Novella “altoatesina” di Alessandro Varaldo (1876-1953) ambientata in Val d’Isarco nel Settecento e che vede protagonista il giovane Vittorio Alfieri.

 Vittorio Alfieri

 

Alessandro Varaldo (Ventimiglia, 25 gennaio 1876–Roma, 17 febbraio 1953), oltre che giornalista di successo, fu critico teatrale, drammaturgo nonché uno dei romanzieri più popolari della prima metà del Novecento. È considerato uno dei padri del “romanzo giallo” in Italia (Il sette bello, 1931). Diresse la Società Italiana Autori ed Editori (dal 1920 al 1928).

 

 

[…] Altri racconti si rifanno alla storia medievale, napoleonica, risorgimentale sino alla prima guerra mondiale (mai romana quindi). Ma più che di ispirazione storica si tratta spesso di riferimenti all'immenso archivio delle reminiscenze retorico-letterarie nazionali.

Alessandro Varaldo, ad esempio, mostra particolare attitudine ad inventare "occasioni" altoatesine riguardanti grandi personaggi dell'Olimpo patriottico-risorgimentale. Non esita a mettere sulla scena altoatesina l'irrequieto e dissoluto Vittorio Alfieri della Giovinezza, alle prese con un savio mugnaio dal cognome inconfondibilmente tirolese (Tebaldo Hofer) amante della civiltà e delle lettere latine (Due viaggi lungo l'Isarco, IV/5-6). In un'altra novella (Tre poeti, IV/11-12) fa incontrare ai piedi di Castel Firmiano il collegiale quindicenne Giovanni Prati con Aleardo Aleardi e Giuseppe Révere. Fraternizzando con la complicità di una borraccia di vino, i tre scoprono di avere in comune sia la vocazione che il temperamento; congedandosi giurano di consacrarsi alla poesia ed alla patria.

Le pistole del generale (II/7) è ambientata invece in Tirolo ai tempi della spedizione napoleonica del 1797 e ruota intorno ad una scommessa tra il generale Dumas (padre del futuro Alexander senior) e un ufficiale tirolese, sulla futura unificazione d'Italia; scommessa che troverà il suo scioglimento con la generazione seguente […]

(Carlo Romeo, Un limbo di frontiera: la produzione letteraria in lingua italiana in Alto Adige, cap. “La stagione di Atesia Augusta, Provincia Autonoma di Bolzano-Alto Adige, Brunico 1998, p. 51)

 

 

 

Autore: Alessandro Varaldo

Rif. bibl.: Varaldo, Alessandro, Due viaggi lungo l’Isarco, in: “Atesia Augusta”, IV (1942), n. 5-6, pp. 40-42.

Trascrizione e redazione: Greta Prinzivalli 2015

 

 

  

DUE VIAGGI LUNGO L’ISARCO

 

di Alessandro Varaldo

 

 

La bella strada, che oggi risale l’Isarco, in quell’anno 1769 era poco ospitale davvero, tutta polvere, sassi e carraie stretta in qualche tratto così, da obbligar una delle vetture, che vi si trovavano di fronte, a indietreggiare per lasciare il passo a quella che per giustizia o prepotenza mostrava d’averne o di pretendere il diritto. Fu così che, proprio ad una svolta, sull’angolo dalla quale un palo reggeva lo stemma di Vipiteno, raffigurante un vecchio pellegrino, due traini diversi, l’uno quasi elegante, l’altro un carro enorme, carico di rozze masserizie, si trovarono all’improvviso l’uno dinanzi all’altro per contendersi il passaggio. Naturalmente ambedue si fermarono.

L’uno, il legno quasi elegante da viaggio, non conteneva che una persona, un giovane sui vent’anni, di pel rosso ed il naso marcato, che occupava il tempo noioso della via leggendo qua e là in certi volumetti, pescati nelle fonde che s’aprivano ai fianchi della carrozza.  Azzimato, ma senza parrucca, il capo coperto da un berretto di seta – s’era di maggio e il sole quasi caldo – tutto preso dalla lettura che interrompeva spesso con dispetto per decifrare, nella nota in fondo alla pagina, la traduzione delle citazioni latine, tanto s’era abituato a scorrere la minuta stampa, nonostante i sobbalzi per la strada accidentata, che, quando la vettura si fermò, gli si abbarbagliò la vista. Smise, e soffregandosi gli occhi:

-         Che succede, postiglione? -  domandò con voce irosa.

-          Eccellenza, un carro ci impedisce la strada!

-          Che vada indietro!

