Il Liceo "Carducci" in Piazza Domenicani

 

IL MIO LICEO CLASSICO

di Ettore Frangipane

 

Feci il mio ingresso nel “nuovo” ginnasio-liceo nel 1948. Era tutto bello e nuovo perché i bombardamenti lo avevano trattato decisamente male, e si era dovuto dar mano per tre anni (io intanto frequentavo le medie dai PP. Francescani) a calcina, colore e vernici. La chiesa dei Domenicani che si trovava di fronte era stata rasa al suolo: restavano le colonne e l’abside. Rovine anche alle spalle e ai lati del liceo, che – a conti fatti - se l’era cavata anche bene: nessuna bomba in pieno. Entrammo nella nostra aula che profumava di vernice fresca, banchi nuovissimi e lucidi, il coperchietto dell’inchiostro era d’ottone. Ci scrissi il mio nome, a penna, con cura ed attenzione. Poi venne il preside Busato per fare a noi tutti – classe per classe – il pistolotto rituale, vide il mio nome sul coperchietto d’ottone, si mise a urlare e mi cacciò fuori. Il mio primo giorno nella nuova scuola iniziò così. A spasso.

 

ANNO 1948/1949 - Tra gli altri: Ettore Frangipane, Renzo Camozzi, Massimo Gamba, Nicola Angelucci, Arnaldo Loner, Gustavo Grata, Giorgio Ferretti, Franco Barbiero, Parravicini, Renato Peruz, Domenico Ardolino

 

Foto di Ettore Frangipane, Bolzano

 

Foto di E. Frangipane Bolzano

 

È intuibile che non fossero anni facili. Nella nostra classe eravamo una quindicina, ma c’era anche la parallela femminile. Vestivamo alla meno peggio, chi con i pantaloni lunghi, chi con le “braghe” alla zuava, chi con i pantaloncini corti. Arnaldo Loner, futuro avvocato di successo, veniva tutti i giorni in bicicletta da Vurza, oltre San Giacomo: d’inverno le sue cosce erano blu. Il mio tragitto era breve perché abitavo in via Leonardo da Vinci, al numero 20, da dove la Gestapo qualche anno prima aveva trascinato in Germania una famiglia di ebrei, e tra questi anche la piccola Olimpia Carpi di 3 anni. Non sarebbero più tornati.

I nostri insegnanti del ginnasio? Ho un ricordo affettuoso della professoressa Gorini-Faccioli che ci insegnava materie letterarie; l’anno successivo non venne, però, perché era incinta del figlio che finalmente le sarebbe nato. Cresciuto, il ragazzo si diede alla politica attiva ed ebbe i suoi guai perché un giorno fece esplodere una bomba in un confessionale del duomo. Nella corrispondente classe femminile le materie letterarie erano affidate alla tremenda Valtorta, brava ad insegnare ma incontentabile. Lì insegnava anche il professor Mario Leoni, un tipo sui generis, come si conviene ad un insegnante di matematica. Era comunista (una patente assoluta d’originalità, all’epoca, in un liceo classico), era stato partigiano, e l’avevano arrestato a Cavalese sul finire del novembre 1944 per internarlo nel Lager di Bolzano. Il più bravo della nostra classe nel ginnasio era Giorgio Ferretti, figlio di una insegnante d’arpa che a Parma, durante un bombardamento, aveva subìto l’amputazione di un braccio. Ero bravetto anch’io, ma studiavo decisamente poco. In classe con noi c’era Mariano Mazzoni, figlio del questore, una degnissima persona che il governo d’allora ritenne troppo comprensivo nei confronti dei sudtirolesi (era tornata la democrazia, ma la mentalità di troppi politici e pubblici amministratori era ancora legata al fascismo). Sarebbe stato rimosso da Bolzano e inviato altrove. Deluso, avrebbe fatto una fine tragica.

Nel ricordare quegli anni, mi viene alla memoria anche “quella” Bolzano. Quanti ci seguono ora nelle aule (alquanto itineranti) del “Carducci”, non possono immaginare come la loro città si presentasse a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta (e per un’altra dozzina d’anni ancora).. Bolzano aveva subìto durante la guerra 23 bombardamenti, e di questi 14 possono essere definiti “pesanti”. Le case interamente distrutte furono 325, quelle gravemente danneggiate 548, le case comunque danneggiate 1.395, i morti – considerando solo i civili – furono 240. Dirò di un bombardamento solo, quello che mi ha toccato più vicino: era il giorno di Natale del 1943 ed io avevo appena compiuto 9 anni. Ci trovavamo sfollati al Colle quando su Bolzano si affacciarono quaranta B 17 americani che scaricarono 300 bombe. Incontrai un aviatore che s’era salvato con il paracadute (il suo aereo era stato abbattuto dalla contraerea tedesca). Era il comandante dell’azione, il colonnello Jean R. Byerly, con i cui nipoti entrai avventurosamente in contatto un paio d’anni fa. Mi inviarono la sua foto: lo riconobbi.

