Una novella esemplare delle proiezioni ideologiche nella letteratura del ventennio fascista in Alto Adige. Ulderico Tegani, nato a Parma (1877), cominciò un’intensa attività giornalistica nel Veneto e nel Gazzettino di Padova, approdando nel 1912 al Corriere della Sera. Si specializzò nel racconto per ragazzi, nel romanzo storico, di avventura e nel reportage di viaggi. Si spense a Milano nel 1951.

 

 

 

 […] Ancor più artificioso e concettoso il "riconoscimento" in Una scodella di latte (Atesia Augusta, III/5) di Ulderico Tegani, forse la novella più scopertamente "costruita" sotto il profilo del messaggio nazionale e politico. Il protagonista torna al maso del Meranese, in cui, tanti anni prima, era stato soccorso nella sua fuga dalla prigionia, da una gentile ragazza che gli aveva offerto una scodella di latte. La ragazza che inizialmente crede di rivedere, identica ad allora, risulterà essere la figlia della donna. Quest'ultima, rimasta vedova, accoglie commossa l'ex-soldato, il quale nel racconto della sua vita riassume la vulgata ufficiale della recente storia d'Italia. 

«Dopo la guerra si stava male in Italia. Al mio paese, in quel di Sondrio, non mi ci potevo più vedere. Certe canaglie mi avevano in odio. Un ufficiale, un patriota, uno che era evaso dalla prigionia per combattere ancora... Comizii, scioperi, un ca' del diavolo! Disgustato me ne andai in America, nell'Argentina, un po' qua un po' là [...] e un mese fa sono tornato a casa. Che cambiamento, eh? Non la si riconosce più, l'Italia. Ha cambiato faccia... Già, forse questo a voi non importa... - Perché? M'importa, invece. Non ci vivo anch'io? E mi ci trovo bene. Il mio ragazzo è avanguardista»

La dinamica del "ritorno" in quella che diventerà la nuova "patria", non può che concludersi, in questa novella "a tesi", con l'unione affettiva dei due personaggi. […]

 

(Carlo Romeo, Un limbo di frontiera: la produzione letteraria in lingua italiana in Alto Adige, cap. “La stagione di Atesia Augusta, Provincia Autonoma di Bolzano-Alto Adige, Brunico 1998, pp. 52-53)

 

 

 

 

 

Autore: Ulderico Tegani

Rif. bibl.: Tegani, Ulderico, “Una scodella di latte”. In: Atesia Augusta. Rassegna mensile dell'Alto Adige, III (1941), 5, pp. 17-22.

Trascrizione e redazione: Giulia Bonoldi, 2015

 

 

UNA SCODELLA DI LATTE

Novella di Ulderico Tegani

 

 

Varcata la Talvera, il treno costeggiava l’Isarco, raggiungeva l’Adige, ne risaliva la corrente. Affacciato al finestrino, il viaggiatore volgeva lo sguardo qua e là sulla campagna folta di vigne e di pometi: uno sguardo che vagava incerto, come cercando qualcosa che non sapeva trovare. Era un uomo sulla cinquantina, adusto, vestito con sobrietà. Aveva i capelli grigi, il viso cotto dal sole, segnato da rughe profonde, l’occhio ancora vivo e brillante in cui a tratti passavano lampi d’una strana dolcezza. Spiccavano pallidi tra il verde i ruderi dei vecchi manieri: di Castel Firmiano e di Castel Belmonte, di Castel d’ Appiano e di Castel Porco, di Castel Casanova e di Castelforte. Quante rovine aveva fatto il tempo! Le antiche rocche non erano più che poveri e tristi avanzi, muraglie decrepite, torri cadenti. Le guardava con meraviglia e malinconia, le guardava come studiandosi di riconoscerle, o tentando di orientarsi con la guida di quei capisaldi. Ma essi non lo aiutavano nulla a ravvisare il paesaggio, e del resto egli sapeva che non sarebbe stato possibile. Non perché fossero ormai trascorsi vent’anni da quando era passato per quella contrada, ma perché allora v’era passato di notte e d’inverno e in circostanze speciali, e non glien’era rimasta che un’impressione confusa, allucinata, inafferrabile: la sola impressione che potesse riportarne un viandante fuorilegge, un fuggiasco allo sbaraglio, un disperato che di tutto si preoccupava tranne che del panorama. No, non poteva ricordarsene, e aveva fatto bene, adesso, a servirsi del treno per quel suo pellegrinaggio di nostalgica ricognizione, anziché compierlo a piedi tappa, tappa, come gliene era venuta l’idea, per ripetere fedelmente l’aspra odissea d’allora. Non era più possibile. Altra gamba, oltre tutto. E poi era perfettamente lo stesso.

