Ampia recensione, con numerose illustrazioni, della mostra dell’artista ladino-sudtirolese Lois Anvidalfarei allestita presso il Castello di Pergine (di Roberto Antolini)
I viandanti di Lois Anvidalfarei in mostra al Castello di Pergine
di Roberto Antolini
Il castello di Pergine sovrasta, dalla cima di un boscoso colle di 600 metri, la storica cittadina presso Trento, un tempo cuore amministrativo di un’antica area mineraria. Quest’estate le sue austere sale gotiche e le aree verdi racchiuse nella cinta muraria ospitano “Viandanti”, una mostra delle bronzee sculture, di grandi dimensioni, dell’importante artista ladino-sudtirolese Lois Anvidalfarei. «Così le sculture in Castello sono i muti personaggi di una rappresentazione teatrale quasi sacra, senza pubblico ma in intimo dialogo tra loro e con le severe pietre» recita il catalogo edito dalla Fondazione Castelpergine, che pubblica una ricchissima documentazione fotografica sulle opere di Anvidalfarei immerse in questi spazi carichi di storia, presentate dal bel saggio del curatore della mostra Alessandro Fontanari.
Il castello è stato nel Novecento al centro di vicende significative ed anche curiose. Tenuto in Belle Époque da una associazione germanista che ne aveva fatto il centro di attività nazionalistiche gran-tedesche (che puntavano a coinvolgere le minoranze linguistiche germanofone presenti in zona), ha poi ospitato una comunità teosofica ed è stato abitato nel 1924 anche dal pensatore indiano Krishnamurti. Dagli anni Cinquanta ha conosciuto una gestione privata che lo ha fatto funzionare come albergo e ristorante di lusso. Nel 2018 il castello, messo in vendita dalla proprietà alberghiera, viene acquistato – caso più unico che raro - da una Onlus fondata appositamente, la Fondazione Castelpergine (vedi: www.fondazionecastelpergine.eu), tramite una pubblica sottoscrizione fra semplici cittadini, e con il contributo di enti locali e istituti bancari. La Fondazione, continuando l’attività d’accoglienza per sostenere le spese, punta contemporaneamente a fare di questo significativo esempio di architettura gotica in uno straordinario contesto naturale e paesaggistico, un importante centro di vita artistica e culturale.
Purtroppo, da poco insediatisi, quest’anno è capitata loro fra capo e collo l’epidemia di coronavirus, che ha tenuto sbarrato il castello e le attività che dovrebbero sostenerne i costi, permettendo solo il 27 giugno di riavviare le attività culturali con questa importante mostra, che presenta ad un vasto pubblico una ricca rassegna dell’ormai trentennale lavoro di quello che è forse il maggior artista sudtirolese, documentandone l’originale itinerario artistico, partito dall’Istituto d’arte di Ortisei in val Gardena BZ (erede di una locale tradizione artigianale di scultura lignea), per approdare nel 1983 all’ Akademie der bildenden Künste di Vienna, dove si forma sotto il magistero dello scultore georgiano, ma austriaco d’adozione, Joannis Avramidis, noto soprattutto per le sue grandi sculture bronzee che stilizzano con un’opera di compressione-astrazione il corpo umano, dalla cui influenza parte l’attività creativa di Anvidalfarei (se ne possono ravvisare tracce ancora in opere dei primi anni Novanta presenti in mostra), che procede poi però con un suo originale percorso di ricerca, sempre teso alla narrazione della corporeità umana in forme liricamente drammatiche. Dal 1988 Anvidalfarei è impegnato con attività espositive in gallerie e musei, e si è affermato anche con lavori di committenza e fruizione pubblica, soprattutto nel mondo germanico. In Italia questa si può dire sia la sua seconda mostra importante, dopo quella tenuta nel 2013 al Museo d’arte contemporanea MACRO di Roma, oltre al passaggio nel 2011 alla Biennale di Venezia. Al Castello di Pergine sono presenti 19 opere (fra singole sculture e gruppi), composte in un arco cronologico che va dal 1990 al 2018, con un’opera inedita composta in occasione di questa mostra.