Si camminava per il centro di Bolzano, ed erano rare le prospettive lungo le quali non apparissero macerie. Ho già detto della chiesa dei Domenicani: ci affacciavamo alle finestre della nostra scuola, ed ecco rovine. Colpito, nella stessa piazza, anche il Conservatorio musicale, poi un paio di case sulla destra di chi si affacciava. La palestra del liceo – sulla sinistra - era stata centrata in pieno, e noi per fare ginnastica dovevamo trasmigrare nell’asburgica “Kaiserin-Elisabeth-Schule”, divenuta poi “Scuola Regina Elena”, infine “Dante Alighieri”. L’insegnante era un profugo istriano, sempre elegante, che accavallava le gambe e leggeva il “Corriere della Sera”, mentre noi giocavamo a pallavolo.

Tornando alla professoressa Gorini-Faccioli, era molto distaccata, ma dolce. Ho scoperto di recente – leggendo l’Alto Adige dell’epoca - che s’era laureata nel 1948 col massimo dei voti. Era sicuramente una brava insegnante, e me ne resi conto quando al suo posto – mentr’era incinta – venne una supplente. “Oggi parliamo del Cantico delle creature”, annunciò. Ero molto interessato e la stetti ad ascoltare, ma ne fui deluso. Non sapeva esprimersi, non sapeva comunicare, pensai che non avesse niente “dentro”. Poi la parentesi del ginnasio si chiuse (esametto, che ricordo facile) e accedemmo alle tre classi superiori: il mitico liceo.

 

Una foto-ricordo, scattata di nascosto, quarta ginnasio.

La prof.ssa Faccioli interroga Renzo Camozzi ed Ettore Frangipane.

 Foto di E. Frangipane, Bolzano

 

Per affrontare questa nuova fase le due classi – quella maschile e quella femminile – furono ristrutturate. Quella maschile era troppo numerosa rispetto a quella femminile, e così decisero che alcuni maschietti sarebbero stati travasati nell’altra sezione. Naturalmente furono scelti i quattro più tranquilli, onde evitare commistioni sessuali potenzialmente pericolose. Uno dei “quattro più tranquilli” mi confidò a distanza di decenni che questo trasferimento tra le donne fu per loro avvilente.

Come si studiava? Non ho idea di come si studi oggi, quindi non sono in grado di fare paragoni. Ho il sospetto che si studiasse, comunque, di più. Se paragono le mie conoscenze d’allora a quelle a pari età delle mie due figlie, ugualmente allieve del “Carducci”, debbo ammettere che io avevo conoscenze più estese. Sicuramente noi avevamo meno occasioni di distrazioni, ma il nostro bel tempo ce lo prendevamo lo stesso. Eravamo una compagnia abbastanza scapigliata, ma fondamentalmente corretta. Il grande vizio era rappresentato dal fumo. Si comperavamo le Nazionali Esportazione a quantitativi di cinque per volta: cinque sigarette che il tabaccaio estraeva dal pacchetto, e racchiudeva in una schedina inutilizzata del Totocalcio (la mitica Sisal). Ci davamo delle arie, alle volte, andando in osteria a bere vino: purché costasse poco, ché soldi non ne avevamo. Faceva, comunque, molto “esistenzialismo”, si era alla moda, insomma: Sartre, Juliette Greco. Non per niente qualche anno prima uno studente del “Carducci”, figlio del direttore della Banca d’Italia, s’era ucciso con una rivoltellata in testa. Per istigazione a quel suicidio fu processato e condannato un altro studente del nostro liceo, che sarebbe dìventato un giornalista di prestigio all’Espresso e alla RAI. Fu mio redattore capo romano, quando - qualche estate - lavoravo a Roma per la redazione sportiva del GR1.

Fumavamo, poco per la verità, per darci delle arie vissute. Le ragazze invece no: non stava bene. Oggi mi pare che fumino più le ragazze: sono loro a sentire maggiormente la spinta ad emanciparsi, e scimmiottano così i “grandi”.