 

Settequerce…

No, il nome di quella stazioncina non gli diceva nulla. Assai più lo interessavano quei ferrovieri in divisa militare, quei soldati del Genio che adempivano il servizio sulla linea. Soldati italiani! Chi glielo avesse detto allora! Ma neppure un mese innanzi avrebbe potuto credere una cosa simile, lui che veniva da tanto lontano, che aveva vissuto tutti quegli anni in terra straniera, e che, tornato finalmente in Patria, vi trovava tutte quelle realtà strabilianti, e, stupendone, se ne inteneriva. Gli pareva d’essere un cieco che rivede la luce. Si, appunto: c’era un grande intervallo di oscurità nelle sue memorie, e ripercorrendo ad occhi aperti quella strada percorsa nel buio vent’anni prima, gli sembrava di rivivere quel tempo, quei giorni, quell’avventura tremenda e meravigliosa, che ora, ripensandola, gli pareva fantastica come un sogno. Eppure ricordava tutto. Anche i minuti più particolari. Persino le date. Sull’altopiano d’Asiago, la nebbiosa mattina del 23 dicembre 1917 all’osservatorio avanzato dalla sua batteria di mortai. Sì, ecco, si rivedeva là, con un sottotenente e un aspirante; riudiva l’infernale frastuono del bombardamento nemico, e d’improvviso quel trapestio da tergo, quel branco d’austriaci che li coglievano le spalle. Poi la prigionia, i giorni natalizi celebrati con una dura marcia a piedi sino a Trento, il treno per Franzensfeste, la sosta nella fortezza, e il 3 gennaio del’18 il viaggio per Innsbruck, Salzburg, Linz, Vienna, Presburgo, verso la grand’isola sul Danubio dov’era il campo di concentramento.

 

Terlano-Andriano…

No. Era a Dunaszerdahely, in Ungheria. Nome difficile, posto odioso. Migliaia di russi e di italiani vi languivano nelle luride baracche, avvelenati da un fetido cibo. Sentiva ancora in bocca, rievocando quel tempo, l’ingrato sapore del pane rancido e della zuppa di miglio e semolino, e gli tornava nell’ anima, la desolata amarezza di quell’ ozio opprimente, di quella cupa miseria, di quella squallida turba di spettri, in cui il tifo, il vaiuolo nero e la tubercolosi mietevano più della mitraglia al fronte.

 

Vilpiano-Nalles…

Che respiro qui: laggiù che angosciosa agonia! Meglio mille volte il patimento della trincea, il fremito dell’assalto. Meglio la morte. Evadere, fuggire, a qualunque costo. Pensiero fisso, decisione irrevocabile. Egli parlava benissimo la lingua del paese. Poteva farsi passare per tedesco. Meglio ancora: trasformarsi in soldato austriaco. Lunghi, pazienti, meticolosi preparativi. Adagio, adagio, un pezzo alla volta, aveva messo insieme un’uniforme; si era fabbricato un documento apocrifo, un falso foglio di licenza rilasciato dall’ ospedale militare di Presburgo; si era procurato una tenaglia per spezzare il reticolato che cingeva il campo. Che ogni cinquanta metri era illuminato da una lampada e vigilato da una sentinella. Un primo tentativo era fallito. Ma era riuscito il secondo, favorito da un ventaccio che vinceva ogni altro strepito. Tre reticolati tre intacchi, tre varchi, tre corse col cuore in gola. All’ultimo un balzo e via.

