ne rendeva assai difficile una visione unitaria da parte degli stessi protagonisti.

  

Bolzano, Palazzo ducale, 12 maggio 1945. Foto di gruppo dei protagonisti della resa tedesca in Italia. Da sinistra in prima fila: Röttiger, von Gaevernitz (agente alleato), Vietinghoff e Wolff (NARA)

 

 

 

BOLZANO E LA RESA TEDESCA IN ITALIA

 

Fondamentale è considerare anzitutto il contesto generale in cui quei fatti si collocano. Dal 25 aprile, col trasferimento del Comando del gruppo di armate C da Recoaro, Bolzano diventò il teatro principale dell’ultimo atto della resa tedesca in Italia, ovvero dell’“operazione Sunrise”, la trattativa che i servizi segreti statunitensi avevano avviato con Karl Wolff, il generale delle SS nonché plenipotenziario della Wehrmacht in Italia. Tra voltafaccia, delazioni, destituzioni, tale trattativa rischiò fino all’ultimo di fallire a causa dei divergenti interessi ai vertici dei comandi germanici, soprattutto quelli “tirolesi” di Franz Hofer (Gauleiter e Commissario supremo della Zona di operazioni Prealpi). In questo contesto si inserì la trattativa locale di Bruno de Angelis, mirata a ottenere il passaggio dell’amministrazione della provincia nelle mani del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia (CLNAI) e quindi del governo italiano. Il cosiddetto “primo accordo”, firmato all’alba del 29 aprile presso il Palazzo ducale (Villa Roma) da de Angelis e dal generale SS Brunner (anche a nome del comandante del Gruppo di armate Vietinghoff), rivela tutta una serie di ambiguità, incertezze, limitazioni che riflettono il precario equilibrio tra i vertici tedeschi. Tale ambiguità ebbe un certo peso anche nel tragico episodio del Trenta aprile meranese.

 

LA MOBILITAZIONE PARTIGIANA

 

Negli ultimi giorni di aprile la mobilitazione partigiana era proseguita intensamente, in attesa dell’imminente crollo delle forze armate germaniche. I segnali sembravano ormai inequivocabili. Da almeno un mese continuavano ad affluire da nord migliaia di ex internati (lavoratori e militari), al punto che nella parrocchia del Cristo Re era stato allestito un centro di assistenza. Dal 28 aprile era iniziato lo scioglimento del Lager di via Resia. I partiti antifascisti cominciavano le loro prime riunioni in case private. Inoltre, da diversi giorni militari tedeschi in gruppi compatti o isolati, motorizzati, a piedi o su biciclette (rubate) continuavano a transitare verso nord. Era il risultato dei devastanti attacchi dell’aviazione alleata nella pianura padana, che aveva disintegrato buona parte della filiera di comando dei reparti.

Nella zona industriale si era allentato il controllo tedesco sui depositi e sulle fabbriche, all’interno delle quali si erano costituiti gruppi di volontari. Le armi disponibili erano poche: alcune erano state nascoste nel settembre 1943, altre rubate da depositi, cedute da disertori tedeschi e fascisti, altre erano state fatte pervenire in Alto Adige dalla X MAS.

 

LA RIUNIONE DEL 2 MAGGIO

 

Nel frattempo alle 14 (ora italiana) del 2 maggio era entrato in vigore l’armistizio tra Alleati e Forze armate germaniche sul fronte italiano. La sera stessa, in una casa privata, si riunirono i vertici del CLN. Oltre a de Angelis, Luciano Bonvicini (responsabile politico) e Libero Montesi (responsabile militare), vi parteciparono, personalmente o attraverso delegati, i principali comandanti dei vari gruppi, che denominati “brigate” avrebbero composto la “divisione Alto Adige”: Gino Beccaro (della Giovane Italia), Vittorio Giaccone (Alvaro Bari), Cesare Lettieri (Livorno), Vittorio Cerato (Pasubiana) e altri. L’area cittadina fu divisa in settori di rispettiva competenza. Le istruzioni furono di occupare pacificamente, senza usare le armi, stabilimenti, magazzini, uffici pubblici, luoghi istituzionali, tra cui il municipio e la prefettura.