Al liceo le cose divennero più impegnative, ma le basi mi erano state date in precedenza. Io avevo incominciato a masticare di latino addirittura quando frequentato le elementari: eravamo sfollati a Nova Ponente e m’insegnavano analisi e latino – per il piacere di farlo – un anziano magistrato a riposo e un sacerdote. I Francescani mi diedero quanto al latino basi robuste (mi ricordo i libri di testo, del Rubrichi), la professoressa Gorini-Faccioli al ginnasio fece il resto, e così quando affrontai il mitico professor Moggio le basi c’erano. Moggio prima di essere un latinista (o un grecista) era un poeta. Amava le sue materie, i suoi Catulli, Senofonte, i suoi Tityre-tu-patulae-recubans-sub-tegmine-fagis, l’uccellino di Lesbia (e ridacchiava), la precisa, armoniosa metrica (latina e greca). Della storia delle rispettive letterature gli importava poco: andava al sodo e cercava in tutti i modi di farci capire e godere la grandezza degli antiqui. Flauteggiava il canto di Titiro imitandone con la voce il suono, si esaltava all’incalzare ritmato della cavalleria (Quadrupedante putrem sonitu quatit ungula campus), ricostruiva l’antro della Sibilla costringendo uno di noi ad andare sotto la sua scrivania per rispondere (ovviamente nel latino dell’Eneide) alle domande che un altro studente – testo in mano – gli volgeva da fuori. Tutto questo ci sembrava buffo e noi ridevamo. Ridevamo perché non eravamo sufficientemente maturi per capire un insegnante di livello universitario. Noi, liceali con il cervello ancora al ginnasio. Maturammo negli anni, e lo capimmo dopo. Il mitico professor Moggio.

C’era Collareta che veniva ogni giorno da Merano con il treno e la sua vecchia borsa di pelle. Era il nostro prof di italiano. Ci imponeva i suoi appunti, precisi, accurati, ragioniereschi, perché pretendeva da noi un quadro preciso dell’evolversi della sua materia. Era un modo molto nozionistico di insegnare. Ma quando Collareta spiccava il volo con Dante, era veramente un grande. Mi ricordo ancora certe sue letture interpretative che ci lasciavano senza fiato, incantati a guardarlo e sentirlo. “Dalla cintola in su tutto il vedea...”,  “Indi partimmo per il folle volo...”,  “Ahi Pisa, vituperio delle genti...”, e Paolo e Francesca. E mi chiedevo perché il meglio di sé Dante l’avesse dato nell’Inferno, o almeno così mi pareva, mentre rifiutavo i cori angelici del Paradiso.

C’era Bruni, che ci insegnava storia e filosofia. Alto, dinoccolato, volto magrebino olivastro e scavato, entrava e si tagliava a metà una sigaretta che infilava in un bocchino, e poi iniziava a spiegare fumando. La storia complicata delle guerre di religione e di successone, da me mai amata. La filosofia che lui intendeva giustamente nella sua essenza, mentre ci imponeva come testo l’Abbagnano, che della filosofia esponeva solo la storia. Non ci fu mai feeling, tra Bruni e me. Anche – forse – perché io collaboravo ben poco. Volle fare con me un esperimento (così almeno credo) affidandomi una tesina sul ruolo dei Savoia nel processo per l’unità d’Italia. Mi suggerì un paio di testi. Li lessi di malavoglia e scrissi degli appunti, che poi dovetti presentare a voce in classe, badando più a non offendere il mio amico Massimo Gamba, convinto monarchico, che a compiacere il professore. Bruni riconobbe che m’ero impegnato poco ma mi premiò comunque. Massimo Gamba a fine lezione mi venne platealmente incontro stringendomi, anzi scrollandomi la destra e facendomi i suoi complimenti (avevo scritto tre righe di pistolotto finale, encomiastiche per i Savoia, pensando unicamente a lui). Con la storia me la cavavo, con la filosofia meno, ma all’esame di maturità il professor Corsini che venne da Trento (commissione esterna) mi diede otto e otto, e quando per la strada incontrai casualmente Bruni e Corsini insieme, quest’ultimo mi fece lodi sperticate. Bruni stette a sentire, poi disse a mezza via tra l’ironico e il sarcastico: “Allora – Frangipane – vuol dire che in tre anni io non t’ho capito”.