 

Gargazzone…

Trenta chilometri di marcia notturna lungo la linea ferroviaria, ma al largo delle stazioni. Alle tre del mattino Csortotolk, presso il Danubio. Troppo rischioso transitare il ponte a piedi. Aveva atteso il primo treno per saltarvi dentro e mescolarsi a borghesi e soldati; soldato egli pure, rigido e muto. Un’ora dopo, Presburgo; a mezzogiorno diretto a Vienna, alle due la capitale dell’ Impero: gente affamata che chiedeva pane, volti pallidi, scarpe con le suole di legno, ristoranti e negozi chiusi; e quello strano soldato gironzolava curiosando dalla stazione del Sud alla stazione dell’ Est, scansava i controlli o li superava con sorniona abilità facendo il tonto. Gli mettevano i bolli, gli indicavano il treno buono: il diretto delle 21.40 per Bolzano.

 

Lana-Postal…

A Sterzing, ossia Vipiteno, cominciava la zona di guerra, e lì quel diavolo di gendarme o poco nulla convinto del foglio di licenza. Lo esaminava, lo scrutava, lo annusava sospettoso. Aveva finito col ghermire il soldato per scortarlo sino a Franzensfeste, al comando di tappa. Quella fortezza, dond’era già passato una volta, se la ricordava anche troppo e rischiava di restarci impegolato.

 

Sinigo…

Si rivedeva in quell’ufficio della stazione, là sotto le grosse mura, davanti a un panciuto colonello che lo sbirciava di sottecchi sbuffando perplesso. Come mai senza sciabola-baionetta e senza cinturone? Mah… L’ospedale de Presburgo lo aveva fatto partire così… E dunque si chiamava? Com’era scritto sul foglio: Tal dei tali, del 5.o fanteria. Che cosa faceva da borghese? Lo sterratore ed era di Moena, dove abitava in via tale’ numero tale e il podestà si chiamava così e così… Domande su domande; risposte pronte, frottole a bruciapelo. Il colonello titubava. Consultava un librone, forse l’annuario dei Comuni, per cercarvi Moena. Già, ma il resto? Fidarsi? Uhm, quel foglio di licenza così fuor dall’usuale… Ma dopo tutto, poteva anche essere buono, va’ a sapere. C’era una tal confusione dappertutto… Infine aveva restituito il documento con un “Andate pure”. Ah sì? E allora era stato il suo turno di fare un po’ il difficile, borbottando che intanto aveva perso il treno. Al che il colonello, affabile, conciliante, battendogli paternamente la spalla: “Pazienza, pazienza; fra poco arriverà un treno militare per Villach: partirete con quello” Lo vedeva, lo sentiva ancora; e si sorprendeva a sorridere sotto sotto, come aveva sorriso allora.

 

Maia Bassa

Il treno promesso lo aveva portato dritto a Bolzano la stessa sera. Uscito dalla stazione, aveva attraversato la città per uscirne subito dalla parte di Gries. Eh, non poteva inoltrarsi di più verso il sud; gli conveniva risalire verso il nord, per accontentarsi del confine svizzero. E sopra tutto non farsi acciuffare per via. Perciò aveva marciato di notte, di notte s’era sgranato quest’altri trenta chilometri, in quella campagna buia, fra quei paesi irriconoscibili, e ancora nel cuore della notte, stanco morto, era giunto a Merano.

 

Merano…

Sì, vi giungeva anche adesso, ma in pieno giorno, ma riposato e tranquillo, salvo un suo batticuore intimo, un senso di vaga trepidanza e di dubitosa aspettativa.

 

Fece con un’occhiata il giro dell’orizzonte. Bene, ora si raccapezzava. Riconosceva laggiù a nord la dominante giogaia della Tessa e ad oriente la conca onduleggiata fra le pendici dei colli e i baluardi delle montagne; e la gran macchia policroma della città, le propaggini sparse sui clivi, in una ghirlanda di palazzine, di ville, in uno smagliante mosaico di colori. Tutto gli appariva più verde, più fiorito, più ridente e in quell’atmosfera di letizia senti che la sua anima d’una segreta fierezza. Era contento di aver lottato e sofferto, era orgoglioso di aver contribuito a rendere all’Italia quella magnifica terra italiana.