Già nella notte però si verificarono i primi incidenti (e le prime sovrapposizioni di settore) con scambio di spari e un primo ferito: una pattuglia della Giovane Italia si avvicinò nella zona industriale a un magazzino ancora sorvegliato e lo stesso fece, per due volte, una spedizione della “Bari” in via Cadorna, dove c’era un deposito della Todt. Gli episodi rimasero per il momento senza gravi conseguenze.

 

Partigiani della brigata “Alvaro Bari” sul greto del Talvera

nei primi giorni del dopoguerra (Lancerini).

 

 

 COMINCIA L’OCCUPAZIONE

 

Alle prime ore del mattino, in una città praticamente deserta, il piano di occupazione dei punti assegnati sembrò inizialmente svolgersi senza incidenti. Significativo è il caso il presidio da parte della brigata Livorno presso la stazione ferroviaria, che avvenne addirittura in compresenza della gendarmeria tedesca. Il momento più rappresentativo della mobilitazione fu raggiunto, verso le ore 9, con l’occupazione della prefettura, allora dislocata in piazza Vittoria; de Angelis fece esporre il tricolore e ne fece dare comunicazione tramite la missione “Norma” (il capitano Cristoforo de Hartungen) al quartier generale alleato.

Nel frattempo alcuni militi della RSI, arrivati a Bolzano al seguito della ritirata tedesca, avevano addirittura preso contatto con i partigiani e si erano messi a disposizione, personalmente oppure consegnando loro le armi. Il gruppo di comando partigiano si era stabilito all’interno della ditta Ceccherini.

Foto aerea della parte della zona industriale coinvolta dai primi scontri (NARA)

 

 

ALLA ZONA INDUSTRIALE

 

La difficoltà di ricostruire la “tempesta” che si scatenò all’improvviso risiede soprattutto nella frammentazione cronologica e spaziale degli episodi. Non si trattò certo di una battaglia continua e lineare, ma piuttosto di un insieme di scontri e incidenti dispersi su gran parte del territorio urbano, che si accesero a intermittenza e con conseguenze più e meno tragiche.

Gli scontri partirono dalla zona industriale, specificatamente presso la Lancia, tra le otto e le otto e mezza. Contravvenendo agli ordini, si sparò su una camionetta tedesca in transito da sud lungo l’attuale via Volta (allora via Luigi Razza), che rispose col lancio di una bomba a mano all’entrata dello stabilimento. L’episodio fu la scintilla che innescò le reazioni successive. Poco dopo, infatti, fu attaccato e centrato da una granata un camion carico di militari che transitava ugualmente in direzione di ponte Resia, diretto forse ai lazzaretti di Merano. Non essendoci al momento altri militari tedeschi nella zona, alcuni volontari uscirono sulla strada, raccolsero i morti (forse tre) e i feriti portandoli all’interno. Prima che anche il camion colpito venisse portato dentro, dal cavalcavia al bivio tra via Claudia Augusta e l’accesso alla Zona industriale provennero colpi di mitragliatrice pesante e di obice indirizzati sulla Lancia e le Acciaierie. Erano infatti sopraggiunte da sud unità tedesche, probabilmente del I Corpo di Fallschirmjäger (paracadutisti). Il fuoco investì anche le baracche del vicino Villaggio Lancia. Una parte della colonna tedesca proseguì verso nord, un’altra iniziò a penetrare nella zona industriale, anche aggirando via Volta attraverso l’attuale via Buozzi. Sparando all’impazzata verso tutti gli stabilimenti vicini (da cui pure erano provenuti degli spari) e con l’ausilio di autoblinde, i tedeschi entrarono nel cortile interno della Lancia. I reparti furono perquisiti e furono rinvenuti i cadaveri dei militari. Contemporaneamente cominciò un meticoloso rastrellamento di tutte le fabbriche, con i primi morti, feriti e rastrellati: alcuni trovati in possesso di armi, alcuni con il bracciale del CLN o tricolore ma anche altri del tutto estranei sia alla mobilitazione che alle sparatorie. Com’è noto, diciotto dei rastrellati furono portati davanti al muro della Lancia e colpiti da due raffiche di mitragliatrice di autoblindo. Dieci morirono all’istante o in seguito e otto sopravvissero, perlopiù con gravissime ferite. La rappresaglia segnò il culmine della tensione alla zona, che rimase sotto il controllo tedesco fino all’ordine di sgombero (portato a termine verso le 14). Complessivamente nell’area della zona industriale i caduti furono 15 e 22 i feriti.