-          È carico… è pesante… Eccellenza, i suoi cavalli…

-          Che vada indietro egualmente. Quando mai un carro taglia la strada a una vettura di posta?

-          Quando la ragione si mette dalla sua parte, -  rispose una voce netta e chiara. 

Il giovane viaggiatore si voltò di scatto alla portiera di destra, donde la voce gli era venuta e vide un uomo grave, in tricorno, calzoni corti su calze rosse, abito a falde, e scarpe con le fibbie d’argento.

Una tale aria di gravità serena su quel viso appariva, un viso tutto sbarbato il cui mento quasi infantile si nascondeva fra le ali minacciose del colletto, e due chiarissimi occhi, ma chiari più d’un lago montano, lo fissavano, che il signore dai capelli rossi fu preso da un impeto di ira, si raddrizzò peggio d’un galletto pronto all’attacco, e con voce squillante domandò:

-         -          La ragione? Mi meraviglio…

-          Avrei dovuto dire: le ragioni, - spiegò l’uomo dal collettone.

La sorpresa e lo sdegno avevano prodotto una tale scossa sull’iracondo temperamento del viaggiatore, che il volumetto mal fermo fra le dita gli sfuggì e cadde nella polvere.

L’altro si chinò pronto, lo raccolse, lo ripulì con la mano e vi lascò cadere uno sguardo.

-          Montaigne? Voi leggete Montaigne e vi fate prendere dalla collera?

Sfogliò il volumetto ed annunciò: Della collera. Poi, con voce piana: E vedete ch’esce loro il fuoco e la rabbia dagli occhi. Quindi seguitò: - Qui ecco che il nostro, in appoggio alla sua tesi, cita Giovenale, Satira sesta, verso 648 e seguenti. Comincia: Rabie jecur incedente…

Scandì pacato l’emistichio e i due versi seguenti, poi, senza ricorrere alla traduzione della nota, chiudendo il volume con l’indice a segnalibro, volgarizzò rapido:

-          … Sono portati dalla lor rabbia, come una roccia che perdendo ad un tratto il suo punto d’appoggio, precipita dall’alto della montagna, ov’era sospesa…

Alzò gli occhi in volto al giovane signore, indicò il declivio del terreno a destra verso l’Isarco, e commentò:

-          Come voi presso a poco, se proseguiste nella vostra collera senza ragione!

Quella tranquillità, quasi impassibile, dominò il viaggiatore, che mormorò:

-          Senza ragione poi!

-          Certo e, se lo permettete, potrò darvene la spiegazione.

-          Ne sarei curioso…

-          Nulla di più facile, signore. Guardate!

Indicò il carro fermo a poca distanza:

-          Sono quintali e quintali che due bovi senza fretta stanno trainando fin dall’anteluce.  Sopra, fra le masserizie d’una povera famiglia che emigra verso luogo più clemente, stanno due donne, mia moglie e mia cognata vedova, con tre bimbi.

Ecco già una ragione per cedere il passo. Ma ce ne sono dell’altre. Il mio carro pesante impiegherebbe circa un’ora a retrocedere, e non senza pericolo, per la strada accidentata, mentre la vostra carrozza leggera può indietreggiare con assai più facilità e molto minor tempo…

Indicò un leggero spiazzo alla sua destra.

-          … fin laggiù. Noi passeremo, e voi riguadagnerete il tempo perduto in meno che non si dica un’Ave, un Pater e un Gloria.

Il giovanotto del calesse, ammirato, saltò a terra e porse la mano all’uomo degli occhi chiari.

-          M’arrendo, riconosco che avete ragione, che Giovenale e Montaigne sono degli impareggiabili maestri, e che mi studierò di frenar la collera per l’avvenire.

-           Oh! signore, non ho voluto…

-          Mi avete dato un salutare avviso e ve ne ringrazio ben di cuore! Gli porse la mano:

-          Io sono il conte Vittorio Alfieri!

-          Ed io, signor conte, mi chiamo Tebaldo Hofer, e sono mugnaio…

-          Scusate… - gli disse l’altro.

E gridò l’ordine al postiglione di retrocedere.

Poi, ritornando verso colui che a sua volta guidava i buoi e il carro nel passo difficile, stette ad osservarlo nella manovra lenta e precisa, finché non si fermò là dove s’allargava un po’ la strada. Indi ripeté:

-          Scusate…

L’uomo dal collettone si avvicinò salutando.

-          … prima che ci lasciamo, continuò l’Alfieri, levatemi una curiosità.

-          Dite, signor conte!

-          Vedo che sapete di latino tanto da tradurre un autore spinoso come Giovenale. Mi sorprende e mi fa curioso. Ho male intesa la vostra… professione di mugnaio?