Scese dal treno speditamente, con l’impressione di ringiovanire d’un tratto, di tornare ai suoi bei trent’anni. Non aveva bersaglio. Come allora, portava seco soltanto un fardello di speranze. Uscì dalla stazione e ristette un momento incerto. Ricordava. L’altra volta s’era tenuto al largo dall’abitato, schivando le strade urbane, la gente, i lumi. Come un malandrino evaso, come un criminale fuggiasco, era andato tentoni bordeggiando la periferia, in cerca di un posto fuori mano, d’un covo in cui nascondersi a lasciar passare il giorno che stava per spuntare, ad aspettare la nuova non riprendere il cammino. Ora poteva camminare al sole. E a testa alta infilò la prima strada vagando a capriccio, per il gusto di conoscere finalmente la città che gli era rimasta ignota.

Era bello scoprirla così passo passo, assaporandone le sorprese. Che grazia quel rivo vispo gorgogliante tra sponde festonate di ramaglie! Era piacevole inoltrarsi sulla ghiaia fine, sotto le volte degli alberi, in quei viali ombrosi alla cui gentilezza ben s’intonavano i nomi di due regine sabaude. Sboccò nel centro della passeggiata, dinanzi al teatro e al Casino municipale, in mezzo a una folla elegante che tra un gaio chiacchiericcio sorbiva gelati e piluccava grappoli d’uva. Un’orchestrina allegra suonava da un palco del caffè.

Sentendosi un po’ spaesato, lui così rude, piegò verso piazza della Rena e il Duomo. Qui l’ambiente più raccolto gli parve risponder meglio alla sua indole schiva e al rovello dei suoi sentimenti. La gravità dei vecchi portici, l’austerità del tempio, parlavano al suo cuore un linguaggio più suasivo, aiutavano le sue meditazioni, favorivano quella sua ricerca a ritroso, quel suo ritorno a un passato tanto lontano, che ora si rifaceva vivo e presente. Quell’alto campanile gotico, quella torre della Polvere, erano per lui punti di riferimento, testimoni e guide che valevano a condurlo verso la meta. Li aveva ben veduti, durante l’antica sosta; li ravvisava e li salutava come vecchi amici.

Prese a salire l’erta morbida della passeggiata Tappeiner. No, questa non la ricordava, o allora non era così agghindata e civettuola di villini. Allora la falda della montagna era più nuda, più rozza, più semplice, e rade vi si scaglionavano le costruzioni e ancora vi s’incontravano abituri alla buona e casupole modeste, come quella ch’ egli sapeva.

Ma ecco, le reminiscenze si svegliavano, i luoghi a poco a poco gli tornavano famigliari. Quel gruppo d’alberi, quel fosso, quel sentiero, e là quel muricciolo, quei ruderi informi, oh, li riconosceva. Erano stati il suo rifugio di fortuna. Vi si era appiattato come una belva in un anfratto, vi aveva dormito a lungo, prostrato da una stanchezza mortale, e a lungo da quel ciglione aveva scrutato il paese, le torri, le case gli alberghi il nastro del Passirio, in attesa che il sole compisse la sua parabola, che la notte venisse a liberarlo.

Come una fiera in agguato, aveva spiato il mondo e la gente, di lassù, l’occhio vigile, l'orecchio attento, mentre la fame gli attanagliava le viscere; una fame viscida e prepotente, che lo induceva a mordere i fili d’erba intorno; una fame che gli consumava le ultime forze, che gli rodeva il cervello facendogli capire l’assurdità del suo tentativo, l’inutilità della sua evasione e della sua fuga, poiché la debolezza lo abbatteva lo annientava, e, dopo gli sforzi e gli stenti durati gli mostrava di proseguire.

Come avrebbe potuto riprendere il cammino, così digiuno? Come avrebbe potuto affrontare la lunga strada che gli restava da compiere, tutti quei chilometri la cui prospettiva gli danzava davanti nella testa come una ridda da vertigini? Dove avrebbe trovato l’energia per salire i monti per varcare i gioghi? Non bastava la volontà tenace, quando i piedi piagati e i muscoli affraliti si negavano ad ogni fatica ulteriore. Era giunto fin lì, ed ecco doveva cedere, dichiararsi vinto, lasciarsi riacciuffare, tornare all’isola laggiù, o chissà dove, di nuovo inchiodato alla catena. Era una sorte crudele.

