Commemorazione del poeta di Terragnolo Gino Gerola a dieci anni dalla scomparsa. Ritratto di un autore che ha raccontato le trasformazioni dell’Italia “in bilico fra la campagna e la città, che è proprio lo specifico, il terreno in cui si è sempre mosso con la sua scrittura Gino Gerola, ma è anche proprio la sua vita giocata fra la valle di Terragnolo e Firenze: andata e ritorno” (Roberto Antolini).

 

Gino Gerola davanti alla casa avita di Terragnolo

 

 

 

Autore: Roberto Antolini

Rif.: Discorso commemorativo tenuto a Terragnolo (TN) il 24 luglio 2016

 

 

Le “annate perdute nel passato” di Gino Gerola

di Roberto Antolini

 

Domenica 24.7.2016 si è tenuta una commemorazione dello scrittore Gino Gerola (1923-2006) a Terragnolo, il suo paese natale. Ero amico di Gino Gerola, allora io ero l’amico giovane e Gino era quello anziano, adesso invece sono io ad essere diventato anziano, mentre lui non c’è più già da dieci anni. Questo è il testo del mio ricordo, preparato per l’occasione della commemorazione

 

1. Sono contento di questa occasione per ricordare Gino Gerola e il suo lavoro letterario, che è uno specchio della sua vita, è proprio il luogo dove Gerola ha cercato il senso della vita e del suo tempo. Ed è proprio questa ricerca di senso – credo - che fa della sua opera letteraria qualcosa che va oltre la sua esperienza personale, oltre una semplice cronaca di quello che s’è trovato intorno, ma ne fa invece qualcosa di più universale, qualcosa che parla ancora alla vita di tutti noi, e che fa sì che siamo qui oggi, a dieci anni dalla sua scomparsa, a ricordarlo, a confrontarci con quello che ci ha lasciato, con le sue pagine.

2. Gino Gerola è nato - come sapete bene – in questo paese, nel 1923 e quindi sotto il fascismo ha vissuto l’adolescenza e la prima giovinezza, l’epoca della vita che corrisponde alla formazione interiore, in cui si definisce il proprio rapporto con il mondo. E impersona nel Trentino la figura di intellettuale tipico della sua generazione, quella che appunto si forma sotto il fascismo e che caratterizza poi con la sua produzione culturale gli anni del dopoguerra: è la figura dello scrittore che racconta la trasformazione dell’Italia da Paese a prevalenza rurale a Paese moderno, industriale e sviluppato;  da Paese povero a Paese benestante e poi anche consumista; da Paese in cui la maggioranza della popolazione viveva in piccoli centri periferici a Paese della grande migrazione di milioni di persone dalle campagne – soprattutto quelle del sud ma anche da quelle delle valli trentine – alle città industriali (alle città del Triangolo industriale prima di tutto, o dell’estero - Belgio, Francia, Svizzera - ma anche Rovereto con le sue fabbriche ha svolto, nel piccolo, questa funzione, nei confronti delle valli circostanti)

3. Questa grande trasformazione - l’industrializzazione e la modernizzazione del Paese - ha lasciato, grazie a questa generazione di letterati e artisti, importanti tracce nella cultura e nell’arte italiane: basti pensare per la letteratura all’Aspromonte che vive nei racconti di Corrado Alvaro, alle Langhe dei romanzi di Beppe Fenoglio e Cesare Pavese. Ma anche oltre la letteratura: nel cinema è il caso di un po’ tutto il cinema neorealista, come quel grande film epico sull’emigrazione di una famiglia di contadini calabresi a Milano che è “Rocco e i suoi fratelli” di Visconti; nella pittura possiamo pensare ai contadini siciliani dipinti da Guttuso e quelli lucani dipinti da Carlo Levi; nella fotografia possiamo pensare ad un altro importante artista trentino, Flavio Faganello, che nel suo archivio di  277.000 fotografie ci ha lasciato una straordinaria galleria di immagini del Trentino in cambiamento dagli anni Cinquanta praticamente fino alla fine del secolo, anche lui con l’obiettivo focalizzato soprattutto sulle valli trentine, sui lavori rurali ritratti e documentati prima che scomparissero, proprio con la consapevolezza di dover fare questo servizio alla storia: ritrarre una realtà che fra un po’ d’anni non ci sarebbe più stata. E sembrano proprio le intenzioni che Gerola ha dichiarato nella premessa del suo libro più importante, “Le stagioni dei Bortolini”, dove dice «ecco, il libro potrebbe portare come sottotitolo: cronaca terragnolese della prima metà del ventesimo secolo. La gente di allora, le sue fatiche, la sua tenacia e umanità rischiano di sparire anche dalla memoria. Non vale la pena di lasciarne una qualche notizia? È l’intenzione di questo lavoro» (p.11).