Il percorso espositivo della mostra è ispirato al dialogo delle opere con il contesto castellano, facendo attenzione alla loro ambientazione storico/architettonica e naturalistica, quindi non segue un percorso cronologico. Volendolo noi invece seguire qui - per comprendere passo dopo passo gli sviluppi dell’arte di Anvidalfarei - dovremo saltellare da una parte all’altra del castello e delle varie sezioni del percorso espositivo, che si articola in tre spazi: il Parco tra le mura, il Palazzo Baronale, ed il Prato della Rocca.
Il castello il giorno dell’inaugurazione della mostra
Abbiamo visto che Anvidalfarei si è formato artisticamente nell’ambiente viennese degli anni Ottanta, basato su una tradizione di astrazione figurativa che prima di Avramidis risaliva ad una figura-ponte verso le avanguardie storiche: Fritz Wotruba (1907-1975), che aveva sviluppato a Vienna una idea di astrazione basata su solide forme geometriche di base, e quindi del corpo umano inteso come struttura architettonica. L’opera che più rimanda a questa formazione viennese dell’artista è la Figura tirolese (del 1994), collocata come una sentinella alla base della “Torre rotonda” antica sede di prigione, dove il lavoro di astrazione su elementi del corpo umano, che qui si articola in tre forme più o meno cilindriche appena sagomate e mosse, senza nemmeno un accenno di volto, è più presente che in altre opere, anche precedenti. Come il Crocifisso (del 1990) esposto nella cappella gotica, nel quale i due elementi cilindrici che compongono la figura sono più antropomorfi ed arricchiti dalla ovoidale plastica di un capo reclinato, con un sottile abbozzo di forma del volto; e nell’altro Crocifisso (1994-1995) - posto in uno spazio erboso a fianco dell’ingresso che attraverso la “Torre della Madonna” dà accesso al Palazzo Baronale - nel quale l’accenno alle forme fisiche del corpo umano, pur rotondamente deformato, con moncherini al posto delle braccia e volto sagomato, disegna una figura decisamente più allusiva all’iconologia classica di un corpo in posizione crocefissa.
Queste opere di soggetto religioso, ma di forme tozze e di superfici ruvide e materiche, non prive di un evidente attributo sessuale, interpretano comunque molto a modo loro l’iconografia tradizionale del crocefisso, direi in maniera molto poco trascendente: sono diventate universali immagini del dolore quotidiano della condizione umana, nella nostra valle di lacrime.
Questa tendenza a designare in modo geometrico ed affusolato un corpo umano a tronchi, la troviamo esposta ancora in un’altra opera di poco oltre la metà degli anni Novanta, nella composizione Stanga della condizione umana (1996-1997), dove i tronchi diventano membra smembrate ed appese ad una gabbia, e l’antropomorfismo è affidato soprattutto ad un sesso in bell’evidenza e a delle specie di dita grassocce, che sembrano avere qualcosa di intimo, che contrasta però qui con l’insieme crudo della composizione, che esposta com’è nell’angolo dove si incrociano le due cinte murarie di un castello feudale, fa venire in mente piuttosto squartamenti e tragedie quotidiane di cui è sempre stato pieno il mondo.
Della fine degli anni Novanta e del primo decennio del nuovo secolo, cominciano invece a comparire in mostra corpi più definiti, plasmati con maggior tendenza realistica, anche con esattezza anatomica in certi casi, ed articolati in precise pose significanti, anche se, alle volte, sono corpi un po’ alterati come da un surreale gonfiore. È il caso del bellissimo David (1998-2000) collocato in un punto panoramico sotto la “Tor Quadra”, che con la sua posa di sogno, come sul punto di staccarsi da terra in levitazione, porta un elemento di serenità e forse qui sì di trascendenza.