C’era la Henin che insegnava matematica e fisica. Una zitella senza età, dimessa, buona, mi perdonava la mia scarsa vocazione per le sue materie aggiudicandomi sempre sufficienze e anche più: il sei durante l’anno e il sette a conclusione mi erano sempre garantiti, anche se i compiti io (e non solo io) li copiavo da quelli di Giovanni Di Simone, detto Giò oppure “il Pesce” (nomignolo affibbiatogli da “Tati” Grata, che aveva così interpretato quel suo modo di stralunare gli occhi, tondi). Giò era figlio di un alto ufficiale d’artiglieria che all’Accademia era stato imbottito di logaritmi, funzioni, calcoli trigonometrici e non so cos’altro per poter calcolare le parabole dei proiettili (questa era la nostra convinzione) e dal figlio, che avrebbe fatto ugualmente la carriera militare, pretendeva lo stesso. Il buon Giò ci salvò più volte, divenne un generalone a quattro stelle se non più, mi disse una volta quasi in lacrime la sua delusione per quella carriera che aveva mitizzato, ed è morto qualche anno fa. Primo ad andarsene per sempre - vari anni prima – era stato Massimo Gamba: i due idealisti sono stati i primi tra di noi a chiudere i loro conti col mondo. Tornando alla professoressa Henin, che era sicuramente un po’ stramba, ho saputo a distanza di anni che aveva chiuso la sua parentesi terrena in un manicomio. M’è spiaciuto. Avevo avvertito il suo affetto nei miei confronti, zitella sola e senza età. Che vita grigia dev’essere stata la sua.

C’era la Bay-Romano, che ci insegnava chimica, che ci odiava ed era cordialmente ricambiata. Questa, almeno, era la nostra convinzione. Era parente del pittore Bay (che però allora non era così importante, e di noi pertanto nessuno lo conosceva), aveva una cadenza torinese che ci era estranea, gli occhi sporgenti suggerivano una possibile disfunzione tiroidea, e in effetti era decisamente irascibile. Se trovava qualcuno che giocava alla battaglia navale mentre lei ci leggeva la vita di Madame Curie, si adirava perché non capivamo la grandezza di quella donna. Se qualcuno chiedeva al suo compagno di banco l’ora, si adirava perché non amavamo lo studio e non vedevamo che l’ora terminasse. Forse aveva ragione, anzi... aveva decisamente ragione. Ma s’adirava nel modo sbagliato. Quella volta di Madame Curie lanciò in aria il libro Oscar-Mondadori che stava leggendo e si mise a piangere. L’avevamo soprannominata Celestina, perché questo era il nome del solfato di stronzio. E venne anche il giorno che la madre sprovveduta di uno di noi, in occasione di un’udienza, l’appellò “professoressa Celestina”. Non dovetti mai riparare ad ottobre, terminavo sempre con bei voti, ma la Celestina riuscì a farmi studiare tutt’una estate per via di una domanda sui convertitori Messmer. Il meccanismo dell’interrogazione  mi fece supporre che la Bay-Romano avesse individuato in me l’inventore del nomignolo a base di stronzio che le avevamo affibbiato, e volesse vendicarsi. Ma io ero del tutto innocente.

Furono anni di studio (non molto) e svago. Numerose festicciole in casa: la nostra compagnia aveva snobbato le compagne della classe femminile parallela, volgendosi a quelle – più carine – dei corsi inferiori. C’erano ragazze che disponevano addirittura di un grammofono. Allora si faceva musica e si ballava, nasceva qualche simpatia, molto contenuta (il guancia a guancia ballando era un quasi-massimo), e poi le coppiette s’incontravano generalmente sulle passeggiate. Nessuno disponeva di motorino, di biciclette non si parlava, e pertanto uscire di città per cercare un po’ di intimità era impossibile. E poi, quale intimità, imbranati come si era? Qualche festicciola organizzata in qualche locale pubblico (il Draxl, Castel Roncolo) dove i soliti regolarmente s’ubriacavano di pessimo vino. Anche in casa privata c’era la possibilità di bere: alle volte la padroncina metteva a disposizione il suo bar, alle volte non lo faceva ma noi vi pescavamo lo stesso (rabboccando poi le bottiglie con acqua), alle volte ci portavamo i liquori appresso e li nascondevamo in bagno. E poi domenica pomeriggio si andava a ballare al Florida, dove il Circolo Universitario Cittadino offriva musica, col solito simpatico complessino, pagliette in testa e gilet a quadrettoni. Swing un po’ alla Buscaglione, con la storiella del giallo di Make Spillane, in cui “le donne son bionde – le tasche son pien”. Si raccontava di “Joe detto il Tappo, che ha fatto un inghippo, e tiene il malloppo, in casa di Pippo”. Bisogna sapere che Joe era ai ferri corti col suo “vecchio padron”, e pertanto gli aveva “chiesto un riscatto di mezzo milion”. La musica rallenta, c’è tensione, perché “c’è un mendicante che passa di lì, attenti: è un agente dell’FBI. Si chiama O’Hara, silenzio si spara, ed ecco il romanzo finisce così”. Poi le luci si spegnevano ed era il momento dei “cinque minuti del C.U.C.”, guancia a guancia. Nascevano e si coltivavano amori. Il C.U.C., l’Università con l’iniziale maiuscola, traguardo possibile per noi del classico e dello scientifico, precluso a tutti gli altri. Oggi le lauree sono diffuse, inflazionate.

