KRIEG UND GESCHLECHT / GUERRA E GENERE

 

A cura di Siglinde Clementi / Oswald Überegger

 

«Geschichte und Region / Storia e Regione» (2014), 2

StudienVerlag Innsbruck/Wien/Bozen

 

 

 

Editorial / Editoriale

Christa Hämmerle
Traditionen, Trends und Perspektiven. Zur Frauen- und Geschlechtergeschichte des Ersten Weltkriegs in Österreich

Ingrid E. Sharp
Geschlechtergeschichte und die Erforschung des Ersten Weltkriegs in Deutschland: Entwicklungen und Perspektiven

Bruna Bianchi
Vivere in guerra. Le donne nella storiografia italiana (1980–2014)

Matteo Ermacora
Frauen im Krieg: Das Fallbeispiel Friaul (1915–1917)

Nicola Fontana
Militärarbeiter und der Einsatz von Frauen bei den Befestigungsarbeiten an der Front im Trentino

Gunda Barth-Scalmani/Gertrud Margesin
Donne in agricoltura durante la prima guerra mondiale: approccio a un campo inesplorato nella storiografia sulla guerra mondiale in prospettiva regionale

 

Forum

Martina Salvante
Maschilità di confine: mutilati e invalidi trentini e sudtirolesi nel primo dopoguerra

Silke Fehlemann
Exklusives Gedenken. Die Erinnerung an den Ersten Weltkrieg im Deutschen Reich aus einer geschlechtergeschichtlichen Perspektive. Ein Projektbericht

Patrick Gamberoni
Bericht zu den Internationalen Kolloquien „Der Festungsbau in Tirol 1836 – 1914“ und „Die Festungen im Alttiroler Raum 1914–2014“

Thomas Götz
Vielerlei Kulturkämpfe – Rezensionsessay zu Gustav Pfeifer/Josef Nössing (Hgg.), Der Kulturkampf in Tirol und in den Nachbarländern

 

Rezensionen / Recensioni

Hermann J. W. Kuprian/Oswald Überegger (Hgg.), Katastrophenjahre. Der Erste Weltkrieg und Tirol
(Stefan Wedrac)

Marco Mondini, La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare. 1914–1918
(Matteo Ermacora)

Raoul Pupo, La vittoria senza pace. Le occupazioni militari italiane alla fine della Grande Guerra
(Giorgio Mezzalira)

William M. Johnston, Zur Kulturgeschichte Österreichs und Ungarns 1890–1938. Auf der Suche nach verborgenen Gemeinsamkeiten
(Kurt Scharr)

Bertrand Perz/Thomas Albrich/Elisabeth Dietrich-Daum/Hartmann Hinterhuber/Brigitte Kepplinger/Wolfgang Neugebauer/Christine Roilo/Oliver Seifert/Alexander Zanesco (Hgg.), Schlussbericht der Kommission zur Untersuchung der Vorgänge um den Anstaltsfriedhof des Psychiatrischen Krankenhauses in Hall in Tirol in den Jahren 1942 bis 1945
(Maria Fiebrandt)

 

 

 

 

EDITORIALE

 

di Siglinde Clementi e Oswald Überegger

 

 

Questo numero raccoglie i risultati del seminario “Guerra – genere – regione: la Prima guerra mondiale nella prospettiva di genere. Germania, Austria e Italia a confronto”, organizzato nel marzo 2014 dal Centro di competenza per la storia regionale della Libera università di Bolzano come contributo per il centenario dello scoppio del conflitto. L’obiettivo era di riportare al centro del dibattito un tema della ricerca sulla guerra mondiale a lungo trascurato, o addirittura rimosso, soprattutto in ambito di storia regionale.

