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Cenni storici sul gruppo italiano in provincia di Bolzano in occasione di un numero monografico della rivista “ff - Das Südtiroler Wochenmagazin” (16 febbraio 2017).

 

 

 

Autore: Carlo Romeo

Rif. bibl.: Romeo, Carlo, “Italiani di confine” in ““ff - Das Südtiroler Wochenmagazin”, 16.02.2017, pp. 62-65.

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ITALIANI DI CONFINE

Cenni storici sul gruppo italiano in provincia di Bolzano

 

 

di Carlo Romeo

 

 

 

Nel Kronland Tirol

 

Varcato il Brennero verso sud e arrivati a Bolzano, diversi viaggiatori del Grand Tour annotavano le prime impressioni del felice incontro tra mondo tedesco e italiano, nelle lingue, nei costumi e persino nei colori (non a caso molti erano pittori). Questa era stata per secoli la caratteristica della parte meridionale del territorio corrispondente all’attuale provincia di Bolzano. Restringendo lo sguardo al Kronland Tirol del XIX secolo, la presenza trentina (welschtiroler) si concentrava soprattutto lungo la Val d’Adige, da Salorno fino a Bolzano e da qui a Merano. Non è però facile quantificarla; nell’epoca dei nazionalismi i dati dei censimenti austriaci venivano fortemente contestati proprio nel rilevamento dei gruppi nazionali. Nel 1880 nel territorio tra Salorno e il Brennero di Bolzano furono registrati 6.884 italiani (3,4% del totale della popolazione); dieci anni dopo (1890) il numero salì a 9.369 (4,3%). Il dato, sostanzialmente confermato all’aprirsi del nuovo secolo, venne fortemente ridimensionato nel 1910 (ultimo censimento della monarchia): poco più di 7.339 unità (2,9% del totale della popolazione). Le critiche mosse da parte italiana a tali dati si basavano innanzitutto sul criterio che rilevava la “lingua d’uso” invece della “lingua madre”. In altre parole: soprattutto nella Bassa Atesina molte persone usavano quotidianamente la lingua tedesca in ambito pubblico (lavoro, scuola etc.) mentre parlavano il trentino in famiglia. Oltre a ciò, i censimenti non tenevano conto né dei lavoratori stagionali trentini né dei “regnicoli” impegnati a migliaia in quegli anni di sviluppo economico nell’edilizia, nella costruzione di infrastrutture, nel turismo etc.

Il pericolo di questa “avanzata da sud” era uno dei cavalli di battaglia dei partiti politici tedesco-tirolesi (e dal 1905 del Tiroler Volksbund) oltre che delle associazioni nazionali tedesche in lotta con quelle italiane nei più vari campi: scuole, monumenti, cura d’anime. A Bolzano e Merano erano attivi circoli e sodalizi italiani di stampo religioso, sindacale, ricreativo e sportivo. La prima guerra mondiale, con il clima di propaganda e mobilitazione contro il “nemico ereditario” peggiorarono inevitabilmente la situazione. Scomparvero o furono sciolte le associazioni di cui sopra e una cinquantina di italiani “sospetti” furono internati a Katzenau.

 

 Circolo Pro Cultura Bolzano

Il Circolo Pro Cultura di Bolzano, fondato nel 1911

 

 

Nella “nuova provincia”

 

Già nei primi anni dell’occupazione militare e poi civile italiana (1918-1922) la situazione subì un deciso cambiamento. Il censimento del 1921 (l’ultimo del Regno d’Italia a rilevare la lingua) registrò 27.000 italiani (10,6% della popolazione totale): a questo dato contribuiva non solo il recupero degli “italiani bilingui” della Bassa Atesina, di cui si è detto prima, ma anche l’arrivo dei primi impiegati, ferrovieri, militari legati alla nuova amministrazione. Nello stesso periodo veniva negata la cittadinanza italiana a molti residenti di lingua tedesca nati fuori provincia (le cosiddette “prime opzioni”).

Con l’avvento del fascismo, insieme all’assimilazione forzata dei sudtirolesi, l’immigrazione italiana diventò un obiettivo di primaria importanza. Furono due le tappe del progetto. Nel 1926/27 fu istituita la provincia di Bolzano, separata da Trento, con l’ampliamento dell’apparato amministrativo, l’insediamento di comandi militari, l’avvio di imponenti opere pubbliche. Il secondo passaggio fu il progetto della zona industriale di Bolzano (1934/35), la più importante misura presa dal prefetto Giuseppe Mastromattei per cambiare non solo il volto dell’economia ma anche i rapporti numerici tra i gruppi in provincia.

