Antonella Bragagna, Due spose

 

Carteggi ritrovati, narrazioni familiari e commozioni della vita quotidiana in due racconti di Antonella Bragagna ambientati nella Grande Guerra.

 

ANTONELLA BRAGAGNA, DUE SPOSE: STORIE D’AMORE E DI PAESI

Pergine (TN), Publistampa edizioni, 2018, p. 131, € 15

 

 

Lettere in bottiglia dalla Prima Guerra Mondiale

di Roberto Antolini

 

Le vite diventano Storia, in questo libro di Antonella Bragagna, e la Storia diventa letteratura, tornando alle parole emozionate, alle commozioni della vita quotidiana, complici due sorprendenti carteggi ritrovati dall’autrice presso la propria famiglia e presso quella di una vicina: relitti ancora inediti della Prima guerra mondiale, che saltano fuori in occasione di questo non ancora concluso centenario.

Nella prima storia, “L’amore moravo”, Bragagna lavora sulle lettere che si sono scambiati la sua nonna trentina Antonietta, sfollata diciottenne in Moravia al tempo della Grande Guerra, finita a lavorare in una fabbrica d’armi, e Frantisěk, giovane maestro di Brno che un giorno la accoglie in classe per scaldarsi alla stufa della scuola, e poi conclude con un appassionato fidanzamento l’incontro con la giovane sfollata. Ma un tragico destino di guerra incombe sulla coppia mista. Frantisěk viene arruolato nell’esercito austro-ungarico e spedito sul fronte italiano, proprio in un forte nel Trentino, facendo ritorno in Moravia solo dopo che la famiglia di Antonietta sarà stata rimpatriata per la dissoluzione dell’Austria-Ungheria, rispedita a casa propria a Trento. Nelle difficoltà di comunicazione dell’immediato dopoguerra i contatti si interrompono e possono riprendere solo quando comincia a diventare più permeabile la cortina di ferro che ha diviso l’Europa dell’Est e dell’Ovest dopo la seconda guerra mondiale. I due ex-fidanzati, travolti un tempo dal “rebalton”, si ritrovano epistolarmente negli anni Sessanta, attraverso lettere che si raccontano con rimpianto quanto accaduto allora e le vite che hanno avuto dopo, ma fra le righe passa anche la condizione dell’Europa del secondo dopoguerra: il nuovo benessere trentino, la primavera cecoslovacca.

 

Antonietta Boscheri e Frantisěk Novotny, 1916

 

Nella seconda storia, “La sposa russa”, Bragagna lavora invece su un epistolario in russo conservato da una vicina che lei ha frequentato da ragazzina, e che le ha raccontato la sua incredibile storia un po’ alla volta, fra un caffè e l’altro, nella cucina della sua casa a Gardolo, frazione di Trento. Aleksandra – questo il nome – aveva conosciuto il giovane soldato trentino Emanuele, di Gardolo, quando lui, soldato austro-ungarico “prigioniero dello Zar”, era stato spedito a lavorare nella tenuta dove lei lavorava come bracciante, vicino alla città di Jaroslavl’ sul Volga, di proprietà di una famiglia arrivata nell’Ottocento dal Friuli, i Tropin. I due ragazzi si innamorano subito, si sposano e fanno un figlio. Ma i tempi corrono veloci nella Russia in guerra. Arriva la rivoluzione, e nel 1921 la tenuta dove loro lavorano viene socializzata, trasformata in un kolchoz e affidata a una cooperativa formata dai contadini e dai prigionieri di guerra rimasti. Aleksandra, ancora parlando con l’autrice negli anni Settanta, era piena di nostalgia per quel periodo, ricordava come «nel kolchoz si stava bene e non si pativa la fame, le cose erano uguali: a ognuno il suo, che era di tutti … il piccolo Valentino, già di due anni, veniva custodito insieme a tutti gli altri bambini nell’asilo del campo» (p. 93).