Quando il sole del mattino, battendogli in faccia lo aveva destato nella sua tana, aveva sentito un rumore di passi e sporgendo appena il capo aveva visto da tergo una graziosa figura femminile che scendeva verso la città. Doveva essere uscita da una casetta isolata che sorgeva a un tiro di schioppo, un gradino più su. Poi si era riaddormentato. Più tardi  ̶  ma che ora era mai?  ̶  s’era risvegliato nella solitudine e nel silenzio e aveva notato una vecchia in faccende nell’orticello verzicante dietro la casetta. Gli era venuta l’idea di avvicinarsi, di chiedere un soccorso. Non aveva osato. Temeva di spaventar la donna, di allarmarla, di farsi acchiappare. No, meglio restare e rimaner nascosto, lungo disteso nel suo buco, le mani sotto il capo, gli occhi fissi contro il cielo azzurro. A notte fonda avrebbe ben potuto saccheggiar qualche ortaglia per nutrirsi di legumi crudi o di frutta, sa risparmiando le forze, fosse riuscito a tener duro sin allora e a trascinarsi avanti.

Nel crescente languore, si era riassopito in una specie di vaneggiamento prodotto dall’inedia, per destarsi poi di soprassalto a un suono di passi che si appressavano. Alla gran luce purpurea del sole sul tramonto aveva riconosciuto la figura femminile del mattino, che risaliva dal piano. Questa volta la vedeva di fronte. Era giovane e fresca un che di signorile nell’abito e nel portamento. Aveva un viso sereno, incorniciato da due bande di capelli neri, e neri erano anche gli occhi, grandi e buoni. Nel rasentare il rudere, quegli occhi si erano posati sull’uomo rannicchiato fra le pietre. Non c’era né spavento né ribrezzo in quello sguardo: c’era soltanto, compassione. Egli non s’era mosso, incapace di sottarsi al pericolo, se un pericolo c’era.

̶  Vi sentite male?  ̶  aveva detto con una voce gentile. Uno struggimento lo aveva colto a quelle parole. La sua bocca si era agitata per rispondere, senza trovare vocabolo tedesco che gli occorreva in quel momento e che la memoria gli rifiutava. Due sillabe, solo due sillabe della vecchia lingua materna, gli erano sfuggite rauche dalle labbra riarse.

̶ Fa… me…  ̶

E subito riprendendosi, richiamato dal senso di pericolo dallo stupore della giovane, aveva ripetuto la parola in tedesco. Uno sguardo intenso era sceso su di lui. Quell’uomo terreo, quella divisa lercia dovevano insospettirla. Certo pareva nell’imbarazzo. S’era guardata attorno, aveva fatto un passo verso il declivio. Ora andava a denunciarlo… I loro occhi s’erano incontrati, allora, e in quelli di lei aveva letto una gran pietà. No, poteva fidarsi. Una donna che guardava così non poteva tradire. La fanciulla, fatto un gesto per accennargli di aspettare, aveva ripreso la via salendo alla casetta. Poco dopo, eccola riapparire. Reggeva qualcosa fra le mani e scendeva adagio, come passeggiando svagata. Una scodella e un pezzo di pane, ecco che cosa recava. Fingeva di consumare all’aperto la sua parca cena, e invece la portava a lui, al randagio sconosciuto, al soldato vagabondo ed equivoco.

Gli aveva offerto la scodella piena di latte e il pane scuro che mandava un forte odore di crusca. Era un pane di guerra, aspro e duro, eppure mai nessun pane gli era parso altrettanto delizioso. Titubando, egli aveva preso il dono. La sua mano tremava di debolezza e di confusione, i suoi occhi non abbandonavano la fanciulla, che si era seduta sul muricciolo sbrecciato volgendo il dorso alla casetta per non farsi scorgere e per nascondere anche lui, l’ignoto mendicante.

̶  Italiano?

La domanda inattesa aveva arrestato il movimento della scodella che stava accostandosi alla bocca, fermandola a mezz’aria. Era dunque scoperto? E come mai? Che ne sapeva quella ragazza? Una sola parola era bastata a tradirlo?

̶ Bevete, mangiate… Presto…

Tre parole, tre parole italiane. Lo incalzava, premurosa di lui e di sé, e un timido sorriso incoraggiante che le illuminava il volto. Accennando di sì, egli aveva trangugiato un sorso. Che nettare, quel latte munto da poco, su cui una panna densa e soffice si coagulava ancora.