Nel giro di pochi anni l’arrivo di migliaia di tecnici, operai, manovali (seguiti ben presto dalle famiglie) trasformò l’assetto del capoluogo, che passò dai 37.000 abitanti dei primi anni Trenta ai 60.000 del 1940. L’immigrazione fu varia da un punto di vista regionale: in prevalenza Veneto, Trentino, Lombardia, Piemonte per gli operai; Italia centrale e meridionale per dipendenti statali e militari. Il fenomeno della catena migratoria è talora rintracciabile nell’immigrazione operaia: arrivato a Bolzano, il lavoratore veniva raggiunto appena possibile dalla famiglia e spesso fungeva da “appoggio” al trasferimento di ulteriori nuclei dal paese di origine, con il quale rimasero nei primi tempi stretti legami. Anche nella gerarchia professionale sono individuabili differenze regionali: piemontesi e lombardi sono in genere i dirigenti, tecnici e operai specializzati; veneta e trentina la manovalanza.

 

 

La “Bolzano italiana”

 

Le gerarchie sociali si riflettono anche nella sistemazione urbanistica della “Nuova Bolzano”, che in quegli anni prese forma a “macchia di leopardo”: i “quartieri alti” intorno al Monumento alla Vittoria (con edifici rappresentativi, di comando, polo scolastico); quelli “mediani” riservati a impiegati e tecnici; infine il rione operaio, vicino alla zona industriale. Isolato e caratterizzato dalle “casette semirurali”, fu più tardi soprannominato “Shangai”. Provenendo da contesti rurali di endemica miseria, molte famiglie inurbate sperimentarono a Bolzano un netto miglioramento di condizioni e prospettive insieme a una rapida “modernizzazione” negli stili di vita. Il processo fu completamente mediato dal regime fascista attraverso le sue capillari organizzazioni giovanili, scolastiche, ricreative, sportive, che in provincia di Bolzano non soffrivano di alcuna concorrenza. Non a caso “rimasero indietro” (cioè inadeguate) le strutture ecclesiastiche; la prima vera “parrocchia italiana” fu quella di Cristo Re, affidata ai Padri Domenicani, e solo nel dopoguerra fu ultimata la chiesa di Don Bosco. Solo negli anni ’50 e ’60 il panorama si sarebbe rafforzato grazie al “piano campanile” finanziato in buona parte dal governo.

Negli stessi anni la popolazione tedesca affrontava il drammatico snodo delle opzioni, che avrebbe visto partire circa 75.000 persone. Nel 1943 il gruppo italiano raggiunse le 104.000 unità (36% del totale). Esso rimaneva concentrato quasi esclusivamente nei centri più grandi e solo il 5% era occupato nell’agricoltura e nel turismo. L’insediamento di coloni italiani nelle valli non aveva raggiunto significativi risultati. Borgo Vittoria (Sinigo) alle porte di Merano rappresentava un’eccezione ed era stato favorito dalla nascita della vicina fabbrica chimica.

 

Lancia 1937 

Familiari di operai e tecnici all’inaugurazione dello stabilimento Lancia (Bolzano 1937)

 

 

Provincia del Reich

 

Nei due anni dell’Operationszone Alpenvorland (1943-1945) il gruppo italiano sperimentò l’isolamento dal contesto nazionale e la fragilità del proprio radicamento nel territorio. Insieme all’amministrazione, al partito fascista e alle sue organizzazioni, scomparvero all’improvviso i riferimenti intorno ai quali aveva ruotato la sua vita quotidiana (scuole, giornali, associazionismo). Notevole fu lo sfollamento a causa dei bombardamenti (perlopiù nel vicino Trentino) e il rientro nelle regioni di provenienza da parte di impiegati sospesi dal servizio. Sullo sfondo di un generale atteggiamento “attendista”, si registrarono reazioni diversissime a questo isolamento: dai contatti con Salò da parte di un movimento fascista fino a quelli, in senso opposto, delle cellule operaie bolzanine con quelle socialiste e comuniste delle “case madri” di Milano e Torino.

La Resistenza fu fenomeno minoritario all’interno del gruppo italiano. Tra le varie correnti, spesso indipendenti tra loro, non mancarono anche accenti nazionalistici (“Giovane Italia”). Il baricentro rimase comunque nella zona industriale di Bolzano e la guida politica nelle mani del Comitato di Liberazione Nazionale di Manlio Longon. Lo spessore politico di questo piccolo e sfortunato gruppo si rivela nei contatti che prese nell’autunno 1944 con Erich Amonn per discutere del futuro della provincia in una prospettiva democratica e autonomistica.