Una volta all’anno c’era il gran momento della gare provinciali di atletica leggera al Druso. Venivano da tutto l’Alto Adige, lo stadio si affollava oltre misura, dominavano gli istituti (I.T.I. e I.T.C.) che disponevano di una base più vasta della nostra, oltretutto adusa al calcio nei cortili e negli spiazzi polverosi della periferia. Qualche buono spunto però riuscivamo ad ottenerlo: Marcello Rebora vinse il getto del peso nel 1952, Franco Milletti nel 1953. Ce la cavavamo nella velocità: la nostra staffetta (io terzo frazionista, Angelucci quarto) giungeva sempre in finale. Tra i più veloci Marcello Ferrari, scientifico, futuro sindaco di Bolzano. Quanto a me, me la cavavo anche nel salto in lungo: ottenni una medaglia di bronzo, non ricordo se per un terzo o un quarto posto, che a livello provinciale era pur sempre una buona cosa. C’era un tifo indemoniato. Mentre attendevo di scattare, mi tremavano le ginocchia. La staffetta era un momento meraviglioso: vedevo i primi frazionisti partire distanziati, e poi passare quel maledetto coso bianco che era il testimone e che non si doveva far cadere, e poi il secondo frazionista mi si avvicinava, io prendevo a correre attento a restare nei limiti, guardare avanti, la sinistra tesa indietro e aperta con la palma in su, sentivo il legno, mi passavo il testimone nella destra e via, in curva, a raggiungere Nino Angelucci, con l’illusione di essere più veloce degli altri per l’effetto del decalage. Mia madre – sissignori, è venuta una volta anche lei a vedermi, immersa in quella folla indemoniata – era sicura comunque (cuore di mamma) che il più veloce in assoluto ero stato io, anche se non eravamo riusciti salire sul podio. C’erano anche le gare provinciali di sci, ma lì non c’era gusto. Dominavano i gardenesi. Quanto a me ero una schiappa: usavo ancora gli sci di mia madre, roba da anni Trenta!


1952 - Gare provinciali di atletica al Druso:

riconoscibili (?) Ettore Frangipane, Antonino Vischi, Arnaldo Loner, Bruno Tonelli, Franco Milletti

 Foto di E. Frangipane, Bolzano

 

Foto di E. Frangipane, Bolzano

Ci fu una trasmissione radio che si chiamava “Terza Liceo”, articolata sui licei italiani che si affrontavano in turni eliminatori. Bisognava rispondere a domande non scolastiche, ma di cultura generale. Anche per Bolzano furono scelti i tre migliori delle due sezioni: Miriam Zanon per la sezione femminile, Giorgio Ferretti ed io per quella maschile. Entrai così per la prima volta in uno studio della RAI: non immaginavo che quello sarebbe divenuto il mio ambiente di lavoro per quarant’anni. Cuffia in testa, microfono in centro, battemmo la terza liceo di Napoli, e passammo il turno. Ma fummo sconfitti dalla terza liceo di Genova, per via di una domanda sulla relatività. Per me, comunque, un piccolo momento di celebrità: ne scrisse perfino l’Alto Adige.