Alla base dell’emarginazione della storia delle donne e di genere in questo campo vi sono stati principalmente due fattori. In primo luogo, le ricerche sulla Prima guerra sino ai tempi più recenti non hanno attribuito particolare attenzione alla categoria di genere. L’interpretazione dominante del conflitto quale avvenimento meramente militare favoriva – anche in Austria − un approccio di storia militare assai tradizionale. Venivano approfondite soprattutto le questioni legate alla conduzione e alla dimensione operativa degli eventi bellici. Questo modello dominante tendeva ad affidare la ricostruzione storica della guerra a coloro che venivano ritenuti a ciò più competenti, ovvero i militari e gli studiosi di storia militare, nel cui orizzonte narrativo scarsa o addirittura nulla era l’attenzione verso gli aspetti di storia delle donne e di genere [1].

In secondo luogo, anche all’interno della prima fase della storia delle donne i temi militari e bellici non trovavano quasi alcuno spazio, in quanto venivano connotati esclusivamente in senso “maschile”. Presupposto costitutivo e irremovibile del primo movimento femminista era il topos del “naturale pacifismo”. Solo con il profondo cambiamento di paradigma negli anni Ottanta, ovvero col passaggio dalla storia delle donne alla storia delle donne e di genere, si è registrata un’apertura verso i temi della guerra. La “nuova” storia di genere si distanziava infatti notevolmente dai presupposti tradizionali del discorso vittime/colpevoli (donna pacifica/uomo bellicoso) e concepiva il genere come categoria socio-culturale e relazionale [2]. Per la prima volta ci si occupò specificamente dei processi di cambiamento dei rapporti di genere nelle guerre e delle loro durature conseguenze. E per la prima volta venne discussa criticamente la classica dicotomia tra fronte esterno, connotato in senso “maschile”, e fronte interno “femminile” [3].

Nonostante ciò, anche all’interno di questo nuovo trend, la Prima guerra mondiale continuò a rivestire un ruolo tutt’al più secondario. L’attenzione si rivolgeva soprattutto alla Seconda guerra mondiale e in particolare al tema della partecipazione e responsabilità delle donne nel nazionalsocialismo. Solo dagli anni Novanta si diffuse la consapevolezza che anche la Prima guerra mondiale, come tutte le altre guerre, non poteva essere compresa a sufficienza senza prendere sistematicamente in considerazione il genere come categoria relazionale e di intersezione [4]. In questa direzione vi è ancora un enorme potenziale non utilizzato, soprattutto nella prospettiva di una moderna storia regionale della guerra mondiale. Per questo i contributi presentati in questo volume mirano da un lato a descrivere il cammino sinora percorso sia in area tedesca che italiana, dall’altro a focalizzare i risultati prodotti dalle nuove ricerche regionali relative all’arco alpino.

La Prima guerra mondiale rappresentò la prima “guerra totale” o almeno la prima che assunse “caratteri totali” sempre più forti. La “catastrofe originaria del XX secolo” coinvolse l’intera società di ogni Paese partecipante. La guerra richiese una mobilitazione totale, in primo luogo degli uomini abili per il fronte, ma sotto vari aspetti anche delle donne e non soltanto per il cosiddetto “Heimatfront”, cioè il fronte interno, bensì anche per quello militare. Non furono risparmiati neppure i bambini. Tutto questo relativizzò sempre più la linea di distinzione tra fronte militare e fronte interno [5]. Il concetto di “Heimatfront” fu coniato dalla propaganda di guerra germanica: per raggiungere la vittoria il fronte militare avrebbe dovuto ricevere il pieno sostegno da parte delle retrovie. La dimensione industriale della guerra contribuì alla mobilitazione in patria della popolazione civile più di quanto fosse mai accaduto in passato. Ciò riguarda non solo il lavoro nelle industrie di interesse bellico ma anche gli enormi sacrifici materiali e le prestazioni in campo infermieristico e assistenziale. Nella guerra moderna il fronte interno dovette fornire, in misura sino ad allora sconosciuta e con crescente intensità, materiali e uomini per il fronte e, al contempo, riparare i suoi danni in termini materiali e psichici.