 

NEGLI ALTRI QUARTIERI

 

Un secondo precoce focolaio di scontro si accese in via Roma, dove i partigiani avevano collocato un presidio (presso il ponte) e che fu presto sciolto per l’arrivo di truppe tedesche dalla zona industriale e da Oltrisarco. Contemporaneamente la colonna che era penetrata nella zona industriale, superato ponte Resia, risalì lungo il quartiere delle semirurali, lungo l’asse via Bari-via Cagliari ma investendo anche le strade laterali, tra cui le vie Vercelli, Genova, Udine, Belluno e Brescia. I militari aprirono il fuoco sui passanti, sulle porte e finestre aperte, sui balconi spesso imbandierati, allo scopo di prevenire attacchi terrorizzando la popolazione. Tra le 12 vittime (quattro morti e otto feriti) si riscontra in quest’area una netta prevalenza di civili.

La colonna attraversò quindi il “rione Littorio” (via Milano, Torino, Rodi e attuale piazza Matteotti) dove i morti furono ben otto e sette i feriti, questa volta in prevalenza partigiani, appostati agli ultimi piani dei caseggiati.

Sparatorie intense vi furono anche nella zona di San Quirino, all’incrocio tra le vie Roma, Torino e Firenze, lungo una delle principali direttrici (insieme a viale Trieste) del transito tedesco verso la stazione. In questa zona (comprendendo anche i viali Druso e Venezia) si contarono undici vittime (sei morti e cinque feriti), di cui tre civili. Diversi caseggiati, verosimilmente quelli dai quali erano provenuti degli spari, furono perquisiti e i maschi, esclusi i più giovani e più anziani, furono concentrati, insieme ai rastrellati nelle altre zone, presso la sede dell’ex GIL di viale Trieste.

Altri punti della città (via Claudia Augusta, via Dalmazia, piazza Mazzini) furono coinvolti da isolate sparatorie. Tra questi anche la stazione ferroviaria, dove una improvvisa raffica di mitragliatrice colpì senza preavviso una pattuglia di volontari disarmati, che sorvegliavano pacificamente il transito dei mezzi assieme a poliziotti tedeschi.

 

AZIONI E REAZIONI

 

Sotto il profilo storiografico la strage di quella mattina rientra nel numero, drammaticamente ampio, di quelle avvenute nel contesto insurrezionale e della “ritirata aggressiva” dell’esercito tedesco in area alpina. Si tratta di una fase breve ma particolarmente cruenta. Secondo le clausole della resa, dalle 14 del giorno precedente i reparti si sarebbero dovuti fermare e concentrare in punti di raccolta in attesa degli Alleati. Nonostante le difficoltà nelle comunicazioni, gli ordini erano stati diramati dai comandi di armata già il mattino del 2 maggio. Su alcuni reparti dominava l’influenza di ufficiali particolarmente fanatici e che non accettavano la resa. L’indicazione principale era comunque di evitare a ogni costo il disarmo e la resa alle forze partigiane. Con quest’ultime si poteva instaurare, in caso di necessità, trattative circoscritte mirate a evitare imboscate e a garantire a se stessi e ai reparti che seguivano un transito in sicurezza. In generale negli episodi di Bolzano si registrò una varietà di atteggiamenti tra gli ufficiali tedeschi, dai più brutali ai più ragionevoli.

Una varietà di comportamenti si manifestò anche nelle azioni dei diversi gruppi delle formazioni partigiane, che furono condizionate in alcune fasi da impreparazione, scarso coordinamento e talora anche da un estemporaneo e pericoloso attivismo.