E vennero i lunghi momenti dell’esame di maturità, che allora erano una cosa sicuramente più seria di oggi, ma anche meno celebrata. I giornali non ne parlavano, la radio nemmeno, la televisione non c’era addirittura. Si riteneva assolutamente normale che alla conclusione dei loro studi, prima di conseguire il diploma, gli studenti dovessero affrontare un’ultima prova, e non si piangevano lacrime sulla loro fatica, non si erogavano consigli, non si drammatizzava il momento. Oltretutto gli esami erano ben più duri di oggi: fino all’anno precedente il mio (superai l’esame nel 1953) gli studenti del classico dovevano portare l’intero programma degli ultimi tre anni. A partire dal mio anno, bastava tutto il programma di tutte le materie del solo ultimo anno, più “riferimenti” agli anni precedenti. Oggi gli studenti apprendono in anticipo, ad anno scolastico già iniziato, quali saranno le materie nelle quali saranno interrogati (e potranno così tralasciare di perdere tempo studiando le altre): troppo facile, direi! Eppure: interviste con gli studenti, i pareri degli psicologi, i consigli dei medici, l’indomani pagine intere sui giornali con le soluzioni dei temi, commenti, lacrime e sangue.

Ricordo giornate di un luglio torrido, giornate trascorse sui libri, non mancava chi per tenersi sveglio assumeva Simpamina. Ci si presentava alla commissione in cravatta, chi non ce l’aveva se la faceva prestare. Del mio esame ricordo la prova scritta di greco: ne intuii subito il significato, scrissi la mia brava traduzione e mi spostai su un lato, in modo che chi stava seduto dietro di me potesse copiare, e passare a sua volta. A distanza di anni c’erano ancora studenti di Merano che mi ringraziavano. Feci un polverone in storia dell’arte, una materia che mi piaceva ed avevo approfondito per conto mio: sapevo tutto di piazza San Pietro (conosco tuttora bene Roma) e mi profusi in Michelangelo, Bernini, Maderno, “acqua alle corde”. La Teresina (così era soprannominata la professoressa Teresa Gruber, dello scientifico) mi stava ad ascoltare muta, e gli altri con lei. Alla fine per me furono tutti 8, a parte un logico 7 di matematica, controbilanciato da un 9 in storia dell’arte. A quei tempo la media dell’8 era quasi il massimo, fui logicamente il migliore in tutta la provincia (ma ci voleva poco: eravamo in pochi, l’unica sede di esami era Bolzano). Poi la cena della maturità a sezioni riunite al Kaiserkrone, inevitabile sbronza, e a conclusione, per i più scafati che avessero l’età, una visitina – innocente per i più - alla casa di tolleranza di via Conciapelli.

Si chiuse così una parentesi di cinque anni che fu sicuramente determinante per la mia crescita. Il liceo classico mi diede molto, anche se lì per lì non me ne resi conto. Ero, eravamo ancora degli immaturi: Cesare, Ovidio, Omero, Senofonte scorrevano sulla nostra pelle e si perdevano, ma non del tutto. L’uccellino di Lesbia che “pipiabat” nella mano della puella di Catullo, il solingo augellin, Guido io vorrei che tu e Lapo ed io, l’ermo colle, com’avesse l’inferno in gran dispitto, poscia più che il dolor poté il digiuno con il conseguente e terribile Ahi Pisa, vituperio delle genti, grato m’è il sonno e più l’esser di sasso, Dareiou kai Parisatidos ghighnontai paides duo, Gallia est omnis divisa in partes tres, quel ramo del lago di Como, dinanzi a me non fur cose create se non eterne, scendeva da uno di quegli usci, Varo Varo rendimi le mie legioni, e dolce è il naufragare in questo mare, tutte queste citazioni, e moltissime altre, si sono insinuate nella mia pelle, fanno parte di me, sono i sedimenti lasciatimi dalla Faccioli, da Moggio, da Collareta, anche da Bruni con i suoi noùmeni e fenomeni, col cielo stellato sopra di me e dentro di me la legge morale. Dicono che il liceo classico sia superato, puro nozionismo. Ma è – semmai - il nozionismo del bello, che eleva. Io, almeno, la penso così. Se sono stato capace un giorno di commuovermi davanti ai Tintoretto della scuola di San Rocco, lo devo a quello che i miei insegnanti hanno scavato in me in quei cinque anni, aprendomi di riflesso le porte ad una sensibilità che si dilata a Vivaldi, Dvorak e Puccini. Il liceo classico, almeno quello che ho vissuto io, è qualcosa di più. È la via per seguir virtude e canoscenza.

 

 

Ettore Frangipane, Miriam Zanon e Giorgio Ferretti durante la trasmissione Terza Liceo

Foto di E. Frangipane, Bolzano