4. Quella di Gerola insomma è stata una generazione che spesso sentiva fortemente di avere le radici nel mondo contadino ma sapeva di doverle ormai confrontare con una nuova Italia moderna in cui si è trovata progressivamente a vivere. Dalle loro opere escono immagini di un’Italia che, giorno per giorno, sta cambiando, in bilico fra la campagna e la città, che è proprio lo specifico, il terreno in cui si è sempre mosso con la sua scrittura Gino Gerola, ma è anche proprio la sua vita giocata fra la valle di Terragnolo e Firenze: andata e ritorno. È la realtà che descrive con le sue opere letterarie, prima in versi, cioè in poesia, negli anni Quaranta, Cinquanta e Sessanta e poi in prosa con una decina di libri di romanzi e racconti scritti negli anni Settanta, Ottanta e Novanta, e che ancora stava scrivendo nei primi anni 2000 e che sono rimasti inediti, conservati oggi nell’Archivio Gerola (la raccolta delle sue carte) consultabile presso la biblioteca civica di Rovereto. Sono tutte opere in cui possiamo dire che la realtà di Terragnolo è sempre presente, un punto di riferimento dietro ad ogni pensiero, con qualche eccezione semmai per le poesie.

5. Di tutte queste opere, le più importanti, le meglio riuscite, quelle che riassumono nel modo paradigmatico le sue tematiche, credo siano: per le opere giovanili, quelle poetiche, “La valle”, un poemetto edito a Firenze nel 1962 (e rieditato nel 1983 a Trento, dal periodico Questotrentino), e per quelle della maturità e senili il romanzo “Le stagioni dei Bortolini” edito invece a Trento, al momento del rientro in Trentino nel 1990. Sono due opere speculari che raccontano la vita terragnolese (come abbiamo sentito definirla dalle sue parole appena lette) intorno a metà del XX secolo, ma vengono scritte in due epoche diverse della sua vita, e metterle a confronto dà risalto proprio a quella sua ricerca di “senso” della vita che si diceva. Sono così speculari che, pur se pubblicate a 30 anni di distanza, e la prima in versi la seconda in prosa, contengono spesso le stesse figure usate sia nell’un testo che nell’altro con la stessa valenza simbolica: nell’un testo come nell’altro troviamo prima di tutto i sentieri che si riempiono di rovi per il poco uso, dopo che l’abbandono di molti campi e l’uso delle strade moderne carrozzabili li hanno rese inutili, in entrambi troviamo  lo sciamare di donne che, al momento dei raccolti d’autunno, partono dalla valle con sulle spalle gerle di frutta per barattarle con altre provviste nelle zone vicine, più ricche, in entrambi troviamo la solidarietà della comunità d’un tempo nei confronti delle disgrazie che colpivano qualche famiglia, ed altre cose simili. Questo significa che l’autore ha avuto davanti agli occhi, per tutta la vita, le stesse immagini della sua comunità originaria, ma le ha riscritte in epoche diverse perché su quelle lui confrontava il senso della sua vita – quella posteriore – dando alle stesse, negli anni ’60 e poi negli anni ’90, non lo stesso senso: diciamo che dalle stesse scene non tira le stesse conclusioni.