La Prima guerra mondiale come guerra di massa, totale e industrializzata, richiese enormi prestazioni a uomini e donne. Le rappresentazioni della mascolinità e della femminilità furono declinate in forme e combinazioni non convenzionali. Da un lato, a livello di discorso pubblico, vennero cementati i tradizionali ruoli di genere; basti pensare alle immagini stereotipate dell’eroismo dei soldati, delle donne e dei bambini bisognosi di protezione come pure della “naturalità” dello slancio di dedizione femminile. Dall’altro lato, nella realtà delle esperienze quotidiane e della vita del fronte, questi ruoli tradizionali si incrinarono sempre più e in parte furono persino ribaltati. Basti pensare al lavoro delle donne nella produzione, oppure al loro diretto impiego bellico, o ancora alla gestione della guerra da un punto di vista mentale e identitario, con i soldati invalidi e inabili (concetti chiave: mascolinità/non mascolinità). Il discorso di genere era fondato su ruoli dicotomici e complementari e fu strumentalizzato massicciamente dalla propaganda di guerra. Era caratterizzato dall’immagine ideale – coltivata per decenni dal nazionalismo e dalla coscrizione militare generale – dell’eroico soldato che, determinato, valoroso e disciplinato, è disposto in ogni momento a difendere la propria patria (“Vaterland”) e a proteggere donne e bambini (la “Heimat” appunto) anche a costo della propria vita. Alla donna veniva affidato un ruolo per così dire di “assistenza”: sostenere con fedele dedizione il proprio figlio o marito per il raggiungimento di tale obiettivo.

Questo discorso di genere, basato su ruoli ideologici e dicotomici, non reggeva in nessun modo al confronto con la realtà della guerra e di fatto fu praticamente sospeso. Nel contesto della guerra “totale” nessuno dei due generi trovava più una reale corrispondenza all’interno dei ruoli tradizionali. I maschi arruolati videro man mano ridimensionato e relativizzato il proprio ruolo di “pilastri” della famiglia e persino di “protettori”. La durezza e brutalità inusitata della guerra segnò sempre più profondamente l’auto-percezione di molti maschi. Soprattutto le immagini retoriche relative all’eroismo militare si trovarono in evidente contrasto con il ridimensionamento del valore individuale nel contesto di una guerra ormai industrializzata e di massa. Dal canto loro, le donne rimaste a casa dovettero affrontare il problema di sostituire gli uomini non solo nell’economia di guerra ma anche nella responsabilità di mantenere e far sopravvivere la famiglia.

Questa nuova costellazione di genere sembra essere stata generalmente percepita a livello pubblico come una provvisoria forzatura dell’ordinamento di genere, giustificata dalle necessità belliche e tollerabile solo temporaneamente. Accanto ad altre fonti, la massa di documenti forniti dalla corrispondenza di guerra (la “posta da campo”) rivela la tensione scaturita dal contrasto tra i vecchi modelli di genere e le nuove, inconsuete prestazioni che venivano richieste alle donne e ai maschi. Esse venivano accolte con sentimenti contrastanti. Durante la guerra per le donne si aprirono nuovi spazi d’azione, tuttavia il grande carico di lavoro e le numerose e diverse responsabilità, che avevano necessariamente dovuto assumere dopo la partenza dei maschi, generarono in loro un senso di sovraffaticamento e inadeguatezza. Per quanto riguarda gli uomini, accanto al timore di perdere l’autorità sulla famiglia, le esperienze al fronte si rivelarono in tutta la loro durezza e drammaticità e produssero un sentimento di insicurezza, mettendo spesso in crisi l’auto-percezione maschile.