 

IL CESSATE IL FUOCO

 

Mentre dalla città provenivano gli echi delle sparatorie, presso il quartier generale tedesco a Gries de Angelis, Montesi e Ferdinando Visco Gilardi (appena uscito dal lager) nel corso di serrate trattative riuscirono a far firmare a Wolff e a Vietinghoff (che era stato prima deposto e poi rimesso in carica da Kesselring) l’accordo col quale l’amministrazione della provincia passava al CLN. Anche in tale occasione si distinse per ragionevolezza il generale Hans Röttiger, capo di stato maggiore del Gruppo di armate, che col suo coraggio aveva supplito, nelle fasi della resa, alle indecisioni del suo superiore Vietinghoff. Un altro accordo più tecnico riguardava l’ordine pubblico, lo sgombero delle truppe dalla zona industriale e il pattugliamento misto di alcuni depositi. Accompagnato su un’auto aperta da un maggiore tedesco, Montesi cominciò un lungo giro per le zone della città per far cessare le sparatorie e far liberare prigionieri e rastrellati. L’operazione durò all’incirca fino alle 14. Soltanto allora a Bolzano la guerra finì davvero.

 

Bolzano, 4 maggio 1945 (piazza Vittoria).

Soldati tedeschi si recano al rancio (NARA)

 

 

 

IL TRAGICO BILANCIO DI QUELLA MATTINA

 

Di seguito, in ordine alfabetico, i nomi dei 36 caduti di quella mattina, di cui 21 partigiani, 3 ex militari e 12 civili:

Baldo Angelo; Bertolina Annibale; Bonani Ermanno; Bonato Fausto; Borin Irfo; Braitenberg (von) Paul; Bruscia Remigio; Canazza Napoleone Eugenio; Cavaliere Giuseppe; Ciola Emilio Angelo; Costa Antonio; Cressotti Bortolo; Cudin Gino; Danti Aldo Alfredo; De Biasi Arrigo; De Pasquale Francesco; Ferrari Iginio; Gabrielli Andrea; Gasperini Severino; Gentili Giuseppe; Giuriola Vittorio; Laghi Luigi; Leonardi Luigi; Liquori Angiolino; Lorenzetto Virgilio; Murari Margherita; Nicolis Luigi; Peretto Antonio Bruno; Poli Ildo; Pontalti Arturo; Re Romolo; Sabia Germano; Sarri Giorgio; Saudo Walter; Stadik Sandro; Stoffie Natalia.

I feriti furono 56, 32 partigiani e 24 civili:

Albertin Gaetano; Archis Augusto; Arragone Mario Giuseppe; Audisio Lorenzo; Bedetti Guido; Benetello Giorgio; Bensi Lelio; Beriotto Basilio; Bonora Rino; Boriello Pasquale; Bovo Bruno; Bovo Ottorino; Brandelise Assunta; Brando Tonino; Bresciani Bruno; Carti Gaetano; Cavattoni Andrea; Ceccherini Oscar; Cecchet Oscar; Cestarollo Nibio; Cherubini Anna; Costa Albina; Costa Albino; Dalmolin Gualtiero; De Feo Carmine; De Leo Ennio; Federici Giuseppe; Gnecchi Walter; Gobbato Duilio; Lauderno Francesco; Longhi Bruno; Lucchiari Eugenio; Luise Vittorio; Maghenzani Antonio; Maghenzani Vittorio; Marzana Pietro; Mattea Alfredo; Mazzucchi Alessandro; Meneguzzo Vincenzo; Minnelli Luigi; Montini Pierangelo; Morello Gelsomino; Nale Giselda; Pansera Raffaele; Pasquetto Enzo; Pecoraro Raffaele; Pucci Amulio; Putrino Nicola; Remonato Antonio; Rossignoli Egidio; Tonellotto Albino; Toniolo Giovanni; Virzì Carmelo; Zampolli Walter; Zenoni Carolina; Zentena Francesco.

Sconosciuto il numero delle vittime (morti e feriti) di parte tedesca, tranne cinque militari sicuramente caduti a Bolzano il 3 maggio: Walter Dubiel; Fritz Heyde; Josef Pröslmeyer; Michael Schuster; Josef Vymetalik.

 

 

 

Il monumento ai Caduti della Libertà, opera dell’artista Claudio Trevi, inaugurato il 25 aprile 1955, era collocato inizialmente lungo la passeggiata Lungotalvera San Quirino e fu poi spostato in piazza Adriano (Foto Rizza).