-          Dite pure mestiere, signor conte. Ho fatto qualche buon studio in seminario, poi ho dovuto rilevare il mulino paterno, perduto di poi per circostanze che sarebbe lungo narrare. Ma ho continuato a leggere buoni autori. È l’unico nostro divertimento nell’inverno assai lungo in questi luoghi, durante le serate che si protraggono assai, e vi confesso che ne ho tratto sollievo e consolazione.

-          Voi sapete dunque il latino?

-          Oh! Sì. Mio padre, semplice mugnaio, leggeva Tacito e Livio: noi ci sentiamo un po’ di sangue romano, da poi che Druso vinse i Reti, e l’Impero quello che si chiamò d’argento e fu il più aureo per noi, l’Impero di Marco Aurelio e di Settimo Severo ci educò alla saggezza ed alla giustizia, fino a darci questa strada oggi così mal ridotta, questa via del Brennero, che, se i miei compaesani m’ascolteranno, ristabiliremo come in antico…

Vittorio Alfieri lo ascoltava fra il commosso e l’ammirato. Quando l’altro si tacque ed apparve un po’ confuso d’aver tanto parlato, gli porse ancora la mano.

-          Signor Hofer, disse con uno di quegli slanci di sincerità che adottò poi spesso nel redigere la propria vita, noterò questa mattina con il carbone bianco nella mia memoria. Ho imparato in pochi istanti più da voi che dai precettori che ho avuto in tanti anni. Voglio imitarvi in sincerità, voglio confessarvi che so poco di latino e che le frequenti citazioni di Montaigne leggevo tradotte nelle note. Me ne vergogno. Sono anche io figlio di Roma, come ogni buon piemontese e voglio anch’io leggere e comprendere la lingua di mia madre. Ve lo dovrò…

-          Oh! Signor conte!

-          Ripeto che ve lo dovrò! Sono felice di questo incontro, stringetemi ben forte la mano e permettetemi di lasciarvi un ricordo, impari alla gratitudine che vi debbo, ma offerto di gran cuore.

Corse alla carrozza, raccolse i tomi del Montaigne e li portò all’Hofer, i cui occhi, chiari e pacati come acqua di laghi montani, si accesero di gioia.

-          Prendete questi volumi e teneteli per mio ricordo. Mi sono accorto che li guardavate con desiderio…

-          Oh! Signor conte, possedere un Montaigne completo! È un sogno!

-          Tanto meglio. Leggendolo, ricorderete un giovane viaggiatore preso dalla collera e guarito dalla vostra ragionevolezza. No… non crediate che esageri… è la verità. Guarito, od almeno, se mi riprendesse il momento di ira – è un po’ nel mio carattere – so di avere la medicina pronta nel ricordo.

-          Grazie a voi, signor conte! E buon viaggio!

-          Buona fortuna, signor Hofer, alla vostra famiglia ed a voi!

Si strinsero ambe le mani, poi mentre il carro pesante s’avviava penosamente cigolando, la carrozza di posta svoltò rapida nella stretta via dominato dallo stemma di Vipiteno. 

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Il conte Vittorio Alfieri si ritrovò un’altra volta, nel giugno 1784, sulla Via del Brennero. La strada riattata, rifatta, diventata veramente carrozzabile da vari anni si stendeva più larga e meno pericolosa negli svolti.

Durante gli anni intercorsi, quasi quindici, il Nostro s’era imposta quella tal disciplina mantenuta a forza di volontà, che gli aveva già data buona fama di poeta. E sapeva di latino, ormai, ed anche di greco, e scriveva tragedie.

Quel giorno, verso il tramonto, nel ripassar in quel punto accidentato dove aveva conosciuto il mugnaio, alzò gli occhi e riconobbe il vecchio stemma di Vipiteno, rinfrescato nel viso e nell’abito pittoresco del povero pellegrino. Il servo decorativo, che l’accompagnava, restò stupito vedendo il suo padrone togliersi il cappello e salutare con profondo inchino. Si guardò intorno, per cercar l’oggetto di quel deferente saluto. Nessuno.

La bella strada si dilungava deserta. E allora mormorò, fra sé, ciò che spesso aveva sospettato:

-          È pazzo!

Ma Vittorio Alfieri pensava invece ben saviamente interrogandosi così:

-          Vorrei sapere perché hanno chiamata questa bella strada la Via dei Barbari: Io c’incontrai l’uomo più civile che finora abbia mai conosciuto.

 

 

ALESSANDRO VARALDO