Il dopoguerra puntò infine alla “restaurazione” dell’ordine prebellico. Le “eroine delle retrovie” avrebbero dovuto essere riportate al loro ruolo di mogli e madri. Il processo di ampliamento delle competenze femminili imposto dalla guerra si sarebbe dovuto invertire con la riproposizione del tradizionale modello borghese: “capofamiglia, donna di casa, famiglia”. Obiettivo della smobilitazione avrebbe dovuto essere il rafforzamento dell’ordine sociale e politico attraverso il veloce reinserimento degli ex soldati nel mondo del lavoro, che doveva essere ottenuto con l’allontanamento di quelle donne che avevano sostituito i maschi. In tal modo si sarebbe ripristinato l’ordine tradizionale dei generi che la guerra aveva sconvolto.

Già durante la guerra l’impiego di donne nell’economia era stato considerato perlopiù un fenomeno temporaneo. Diverse aziende pretendevano dalle lavoratrici una specie di lettera di dimissioni in bianco, che sarebbe entrata in vigore automaticamente con la fine del conflitto. Per molto tempo è stato sopravvalutato il presunto effetto emancipatore che la Prima guerra mondiale avrebbe avuto sulla condizione femminile. Tale valutazione fu favorita anche dal fenomeno dell’incremento nel dopoguerra del lavoro femminile retribuito e dalla contemporanea introduzione del diritto di voto alle donne in molti Stati. Nel frattempo però quest’interpretazione, nel solco della classica caratterizzazione di Ute Daniel (“emancipazione a prestito” [6], ha ceduto il passo in molti studi specifici a un quadro più differenziato. Tali ricerche mostrano come, almeno nel settore pubblico, abbia predominato un atteggiamento di rigidità rispetto alle tendenze emancipatorie.

Questi brevi cenni non devono in alcun modo dare un’impressione di esaustività. Nonostante le numerose ricerche condotte da circa un ventennio, molte tematiche risultano finora solo abbozzate. Nei contributi di Bruna Bianchi, Christa Hämmerle e Ingrid Sharp ne sono trattate alcune: la complessità delle esperienze belliche da parte delle donne, una storia della violenza in guerra che tenga conto della prospettiva di genere, fino al ruolo del pacifismo e delle pacifiste o ancora ai temi, sinora assai trascurati, relativi alla storia della mascolinità, che devono assolutamente essere inclusi in una storia di genere della guerra.

Questo numero affronta l’argomento lungo due vie. Dapprima tre ampi studi di storia della storiografia offrono uno sguardo d’insieme sulle ricerche di storia delle donne e di genere relativa alla Prima guerra mondiale in Germania, Austria e Italia. La seconda parte è invece riservata a diversi studi specifici regionali relativi all’arco alpino.

L’ampio contributo di Christa Hämmerle traccia un bilancio del centenario (1914-2014) – ovviamente sommario e ancora provvisorio –sulla specifica storia delle donne e di genere della Prima guerra mondiale; un bilancio a suo giudizio ambivalente. Da un lato si constatano indubbi progressi nel confronto con aspetti primari della classica storia delle donne. Anche la storiografia austriaca, pur timidamente e con ritardo, è arrivata ormai a occuparsi con maggiore intensità di tematiche come la mobilitazione delle donne, il loro atteggiamento, le forme della protesta contro la guerra. Restano tuttavia molti campi da esplorare. Solo per citarne alcuni, la questione della “mascolinità” dei soldati, dei significati specifici di genere della corrispondenza di guerra (“posta da campo”) come pure delle esperienze e del racconto della violenza in una prospettiva di genere. Comunque il problema maggiore nel panorama austriaco è che i risultati raggiunti dalla storia delle donne e di genere vengono ancora scarsamente integrati nelle ricostruzioni generali della guerra e anzi molto spesso risultano completamente ignorati. L’autrice invita quindi a “superare una volta per tutte la barriera che esiste tra queste ricerche (di storia generale, ndr.) e la storia delle donne e di genere” [7].