Ma è ancor più il caso delle due statue correlate Il Male (del 2007) e La Conversione (2008), collocate nell’incavo delle due torri scudate che si aprono a sud nella cinta muraria, che nel 2009 sono state esposte ad Innsbruck, nelle nicchie della facciata barocca della cappella del Landtag del Tirolo. Qui le forme plastiche dei corpi sono piuttosto classiche (pur nella sovrabbondanza e mollezza di linee) e le pose sono chiaramente simboliche: Il Male è accartocciato su sé stesso e volta le spalle al visitatore, mentre La Conversione sottopone tutto il corpo alla torsione, nel passaggio dalla colpa al pentimento
Della fine del primo decennio del secolo è Ecce homo (2009-2010), altra opera composita, con tre corpi pendenti legati ad un’altra gabbia, sistemata nel percorso della mostra in un prato lungo le mura, in vista della “Torre rotonda”.
Qui i corpi, in sé di una classica bellezza, sono definiti con una certa precisione anche dal punto di vista anatomico-muscolare, ma pendono come inerti ed offesi. Per le pose profanatorie mi hanno fatto venire in mente un’altra esperienza che ha molto caratterizzato – con scandalo - la vita artistica viennese negli anni Sessanta, ben prima quindi che ci arrivasse il nostro artista, ma che nell’immaginario collettivo è comunque rimasta legata, fin dal nome, a quell’ambiente artistico: Il Wiener Aktionismus. È un tipo di arte performativa che si è caratterizzata per usi degradanti del corpo, che veniva sottoposto ad azioni scoccanti dal sapore sadomasochistico. Quello del WA era un attivismo estremo e provocatorio (forse, oggi, potremmo dire anche un po’ consumistico), niente a che vedere quindi con la bronzea immobilità monumentale di quest’opera di Anvidalfarei, ma certo le pose e l’idea stessa della composizione sembrano avere qualche rimando a quell’esperienza, almeno a livello di memoria visiva. Perché poi invece il senso ultimo di quest’opera, chiaramente rientra in pieno in quella monumentalizzazione della condizione dolorosa dell’uomo, nella celebrazione del suo essere sospeso sull’abisso, che viene sempre più a mostrarsi - nel prosieguo della mostra - come l’orizzonte esistenziale proprio dell’attività artistica di Anvidalfarei.
Un tipo di figurazione ricorrente nel lavoro di Anvidalfarei, che troviamo presente anche nel percorso di questa mostra con due opere del primo decennio del secolo, è la figura della testa racchiusa fra le mani, sola, isolata dal corpo, che concentra evidentemente sull’espressione del volto, e sulla nervosa presa delle mani, tutto il suo significato. La prima, Roberta mit Händen (2006-2007) è un ritratto della moglie dell’artista, la poetessa Roberta Dapunt, ed è collocata nel delizioso cortile interno dell’ala clesiana, chiamato “Prato della Rocca”. La seconda, Indignazione per il male (2008), che sta presso la scala della “Torre della Madonna”, non ha invece identità personale come la prima, ma è un simbolo universale che nel titolo porta chiarissimo il suo significato. Nonostante il tipo di figurazione sia lo stesso, le due opere sono sensibilmente diverse. Il ritratto della moglie è un’opera serena, l’unica veramente serena presente in questa mostra (assieme al però enigmatico David), il volto è intenso ma disteso, forse sul limitare dell’altra dimensione, quella del sonno: un ritratto della bellezza femminile e dell’intimità familiare, che mani da poetessa sfiorano lievemente. L’ Indignazione per il male è ovviamente invece una rappresentazione dolorosa, e le mani tendono a nascondere in parte il volto sofferente.