̶  Vi avevo già notato stamane, mentre andavo all’ufficio…

Insomma parlava italiano, quell’adorabile fata; un italiano un po’ stento, un po’ agro, come lo parlano gli stranieri, ma che a lui era parso una musica celestiale.  ̶  Sono stata in Italia-essa aveva soggiunto  ̶  A Milano, presso una famiglia, come istitutrice… È molto bella l’Italia. Peccato che adesso…

Aveva taciuto di colpo. Egli l’ascoltava sorseggiando, incantato da quella voce, da quella melodia che non udiva da tanti giorni, da quando aveva lasciato l’orribile campo di prigionieri, laggiù. Avrebbe voluto parlare, interrogare, sapere: ma quel latte soave che gli deliziava il palato, lo legava al silenzio. E in quel silenzio s’era inciso lo squillo d’un grido.

̶  Maria!

La vecchia chiamava dalla casetta, la fanciulla s’era alzata, egli aveva vuotato la scodella in fretta, con un’ingordigia piena d’un duplice rimpianto.

̶  Addio… e buona fortuna

Un ultimo sguardo, dolce come una carezza, ed era risalita su per l’erta senza più voltarsi mentre la vecchia, certo la madre, attendendola sul ciglio della proda, la interpellava da lungi con un tono meravigliato. Infatti, che stramba idea di andarsene a cenare tutta sola presso il rudere deserto!

Maria. Ecco tutto ciò che aveva saputo di lei. Che si chiamava Maria, ch’era stata in Italia, che l’Italia le era piaciuta. Maria. Non gli era rimasto di lei che il ricordo di quel nome, e di quel gesto di pietà, e il sapore di quel latte e di quel pane che si sarebbe portato seco, magro ma prezioso viatico sul lungo cammino.

 

Atesia Augusta III/5

 

Maria. La rivedeva ancora su per l’erta e là in alto mentre spariva nella casetta ch’era ancora il suo posto tal quale, come se il tempo non fosse passato e non l’avesse tocca; con gli stessi muri giallini, le stesse finestre azzurrastre, costellati di fiammanti gerani, e il piccolo orto alle spalle, folto di alberelli e di verdure. Sì, la casetta era sempre là, ma Maria, chissà dov’era mai?

Egli si era seduto sul muricciolo, sbrecciato e contemplava la scena rivivendo il ricordo, quel caro ricordo ch’era venuto a rintracciare come per un rito di riconoscenza. Era prossimo il tramonto e ancora la gran luce purpurea illuminava il radioso paesaggio, la chiostra dei monti, le chine coperte dai boschi e tempestate di ville e di castelli, e giù la bella città distesa sulle sinuose rive del Passirio. Udì i lenti rintocchi di un campanile e come obbedendo a un richiamo tolse il capello guardando in basso. Ed ecco una figura femminile venire dal sentiero, salire dalla città, avvicinarsi. Come allora, come allora. Un volto sereno tra due bande di capelli neri, due neri occhi stillanti la bontà. Era Maria, Maria che risaliva alla sua casetta costeggiando il rudero, come sempre. Maria che tornava dall’ufficio sull’ora di cena, della sua frugale cena di pane e latte. Una Maria giovane giovane, fresca, graziosa, intatta: una Maria rimasta com’era quel lontano giorno, ferma e immutata sull’ala del tempo.

La guardava attonito, sicuro di sognare, d’esser vittimo d’un miraggio. O, se intuiva l’inganno, amava illudersi, voleva credere, e gli sembrava di ringiovanire a sua volta, di retrocedere di colpo negli anni con un miracoloso volo che ricalcava le tappe della vita. La leggiadra chimera s’appressava, rasentava il muretto. Egli, fissandola assorto nella sua fantasticheria, si levò macchinalmente in piedi e mentre ella gli passava accanto ad occhi bassi, mormorò senza accorgersene quel nome evocatore.

̶  Maria…

La fanciulla affrettò il passo gettandogli un’occhiata spaurita, ed egli la seguì collo sguardo, come rapito in estasi, su su, fino alla casetta. Poco dopo, sulla soglia comparve una donna che fece solecchio con la mano per scrutare in basso. La distanza non gli permetteva di distinguere i lineamenti, ma un subito pensiero lo colse, lo turbò, lo commosse. Rimase ancora un istante immoto, meditabondo, poi adagio adagio s’avviò sulle orme antiche e recenti.

