“Prendere in consegna la voce di almeno un altro essere umano”: narrazione e psicanalisi nel romanzo del trentino Paolo Miorandi (recensione di Roberto Antolini)
Paolo Miorandi, L’unica notte che abbiamo,
Roma, Èxòrma, 2020, 249 p., € 16,00
LA NOTTE DI MIORANDI: UNA NARRAZIONE PSICANALITICA
di Roberto Antolini
L’unica notte che abbiamo di Paolo Miorandi (Èxòrma 2020) è un romanzo intriso di psicanalisi, sia per ciò che riguarda i contenuti, che per la forma. La ‘storia’ è quella di una famiglia mancata, dalla messa incinta di una giovanissima e ignara servetta in un albergaccio di valle da parte del figlio del padrone ̶ negli anni subito dopo la Prima Guerra Mondiale ̶ all’abbandono in fasce dei due nati da parte della ragazza messa alla porta dal padrone (che spedisce anche il figlio in Argentina, dove muore poco dopo l’arrivo, perché il suo albergo non diventi una fabbrica di bastardi); dalla vita devastata dei due bimbi abbandonati fino alla terza generazione, con il personaggio dell’unica figlia del maggiore dei due, che invece riesce a salvare la sua vita ̶ pur raggelata dal dolore delle sue radici familiari corrose da quel rifiuto originario ̶ costruendosi una posizione di docente universitaria in storia. Alla fine della sua vita, quest’unica esponente della terza generazione, avvia una “ricerca storica” sulle vicende della sua “famiglia” (mai chiarite dal padre) prendendo in mano foto, lettere, e altra documentazione portata via dalla casa del padre al momento della sua morte.
L’ispirazione psicanalitica del racconto è apertamente dichiarata dall’autore – non a caso uno psicoterapeuta trentino ̶ che fa dire alla storica ormai anziana, nel colloquio con un vicino: «sono più che convinta che gran parte dell’esistenza di noi sventurati sapiens sapiens consista nel tentativo, il più delle volte fallimentare, di guarire dagli influssi perniciosi e dalle devastanti patologie provocate dai morbi che si annidano e ingrassano nei focolari domestici (almeno in questo, devo ammetterlo, il dottor Freud ci aveva visto giusto)» (p. 110). Naturalmente per Freud la famiglia non è certo solo questo, non è necessariamente un’inevitabile sfiga, è il momento fondante di ogni vita, costitutivo della percezione del sé e dell’avvio del processo di separazione/individuazione, che è la costruzione stessa dell’individuo. Ma nei rapporti di questa storia manca proprio tutto ciò: del legame familiare resta solo l’abbandono, il vuoto. Per il maggiore dei due figli, Ernesto, il padre sarà per tutta la vita solo – con risentimento – «il chiavatore», mentre il più piccolo, Gioacchino, è esattamente lo stampo di quel vuoto, che dice «loro per me non sono mai esistiti, tutto qui» (p. 95).
Il romanzo non ha un briciolo di spirito consolatorio, diciamo che rappresenta un mondo affatto privo d’attrattiva, che si muove indifferente in una catena di cause/effetti psichici. La madre è vittima quanto gli altri: «ero così – dice di sé – un uccello che viene a beccare nel cortile e che all’improvviso vola via senza che nessuno possa capirne il motivo, una bestia selvatica che guarda il mondo con occhi muti, che non fa nient’altro che scappare per cercarsi ogni volta un nuovo rifugio, e questo, ne sono sicura, è quello che fanno le bestie selvatiche e spesso di loro non si vede nient’altro che le tracce che si lasciano dietro» (p. 58).