6. “La valle” - che è stato pubblicato nel 1962, cioè nel pieno del boom economico, quando il PIL dell’Italia cresceva con incrementi a due cifre, come quello attuale della Cina nei suoi anni migliori - è un inno ottimista sugli effetti della modernità. Ci sono i personaggi del passato, i vecchi contadini piegati dalla fatica, c’è la «minestra di patate che basta appena» (p.17), ma c’è anche il meccanico ventenne che per andare al lavoro «lancia la moto verso l’officina/ sull’altipiano» (p. 37), la ragazza che «discorre/squillante dalla vespa/ già in mòto» (p.44), c’è la corriera che, evidentemente a fine turno «riporta gli operai e il loro chiasso/ben presto si disperde/dentro le case» (p.36). C’è insomma il vecchio che sta producendo un nuovo migliore, meno faticoso, più giusto, più libero. Il poemetto si apre (p.13) con il verso «Nella casa sul greppo/ un ciclo s’è concluso», e si chiude specularmente con un (p.51) «nella casa sul greppo/ s’è mosso un tempo nuovo … Hanno appeso/ i giovani la slitta sotto il tetto/ della legnaia e vanno/ tra luce e ombra. Con le mani incerte/ si aprono il cammino ad una valle/ che non sia schiava della terra, chiusa/ ad altre valli e piani…». Quindi fiducia in quello che la modernità può portare, nonostante le contraddizioni e i conflitti, o almeno una grande speranza.

 

La valle di Terragnolo

 

7. Mentre “Le stagioni dei Bortolini” è pubblicato nel 1990, quando la modernità e lo sviluppo si sono ormai dispiegati appieno, l’attesa di benessere è diventato pieno consumismo, ancora ben prima dei primi segnali della crisi che stiamo vivendo noi adesso. Eppure Gerola è come se cogliesse già qualcosa nell’aria, è perplesso. Il romanzo senile – il suo capolavoro, uno dei libri più belli mai scritti in Trentino – perde la linearità del semplice inno al progresso che aveva “La valle”, si fa complesso. Il racconto intreccia due piani temporali: è il racconto di un anno imprecisato degli ultimi anni ’40 che l’io-narrante appena diplomato maestro e iscritto all’università – si tratta chiaramente di Gino Gerola stesso, in un racconto proprio autobiografico – passa in famiglia a Terragnolo, partecipando alla sua economia di sussistenza, in attesa di una prima supplenza che lo porti via dalla valle. Questo primo piano temporale – però – diciamo quello dell’io-narrante giovane – rivive nelle pagine continuamente intrecciato con una specie di “senno di poi”, quello dello stesso io-narrante ritornato in famiglia trent’anni dopo, che ricorda, confronta, riflette, osserva gli scricchiolii, come quelli impersonati dalla figura del fratello in fuga precipitosa dal pranzo in famiglia: «Bruno finisce in un amen e è già in piedi: - Ci vediamo più tardi. Devo arrivare fino a Serrada – sosta un momento, impalato sulla soglia, e è già fuori e via. Solo per affari? O a cercar qualcosa, che si rivela sempre più inafferrabile? Tutti all’inseguimento, come cani da caccia anche noi» (p. 82).

Osserva soprattutto la valle, nelle su trasformazioni trentennali: «E le nostre quattro frazioni quassù, le più alte, allineate lungo lo stradone, che adesso pare una mezza autostrada, da Diéneri, dove c’è la casa di mio padre, al Pornàl su dosso più in là, ai Scottini con la chiesetta e la vecchia scuola, fabbricata ancora al tempo di Cecco Beppe, quando qui era terra dell’Austria, fino là al Potrìch, ai piedi delle rocce a picco e sullo sprone che pare precipiti nella Valgranda, le nostre frazioni quanta gente custodiscono di quella che conoscevo e siamo cresciuti insieme? I quadranti delle finestre illuminate non sono tanti e non si sentono più neanche i cani. Solo qualche macchina, che sfreccia giù sotto, in corsa verso Serrada o Folgaria. È rimasto proprio un deserto?» (p.20).

L’automobile, che ne “La valle” era, insieme alle moto, un’icona positiva di modernità, che portava mobilità e quindi più libertà, più contatti con il mondo, qui viene quasi sospettata di essere portatore di estraneità, di quello che Gerola chiama “deserto”. Gerola ci rivolge dalla conclusione del suo romanzo autobiografico senile una domanda da mille dollari, di quelle che non possono avere una risposta netta, ma continuano a battere dentro «Certo, a ripensarci adesso a tanta distanza di tempo: la strada era giusta? Portava sul serio dove volevi?» (p.253)

 

 

 La strada per Serrada