Via via che s’avvicinava alla casetta, gli occhi fissi sulla figura ferma presso la porta, scorgeva sempre più chiaramente una donna matura, pallida, coi capelli grigi, con gli occhi stanchi e la fronte solcata di rughe. Ma sotto quei segni dell’età ritrovava le note sembianze, rivedeva quel dolce volto d’un tempo, riconosceva quei teneri occhi neri pieni di bontà, ravvisava la sua misericordia samaritana.

̶  Signora Maria, sono venuto a dirle grazie.

Ella lo guardò corrugando le ciglia. Forse, avendo egli parlato in italiano, non lo aveva capito. Non era dunque lei? Ma no; ella pure si espresse in italiano, con titubanza e abbozzando un debole sorriso di scusa.

̶  Veramente, signore… Quel sorriso, quella voce!... Su dal vortice degli anni, riaffiora l’immagine sbiadita, risonava il soavissimo timbro.

-Non avreste per caso un’altra scodella di latte e un altro pezzo di pane per il povero viandante sperduto, per il soldato fuggiasco e affamato, nascosto laggiù fra le vecchie pietre?

La donna lo fissò, si portò le mani alle tempie, quasi per concentrarvi le idee o per ricondurvi le memorie disperse; poi alzò le braccia al cielo.

̶  Buon Dio! Sareste voi? Al suono delle voci, la fanciulla di poco prima s’affacciò incuriosita. Ora, accanto a Maria, sembrava un ritratto giovanile, o una sorella minore; ma non c’era da sbagliarsi.

̶  È vostra figlia non è vero?  ̶  egli chiese, con un interrogazione affermativa. -Si vede… Al primo momento l’ho scambiata per voi e ho rivissuto un’ora indimenticabile della mia vita. Di quanto tempo fa? Vent’anni signorina. Ma voi capite l’italiano?

̶  Certo. Lo capisco e lo parlo, naturalmente-rispose stupendosi, la fanciulla-Non è la mia lingua?

̶  Già, è vero…  ̶  si stupì egli a sua volta. ̶ Non pensavo… E questo è molto bello. Ebbene, signorina, vent’anni fa, io, ufficiale italiano evaso dalla prigionia e travestito da soldato austriaco, ero nascosto là fra quegli avanzi, come un malfattore in fuga. Ero un pezzente pieno di fame, un uomo che doveva fare paura a chiunque e che chiunque poteva far acciuffare dai gendarmi. Vostra madre non ebbe paura e non mi fece arrestare. Vostra madre ebbe compassione di me e mi portò una scodella di latte e un pezzo di pane; la sua cena. Non ho avuto modo di ringraziarla allora; lo faccio adesso.

̶  Dio santo!  ̶  esclamò Maria. -Ma c’era proprio bisogno di ringraziarmi? Una cosa da nulla. Capirai, Luisa… Ma almeno spero che non sarete venuto apposta per questo.

̶  E invece sì. Volevo presentarmi, conoscervi…e tremavo nel dubbio di non trovarvi più, e non so dirvi come sia contento di essere qui, di rivedervi…Volevo farvi sapere che non ero un disertore come forse avevate supposto. E del resto, via, il vostro gesto fu magnifico, ve lo dico io. Per me rappresentò la salvezza. Mi rianimò fisicamente e moralmente. Ero così avvilito, così depresso… Il vostro atto così semplice, così umano, mi risollevò. Capii che potevo ancora lottare e sperare. Ritrovai la fiducia, anzi la fede. Quella notte il vostro pane lo sbocconcellai lungo la strada verso Spondigna. Mi auguraste buona fortuna, e l’ho avuta. Ho trovato qualche altra anima generosa e ho potuto superare i tormenti del freddo, della fame, della stanchezza, in mezzo alla neve dello Stelvio; raggiungere la frontiera svizzera a Santa Maria (Maria vedete, m’aiutava ancora) e di poi rientrare in Italia, tornare al mio reggimento, riprender il mio posto al fronte e compiere il mio dovere fino in fondo.

Maria lo guardava con una specie di orgoglio, come soddisfatta di lui e di sé e come se ciò ch’egli aveva fatto fosse stato anche un po’ merito suo. Egli sorprese quello sguardo e sorrise assentendo. Forse che non era vero?