Ma se questi sono i contenuti, la forma è se possibile ancor più connotata dalle impostazioni e dalle procedure della psicoterapia psicoanalitica. Io ho qui, finora, presentato qualcosa di simile a dei personaggi, ma è stata una mia semplificazione espositiva. I personaggi, in questo romanzo, fanno la fine che Freud ha fatto fare all’idea unitaria che l’uomo dell’Ottocento aveva di sé stesso, dimostrandone la non univocità, e mettendo in evidenza, dentro allo stesso contenitore personale, una pluralità di soggetti, anche in conflitto dinamico fra di loro. Così nel testo possiamo dire che non esistono davvero personaggi costituiti in modo narrativamente unitario: come nessuna delle figure che abbiamo visto comporre la scena ha una percezione di sé integrale, e tutto dentro loro è sgretolato; così al posto dei “personaggi” nel testo compaiono solo delle “voci” che provengono da epoche, luoghi, situazioni, età, totalmente differenti (vivi & morti), che affiorano nelle stesse pagine, senza che ci sia nessun dispositivo per distinguere le une dalle altre) e composte in modo – apparentemente – casuale e frammentario, tanto da creare da principio qualche difficoltà di comprensione al lettore, fino a che non si sono inquadrate le modalità narrative. Il lettore è così costretto a procedere proprio come procedono le sedute di analisi: “per indizi”. Viene in mente un passo del commento di Musatti agli scritti di Freud sull’arte: «la stessa attività intuitiva non va esercitata sopra un singolo elemento, bensì sopra un materiale che continuamente si arricchisce e che fornisce esso stesso un controllo … l’interpretazione di ogni singolo particolare va convalidata con l’interpretazione globale di tutto il materiale disponibile» (1). In effetti proprio così deve procedere anche il lettore di questo romanzo.
La ‘storia’ viene raccolta sulla pagina scritta da un io-narrante, vicino distratto di una ormai vecchia signora che abita sopra di lui senza che lui la abbia mai contattata. Un giorno, a causa di una lettera a lei indirizzata finita nella sua cassetta delle lettere, sale da lei per la prima volta e la scopre intenta a visionare carte e fotografie: è lei infatti la storica della terza generazione. Lei comincia a raccontargli la storia, un pezzo alla volta, una fotografia alla volta. Perché lui infatti ne viene coinvolto, e dopo la prima volta, sale ripetutamente da lei, con regolarità. Ma oltre al racconto della vecchia signora, a lui si offrono ora – ora che se ne è addentrato – anche altri resoconti. Giungono da “voci” che lo raggiungono nella notte, fra il sonno e la veglia, e lo ragguagliano sui vari particolari della vicenda, presentando ognuno il suo punto di vista, magari in contraddittorio o laterale a quello degli altri. È il cambio di turno fra conscio ed inconscio: «sono il custode notturno di questa camera bianca, mi dico, poi il giorno comincia, due persone differenti che s’incontrano al cambio di turno, ognuna misura la distanza che la separa dall’altra, ognuna percepisce suoni che l’altra non può percepire e vede cose per le quali l’altra persona è cieca» (p.60). Una narrazione, dunque, condotta da un io-narrante esterno alla vicenda, che la prende in consegna da chi è parte in causa, vivi e defunti. E si interroga: «mi chiedo se ogni essere umano non sia per caso chiamato a prendere in consegna la voce di almeno un altro essere umano» (p. 69-70), ponendosi un problema sostanziale della psicanalisi «un resoconto richiede cura» (p. 121). Svelando, con simili affermazioni, questa scrittura letteraria proprio come una metafora e una derivazione della psicanalisi. E una ricerca di senso, per chi prende storie in consegna «io avevo risposto di sì; ancora non sapevo che sarebbe toccato a me prenderla in consegna e, si badi, non perché avrei ritenuto che quella storia contenesse qualcosa da tramandare, un monito, un esempio, un’indicazione da preservare per il domani, no, piuttosto perché eseguendo il compito che mi era stato affidato e che avevo accettato avrei legato insieme i due capi di un filo che altrimenti si sarebbe definitivamente spezzato, di uno tra i milioni di fili invisibili che ci permettono di tessere il nostro ponte di corde teso sopra l’abisso» (p. 244).
NOTA
1. Commento, di Cesare L. Musatti, in, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, di Sigmund Freud, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 590.