Il passato che non conosco

Leggendo il romanzo di Mauro Buffa su un altrove che ci vive accanto (Roberto Antolini)

 

 

UN ROMANZO ITALIANO SULL'IMMIGRAZIONE CLANDESTINA

di Roberto Antolini

 

Il trentino Mauro Buffa nella vita professionale è un funzionario pubblico, poi è un viaggiatore. Ha scritto, per la Ediciclo, quattro libri di viaggio “dall'altra parte del mondo”: Transiberiana, Transmongolica, USA coast to coast lungo le rotte di Kerouac, ed Australia.

Adesso ci prova col romanzo Il passato che non conosco (Ensemble, 2018), che si colloca comunque altrove, ma un po' anche qui, in quell'Altrove che ci vive accanto, intrecciato con il nostro mondo; vuoi che sia lontano, nelle favelas sudamericane, vuoi che arrivi a sfiorarci ai bordi delle nostre strade, ma rimanendo sempre un altro mondo, sociale ed esistenziale.

Buffa, che è un buon narratore e lo si vede benissimo anche nei suoi reportage di viaggio, costruisce questa volta una storia avventurosa ed avvincente, complicata e picaresca, raccontando la vicenda di una ragazzina di strada boliviana, sempre in fuga. In fuga dal villaggio ammuffito in cui è nata, ai bordi della foresta, poi in fuga anche dalla favela di Cartagena dove ha avuto una bambina con un pandillero (membro di una gang adolescenziale) per arrivare fortunosamente in Italia con un permesso turistico gestito dai narcos, a provare a fare la vita della immigrata senza permesso di soggiorno, fino ad incappare, casualmente ma in modo chiaramente “segnato dal destino”, nei meccanismi della nostra realtà, a lei sconosciuta. Messa giù così sembra una trama da serial televisivo “alla Gomorra”, invece Buffa riesce a farne un vero romanzo psicologico e sociale, con personaggi a tutto tondo, e un panorama della vita ai margini crudo ma vero, anche delicato perché descritto dal punto di vista del suo equilibrio interiore, dal punto di osservazione di una Weltanschauung migrante. Direi con qualcosa da Ottocento verghiano, una specie di Malavoglia del tempo della globalizzazione, e di un sud del mondo disperato ma tutt'altro che immobile.

Quello che colpisce nella narrazione di Buffa è la connotazione dei personaggi, il loro intrecciarsi nella vita quotidiana, ma appartenendo ad universi reciprocamente sconosciuti. Marvel, la protagonista – per la quale «c'era sempre un passato lontano o vicino da dimenticare», e che «riusciva sempre a stare a galla, ma ogni onda che si avvicinava avrebbe potuto sommergerla» (p. 175) – incontra assistenti sociali attanagliate dalla precarietà (lavorativa ed esistenziale) dei nostri giorni, che però non sanno riconoscersi in quella della loro “assistita”. Incontra magistrati annoiati – con «un forte senso di appartenenza di classe, che sovrastava quello per l'equità della giustizia che avrebbe dovuto applicare senza eccezioni» (p.223) – capisce bene, a modo suo, la situazione: «capiva bene cosa voleva dire il giudice. Stava disprezzando il suo mondo, quelle persone che le avevano dato accoglienza e che in qualche modo l'avevano aiutata» (p. 229).

È un libro di contenuti questo di Buffa, ma non moralistico. L'Autore non si affretta a condannare, non è questo l'atteggiamento, cerca piuttosto di capire: narrativamente lo fa intrecciando in sequenza i punti di vista diversi dei vari personaggi, nell'alternanza brusca di punti di vista marginali con altri istituzionali, di ruolo e di potere. La desolazione che ne risulta è appunto l'asettico clima dei nostri giorni indifferenti ed anti-buonisti.

 

Ma là dove l'Autore si permette un momento di identificazione con il suo personaggio, superando l'andamento che abbiamo visto un po' “verghiano”, è il passo sull'assassinio di Marvel, trasfigurato poeticamente in un momento di eternità, che è quello della dignità incancellabile della persona umana: «Quando fu a terra, Marvel sentì l'odore del muschio bagnato. Stava riprendendo conoscenza e, anche se non sapeva dove si trovava e perché, comprese d'istinto che tutto stava per finire. Percepì un oggetto freddo e duro alla base della nuca. Non ebbe il tempo di rialzarsi, di pensare, o di capire, perché nello stesso istante in cui aveva avvertito quella sensazione era esploso un tuono e lei si era sentita sollevare, o volare, o chissà che altro. Ma tutto era durato un attimo, e ora non sentiva più nulla. Ora non esisteva più. In quell'attimo, però, aveva rivisto davanti a sé, chiara e nitida, una baracca al limitare della jungla, i suoi genitori e i suoi fratellini, e Alba, e Esteban, e anche una gattina tigrata. E in quel momento che era durato una frazione di secondo, o forse non c'era nemmeno stato, lei era stata felice. Una felicità infinita, perché aveva rivisto tutti quelli che aveva amato e li aveva portati per sempre con sé» (p. 297).

 

Mauro Buffa, Il passato che non conosco, Roma, Edizioni Ensemble, 2018, p. 349, € 16,00