̶  Foste la mia buona fata. Ho conservato di voi un caro ricordo, sempre. Direte che io ci ho messo un po’ di tempo a farvelo sapere; ma come avrei potuto? Ignoravo tutto di voi, tranne il nome.

̶  E questo, come lo conoscete? Io non ve lo dissi.

̶  Vi sentii chiamare, credo da vostra madre. Avrei voluto scrivervi; ma a chi indirizzare? Alla signorina Maria, Merano? Un po’ troppo poco. E poi tante circostanze… Dopo la guerra si stava male, in Italia. Al mio paese, in quel di Sondrio, non mi ci potevo più vedere. Certe canaglie mi avevano in odio. Un ufficiale, un patriota, uno che era evaso dalla prigionia per combattere ancora… Comizii, scioperi, un ca’ del diavolo! Disgustato, me ne andai in America, nell’Argentina, un po’ qua un po’ là. Poi mi sono stabilito nei dintorni di Tucuman, in una piantagione di canna da zucchero. Ho fatto qualche soldo, ho preso moglie, sono rimasto vedovo… e un mese fa son tornato a casa. Che cambiamento, eh? Non la si riconosce più, l’Italia. Ha cambiato faccia. Già, forse questo a voi non importa…

̶  Perché? M’importa, invece. Non ci vivo anch’io? E mi ci trovo bene. Il mio ragazzo è avanguardista.

̶  Avete anche un figliolo?

̶  Sì. Adesso è sull’Adriatico, in una colonia marina.

̶  Voi siete una buona italiana. E lo eravate fin da allora. Ma ditemi un po’ di voi: Un figlio, una figlia… Dunque un marito…

̶  Che non c’è più. Sono vedova anch’io.

-Ah!

̶  Eh, la vita… Ho perduto la mamma, ho perduto il marito, mia figlia ha preso il mio posto, giù, al Casino municipale, ma presto si sposerà anche lei. Il figliolo vuole darsi alla carriera militare. Non andrò molto che resterò sola, qui, nella nostra vecchia casetta, l’unica cosa che mi sarà rimasta e da cui non saprò staccarmi.

C’era un po’ di tristezza nella voce dalla donna, mentre volgeva lo sguardo in giro.

̶  Mamma, ma perché lo tieni qui sulla porta?  ̶  disse Luisa

̶  Oh, è vero… Scusatemi…  ̶  E Maria si fece da parte tutta confusa. – Entrate, vi prego, signor…

̶  Carlo Poretti.

Entrarono in un tinello arredato con semplicità e con quella nettezza specchiante che è caratteristica in tutta la regione atesina. Sedettero intorno alla tavola.

̶  Vorrei offrirvi qualche cosa - soggiunse Maria timidamente

̶  Ve l’ho già chiesta io. Una scodella di latte, un pezzo di pane.

̶  Vorreste proprio?

̶  Mi farebbe un grandissimo piacere

̶  Ci penso io  ̶  dichiarò Luisa-No, mamma, lascia fare.

E sparì svelta da un uscio che dava nella cucina.

̶  Come vi somiglia  ̶  disse Carlo, guardando prima verso l’uscio e poi la donna.  ̶  Sul principio ho creduto davvero a una visione miracolosa. Ho creduto di rivedere voi, come eravate allora.

̶  Oh, c’è una bella differenza!  ̶  sospirò Maria

̶  Per questo sono ben cambiato anch’io, no? Tant’è vero che non mi avete riconosciuto.

̶  È passato tanto tempo! E allora eravate così mal ridotto…

̶  Appunto! Dite la verità: vi ero uscito di mente.

̶  No, qualche volta vi ricordavo. Chi sa mai dove sarà quel poveretto…

̶  Io ho pensato spesso a voi, molto spesso… Cos’è il destino! Ora sono qui ancora, accanto a voi, e… mi credereste?... non vorrei più andarmene. È così brutta la solitudine a una certa età…

Rientrò Luisa, con la scodella di latte e il pezzo di pane. Carlo si mise a sorseggiare lentamente, fissando Maria che lo guardava sorridendo. Il latte era sempre buono e gli occhi di Maria erano sempre teneri e buoni. Come allora.

 

 

ULDERICO TEGANI