 

 

Cesure e continuità

 

L’atteggiamento del gruppo italiano nel dopoguerra si allineò da subito, con poche eccezioni, all’instaurarsi del “fronte etnico”, riguardo alle richieste sudtirolesi di autodeterminazione e in seguito di autonomia provinciale. Persino nei confronti dell’autonomia regionale, introdotta dallo Statuto del 1948, prevalse un sentimento di diffidenza. La partecipazione politica del gruppo italiano rimase condizionata da una dicotomia di fondo: da un lato, l’adesione alle linee e agli schieramenti politici nazionali e, dall’altro, l’esigenza di rappresentare gli interessi di gruppo, soprattutto a fronte della compattezza politica sudtirolese.

Un'epurazione solo superficiale, come nel resto d'Italia, si accompagnò a una sostanziale continuità col ventennio fascista in diversi quadri e ruoli anche importanti. Pressoché assente fu per lungo tempo il tema di una seria rielaborazione del passato, in particolare delle responsabilità del fascismo nella questione sudtirolese.

Era ripresa intanto l’immigrazione in provincia dalle varie regioni d’Italia (questa volta con quote significative dal Centro e dal Sud). Vi contribuivano il ritorno degli sfollati, la riapertura degli uffici statali, la ripresa della produzione industriale e delle infrastrutture negli anni della “Ricostruzione”. Ciò avveniva in una fase di grande difficoltà del gruppo tedesco, che continuava a essere assente nell'industria e nell'impiego pubblico e soggetto a una forte emigrazione in Svizzera e Germania. Tra le emergenze del periodo: ca. 20.000 rioptanti da Austria e Germania, 2.000 profughi dall’Istria e Dalmazia e l’accoglienza temporanea di alluvionati dal Polesine.

L'immigrazione italiana dopo il 1945 fu percepita come la continuazione della politica messa in atto dal fascismo per capovolgere l’equilibrio etnico in provincia. La questione della Todesmarsch del gruppo tedesco venne sollevata nel 1953 in termini piuttosto allarmistici e diede luogo ad aspre contese sui numeri. Nel 1951 la popolazione italiana contava ca. 111.000 unità (33%), 128.000 (34,3%) nel 1961 e 137.000 (33,3%) nel 1971.

 

 Don Cristofolini

Operai impegnati nei lavori di una diga, fine anni ‘50. Al centro don Giorgio Cristofolini.

 

 

Nella seconda autonomia

 

Il “Los von Trient”, la controversia italo-austriaca, la stagione degli attentati determinarono inevitabilmente fasi di forte tensione etnica. Il nuovo corso autonomistico delineato dal “Pacchetto” (1969) vide sì la partecipazione di settori della politica locale (è il periodo del centro-sinistra) ma incontrò una generale diffidenza o avversione nella maggioranza dell’opinione pubblica italiana locale.

Lungo tutti gli anni ‘70, mentre venivano messi a punto i cardini del nuovo assetto, poco venne fatto in campo italiano per “preparare all’autonomia”, soprattutto in merito al bilinguismo. Le conseguenze della cosiddetta “proporzionale” e del bilinguismo furono percepite con chiarezza dal gruppo italiano solo all’inizio degli anni ’80. E non a caso dal 1985 il voto italiano in provincia fece registrare una forte polarizzazione a destra (MSI poi AN e centro-destra), come chiaro segnale di contrarietà alla nuova autonomia.

Il “disagio degli italiani” è divenuto da allora concetto assai diffuso nella pubblicistica italiana, sia locale che nazionale, riferendosi sostanzialmente al mutamento di status all’interno di un’autonomia provinciale sempre più forte. Da maggioranza nel contesto statale e regionale, il gruppo linguistico italiano si percepiva ora come minoranza non sufficientemente tutelata dai meccanismi introdotti. Legato all’industria (con le sue cicliche crisi) e all’impiego pubblico, pressoché assente in settori in rapida espansione come il turismo, esso avvertiva una lenta ma inarrestabile riduzione delle proprie prospettive di sviluppo. Per quanto riguarda i numeri, nel censimento del 1981 (il primo con dichiarazione nominativa di appartenenza) il gruppo linguistico italiano scese a 123.695 unità (28,7%), nel 1991 (con le aggregazioni) a 116.914 (26,5%), nel 2001 a 113.494 (24,5%). L’ultimo censimento (2011) ha registrato 118.120 unità (26,06%).

Nei risultati di indagini e sondaggi emerge un sensibile contrasto tra la valutazione negativa da parte del gruppo italiano nei confronti degli aspetti etnici dell’autonomia provinciale e la sua valutazione sostanzialmente positiva riguardo ad altri importanti indicatori (amministrazione, servizi, qualità di vita in generale etc.).