Rispetto alla situazione austriaca, la ricerca in Germania è assai più avanzata. Storiche e storici come Karen Hagemann, Thomas Kühne, Ute Frevert, Benjamin Ziemann, Ute Daniel e Birthe Kundrus, solo per citare i nomi più noti, si sono occupate/i relativamente presto della guerra come “gendering activity” (Margaret Higonnet). Già da tempo in Germania è stata affrontata la specifica situazione delle donne in guerra, ad esempio con lo studio pionieristico (1989) di Ute Daniel sulle lavoratrici nella “società di guerra” (Arbeiterfrauen in der Kriegsgesellschaft). In Germania inoltre, per fare un altro esempio, si è svolta già da tempo anche la discussione critica riguardo alla tradizionale divisione tra “Heimat” (fronte interno) e fronte militare intesi quali ambiti tra loro indipendenti. Già negli anni Novanta, inoltre, è stata tematizzata la dimensione della guerra sotto il profilo della storia della mascolinità, sulla scia del generale dibattito sulla storia bellica e militare come storia di genere [8]. Anche per Ingrid Sharp l’integrazione di tali aspetti all’interno della storia generale della guerra mondiali è un’importante cartina di tornasole. E anche il suo bilancio è ambivalente. Attualmente, pur in presenza di una indubbia crescita nella considerazione di temi di storia delle donne e di genere, “non si può comunque parlare di un pari trattamento dei generi” [9]. L’autrice individua su questo aspetto ancora grandi resistenze soprattutto nella tradizionale storia militare.

Nella sua dettagliata analisi del panorama della storia delle donne e di genere in Italia, purtroppo ancora poco conosciuta a livello internazionale, Bruna Bianchi traccia linee e ritmi di sviluppo che sono del tutto paragonabili al quadro germanico e austriaco. Anche in Italia tale indirizzo ha stentato a trovare spazi all’interno di una narrativa della guerra dominata dalla tradizionale storia militare, politica e diplomatica. Ciononostante soprattutto le ricerche sulle donne lavoratrici e sulla protesta femminile, anche in forma di recenti studi regionali, sembrano abbastanza avanzate rispetto all’area tedesca. Anche il tema delle profughe e internate di guerra – così importante per l’Italia − e quello della violenza sessuale subita dalle donne durante il conflitto sono stati indagati con maggiore intensità. Anche in Italia, soprattutto negli ultimi anni, è stata focalizzata la questione della mobilitazione patriottica delle donne e dell’“interventismo femminile”; la ricerca in questo campo ha approfondito in particolare le debolezze del pacifismo in Italia. A conclusione del suo contributo, l’autrice segnala la presenza a livello storiografico di un notevole divario regionale: a fronte degli ormai numerosi studi dedicati alle regioni settentrionali e in particolare del Nord-est (vicine al fronte di guerra), per le regioni centrali e meridionali continuano sostanzialmente a mancare ricerche di storia delle donne e di genere.

Come detto, la seconda parte della sezione monografica del numero è dedicata a tre studi regionali. Matteo Ermacora, prendendo in esame la regione friulana, mostra in modo esemplare il valore aggiunto che la prospettiva di genere può offrire alla ricostruzione generale del conflitto. La vicinanza di quest’area al fronte militare portò a un massiccio impiego delle donne in molti ambiti: dalla produzione agricola al diretto coinvolgimento bellico come portatrici e nella costruzione di tunnel e strade. Mentre l’impiego delle donne nelle attività produttive fu valutato positivamente e ampiamente propagandato, quello bellico fu consapevolmente sottaciuto, a dispetto della sua estrema importanza. La deroga al tradizionale ordinamento dei ruoli di genere fu accompagnata da parte maschile da preoccupazioni moralistiche. Le donne subirono il peso di questa critica condizione, ma riuscirono anche ad accrescere la propria autoconsapevolezza come risulta evidente dalle azioni di protesta messe in atto, a partire dal 1917, contro le durezze imposte dall’escalation della guerra. Inoltre l’allargamento delle competenze femminili dettato dalle necessità belliche ebbe in Friuli positivi sviluppi nei critici anni del dopoguerra.