Ma la nostalgia è una brutta bestia. Emanuele vuole tornare nel suo Trentino, ed un giorno del 1925 sua madre lo vede arrivare a Gardolo con moglie e figlio russi. Emanuele, nel suo paese, era stato dato per disperso, e il dopoguerra del passaggio del Trentino dall’Austria all’Italia era gramo, le tre bocche in più da sfamare non vengono prese bene. Lui non riesce a riprendere il lavoro che faceva prima della guerra, il ferroviere: il fascismo non ha apprezzato il suo ritorno tardivo, lo sospetta di filo-bolscevismo e non c’è più un posto per lui nella ferrovia. Deve andare a lavorare per trent’anni in un altoforno, dove se lo porta via l’angina pectoris. Aleksandra non viene accettata dal paese: «Quant’che ho patì popa. Che piànzer» [quanto ho patito, bambina. Che piangere] (p.103) racconta Aleksandra – in stretto dialetto trentino - all’autrice nei loro incontri, per concludere che «bèn, l’èi nada cossì,cara» [beh, è andata così, cara] (p.119). Nel 1959 una visita del postino la sorprende, tanto da farle cader di mano il piatto che aveva in mano: a lei che dei suoi familiari russi non aveva più saputo nulla, arriva la lettera di una sorella, l’unica della famiglia sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale. E, anche qui, comincia una corrispondenza che narrandosi reciprocamente vite che avevano preso strade tanto diverse, nutre la nostalgia, prova a ricucire un po’ il distacco. A riavvicinare le due metà dell’Europa novecentesca.

 A. Bragagna, Due spose

Aleksandra Pavlovna Ivanova ed Emanuele Casagrande

nel giorno delle nozze, 1918

 

Alla base del libro - come abbiamo visto - ci sono i due epistolari, e le narrazioni familiari relative. Ma Antonella Bragagna, che è una fine poetessa (con all’attivo 4 libri di poesia, due testi teatrali, e vari libri d’artista), ci lavora efficacemente a modo suo. Brani delle lettere – tradotte dal russo nel caso di Aleksandra, in un italiano stentato ma commoventemente pieno di buona volontà nel caso di Frantisěk – sono montati nelle pagine “in diretta” al momento giusto, ottenendo uno straordinario effetto lirico.

Brevi schede “tecniche” sull’epoca storica inquadrano le vicende personali, mentre misurati brani in prosa poetica portano in scena la voce dell’autrice a connettere il tutto, con un io-narrante quanto mai intonato a queste straordinarie storie. Ma anche in questa forma narrativa, rimane qualcosa dell’opera lirica che Antonella Bragagna aveva inizialmente pensato di trarre dai due epistolari, poi non andata in porto per problemi sul lato musicale del progetto. Anche nella forma narrativa infatti, restano i “cori” che facevano da sfondo all’opera lirica, che mantengono la funzione di portare in scena una voce collettiva che commenta i fatti e rende l’atmosfera emotiva del momento storico. In questi cori emerge la forza lirico-evocativa della scrittura poetica di Antonella Bragagna, la sua capacità di caricare semanticamente parole ed immagini, arrivando a sintesi di grande efficacia, come quando l’agosto 1914 - in cui in 24 ore vengono improvvisamente reclutati 55.000 soldati trentini – viene reso dai versi «Era una vera sera/Era chi c’era c’era/Eran volti di cera/Morta la primavera» (p.15). Mentre lo scivolare quasi inconsapevole della Belle Époque nella guerra – su cui tanto si sono interrogati gli storici – viene reso con la pregnanza della frase «La vita si piega allo scoppio di una guerra» (p.16) che tutto condensa, perfettamente.

Un testo ibrido quindi, fra documentazione storica e scrittura poetica, capace di interrogarsi sul senso collettivo delle vicende personali. Di farci pensare a cosa avrebbe potuto essere l’Europa senza lo scatenamento delle due guerre mondiali, ed al valore dell’aver tentato di superarle con le aperture di fine secolo.