Roberta mit Händen
Indignazione per il male
Arriviamo agli inizi del secondo decennio del secolo (2011-2013) con l’opera più complessa portata da Anvidalfarei a Pergine, e montata in un rialzo sotto la facciata esterna dell’ala clesiana: la Conditio Humana, una installazione che ingloba 5 statue bronzee, rappresentanti corpi cadenti o ripiegati su sé stessi, in una struttura-contenitore di tubi da ponteggio. Le figure, richiuse in sé stesse come in una dignitosa assenza, al pari delle figure di Ecce Homo sono sagomate con rotondità e proporzioni classicamente equilibrate, mentre nella simbologia delle loro pose rappresentano situazioni di debolezza e marginalità sociale (l’Embrione, L’Inservibile, L’Incolto, Il Cadente, il Giacente), che la struttura da ponteggio immobilizza, stringendone le membra in una presa metallica.
I corpi rannicchiati su sé stessi diventano in questi anni frequenti nei lavori di Anvidalfarei, ce ne sono altri due anche in questa mostra, esposti all’interno del Palazzo Baronale: il bronzeo Accovacciato (2011), che si protegge la testa con le mani, esposto nella claustrofobica cella dell’antica prigione, mentre in uno spazio della cantina c’è l’altro accovacciato, Ipsum (2016), esposto qui in gesso per far cogliere al visitatore il passaggio delle opere dalla sagomazione nel gesso alla fusione in bronzo.
Nelle opere successive alla Conditio Humana, che cronologicamente si collocano lungo il corso del secondo decennio, troviamo un ulteriore sviluppo nella raffigurazione del corpo. I corpi perdono quella rotondità così caratteristica - per esempio nel David, o nei due reciproci Il Male & La Conversione - che ha indubbiamente l’effetto di sdrammatizzare un po’, con un’aria bonaria, il messaggio magari anche tormentato della scultura. In Ohne Dogma (2013), Pietà (2014-2015), Caro (2016) ed Ita est (2017) troviamo corpi smagriti, percorsi da una tensione nervoso-muscolare, a volte avviluppati in posizioni tese o contorte, o mossi da un fremito di energia sul punto di esplodere.
Ohne Dogma (2013) è un ennesimo crocefisso. È esposto in cima alla “Porta torre”, che immette al castello e alla mostra. Il corpo è a braccia aperte come inchiodato su una croce che però non c’è nella scultura, ed è qui sostituita da un ponteggio che sorregge e la fa sporgere dalla cima della torre, con il volto (ed il resto del corpo ovviamente) rivolto verso le profondità del cielo. I visitatori da sotto vedono il tergo, su in cima alla torre, con i particolari non molto riconoscibili per la distanza, ma anche così colpisce il corpo scheletrico ed il capo cadente. Non un crocifisso che - nella morte - ripiega le forme verso la terra, ma che si spalanca verso l’infinito. Una fusione cosmica. Ohne Dogma è l’immagine scelta per il manifesto della mostra e per la copertina del catalogo.
La Pietà (2014-2015) si trova nel “Prato della Rocca”, collocato fra i ruderi di una antica chiesa, riscoperta nell’occasione di questa mostra. È una Pietà che rovescia l’iconografia cristiana tradizionale: ad essere pianta è una donna, non l’uomo. L’uomo è inginocchiato e ricurvo, annichilito sul corpo femminile, le cui membra ossute sono abbandonate al sonno eterno. Piacerebbe alle donne del movimento #MeToo?
Caro (2016) ed Ita est (2017) sono il culmine di questa modalità di composizione nervosa, a membra avviluppate. Entrambi questi corpi ripiegati stanno all’interno del Palazzo Baronale, nell’ampia “Sala delle armi” dalle alte volte gotiche illuminate da lame di luce che piovono fendendo l’ombra dalle rare finestre, a rendere ancor più drammatiche le figure con un violento chiaro/scuro. Posano entrambe su un antico pavimento di cotto, la donna di Ita est sdraiatavi direttamente, rannicchiata in un sonno agitato, con piedi contorti e rialzati e gambe accavallate. L’uomo di Caro - sorretto da una base - in una posa innaturale, accartocciata ma tesa, con i muscoli compressi come in attesa di schizzare in uno slancio.
E veniamo ora all’ultima opera, quella composta nel 2018 proprio in previsione di questa mostra. Una enorme testa (senza mani) che nell’allestimento è stata assai opportunamente collocata all’inizio di tutto, prima dell’avvio del percorso espositivo, in una posizione dominante davanti all’accesso al Palazzo Baronale, che guarda dall’alto lo spiazzo leggermente declinante dove l’organizzazione ha realizzato un teatro all’aperto, per tenervi, in tempo di emergenza, tutti gli incontri pubblici.
L’opera si intitola Mediterraneo. È una testa sciolta da ogni altra parte del corpo, rotolata sul prato di Castel Pergine come portata insieme ad altri migranti naufragati dalle onde del Mediterraneo. Sta a bocca aperta. È la bocca aperta dell’ultimo respiro, della ricerca affannosa di un po’ d’aria: «chi ha visto morire un uomo o un animale – dice al riguardo il catalogo – non può dimenticare la bocca spalancata per avere ancora aria, ancora vita; l’ultimo respiro è l’ultima parola, il linguaggio dei viventi: siamo tutti mortali». Da questa bocca esce la lingua, su cui stanno incise parole poetiche della moglie dell’artista, Roberta Dapunt: «Poiché noi abbiamo pianto,/perdonato guerre e miseria, avuto un nuovo inizio,/ripreso le nostre vite in mano. Le abbiamo guardate/dal fondo di ogni morte avvenuta/ed era estremità superiore, sommità feroce/che non conserva nulla di umano./Di questa siamo stati prigionieri, di un tempo,/razzisti su di noi, ammazzandoci oltre i colori,/la mente perversa ansimava il diritto/a un grado inesistente di purezza». Dall’opera insomma esce un preciso richiamo all’attualità, una militanza umanitaria.
Nel concludere il suo saggio per il catalogo, Alessandro Fontanari indica in questo modo le caratteristiche del percorso artistico di Lois Anvidalfarei: «In generale possiamo affermare che i suoi lavori uniscono la severità e il rigore compositivo della linea nordica (compresa l’ascendenza gotica) con i caratteri della tradizione umanistica e rinascimentale permanenti dell’arte italiana. La sua formazione artistica mitteleuropea da una parte e il suo vivere in una valle ladina sudtirolese dall’altra, hanno certamente favorito la fusione di culture e di prospettive che alimenta l’originalità della sua opera». Qui - sulla base della disamina della sequenza cronologica delle opere presenti in questa mostra - possiamo aggiungere a queste convincenti conclusioni di Fontanari, anche che il suo è un percorso che comincia là dove sono arrivate oltre la metà del Novecento le ultime reminiscenze delle avanguardie storiche, applicando inizialmente uno sguardo di astrazione sulle forme del corpo umano. Per poi recuperare progressivamente una dimensione figurativa, quella che Fontanari chiama la “tradizione umanistica e rinascimentale”. Ma direi rovesciandone l’impostazione estetica, e di conseguenza anche etica. L’uomo degli scultori classicamente umanistici era il dominatore dell’universo, un principe conquistatore. Le sue forme disegnavano una bellezza ideale, una tendenza alla perfezione che era anche volontà di potenza, di soggiogamento della vita e del mondo, un sogno che oggi mostra tutti i suoi limiti. Che l’opera composta apposta per questa mostra, Mediterraneo, ci sbatte in faccia. La bellezza di Anvidalfarei è una bellezza che viene dopo tutto ciò. È la bellezza dell’imperfezione, della debolezza consapevole, della dignità del dramma umano. La levigatezza delle superfici della scultura classica diventa in lui una pelle dalla bellezza materica, irregolare, imperfetta, come la vita.
L’artista alle prese con l’allestimento di una delle sue opere, insieme al curatore della mostra Alessandro Fontanari (per gentile concessione della Fondazione Castelpergine)
Catalogo della mostra:
Lois Anvidalfarei: bronzi, Pergine, Fondazione Castelpergine onlus, 2020, € 25,00.
Le fotografie riprodotte in questo articolo, tranne l'ultima, sono di Roberto Antolini.