Il contributo di Nicola Fontana si concentra su un aspetto specifico della storia delle donne nella guerra e cioè il loro diretto impiego bellico. Sul fronte trentino le autorità militari austro-ungariche impiegarono massicciamente le donne come portatrici e in lavori di costruzione. In un primo tempo ciò avvenne su base volontaria, ma dal 1915 in forma coatta. La propaganda bellica italiana indicò tale impiego delle donne come ennesimo esempio della disumanità della condotta bellica austroungarica e parlò di una discriminazione tra le tirolesi di lingua tedesca e le donne trentine.

Il contributo di Gunda Barth-Scalmani e Gertrud Margesin ci riporta dal fronte alle retrovie e invita a un maggiore confronto con le condizioni di vita in ambito rurale. Lo studio prende come esempio il Tirolo, nel quale alla vigilia della guerra ben il 75% della popolazione viveva in aree rurali. Il ribaltamento dei rapporti di genere si esprime qui in un particolare aspetto: i tradizionali modelli di interazione tra prestazioni di lavoro maschili e femminili nell’azienda agricola furono profondamente modificati dal massiccio arruolamento dei maschi. Già nei primi mesi di guerra in Tirolo fu arruolato un terzo dei maschi attivi in agricoltura. Alle donne rimase quindi la responsabilità non solo della conduzione delle aziende ma anche della produzione agricola, che nel corso del conflitto assume un ruolo sempre più importante.

La storia di genere della Prima guerra mondiale è dunque il tema affrontato nella sezione monografica di questo numero di “Storia e Regione/Geschichte und Region”. Tuttavia anche il Forum presenta due relazioni di progetti che in parte si collegano alle stesse tematiche. La prima, di Martina Salvante, riguarda gli invalidi di guerra. Nella seconda Silke Fehlemann presenta il suo progetto di abilitazione sulle esperienze delle madri e sull’“immagine della madre” durante e dopo il conflitto. A conclusione del numero, anche la sezione dedicata alle recensioni presenta la discussione di diverse recenti pubblicazioni sulla guerra mondiale.

 

 

 

NOTE

 

[1] Sugli sviluppi della storia delle donne e di genere della Prima guerra mondiale in Italia, Germania e Austria si vedano i contributi di Ingrid Sharp, Christa Hämmerle e Bruna Bianchi in questo volume. Sullo sviluppo della storiografia sulla prima guerra mondiale nei tre paesi si rimanda al volume collettivo Oswald Überegger (a cura di), Zwischen Nation und Region. Weltkriegsforschung im interregionalen Vergleich. Ergebnisse und Perspektiven, Innsbruck 2004. Sugli indirizzi dell’immensa storiografia internazionale si veda, come esempio rappresentativo di numerosi altri studi, il recente contributo di Jay Winter, Historiography 1918-Today, in: 1914-1918-online. International Encyclopedia of the First World War, a cura di Ute Daniel/Peter Gatrell/Oliver Janz/Heather Jones/ Jennifer Keene/Alan Kramer und Bill Nasson, Freie Universität Berlin 2014, DOI: http://dx.doi.org/10.15463/ie1418.10498.

 

[2] Su questo cfr. anche Karen Hagemann, Krieg, Militär und Mainstream. Geschlechtergeschichte und Militär, in: Karen Hagemann/Jean Quataert (a cura di), Geschichte und Geschlechter. Revisionen der neueren deutschen Kultur, Frankfurt a.M./New York 2008, pp. 92–129.

 

[3] Come recente tentativo di sintesi si vedano le osservazioni di Christa Hämmerle, Oswald Überegger e Birgitta Bader Zaar, Introduction: Woman’s and Gender History oft he First World War – Topics, Concepts, Perspectives, in: IDEM (a cura di), Gender and the First World War, Houndmills/Basingstoke/Hampshire 2014, pp. 1–15. Un altro esempio di sintesi è anche il recente contributo di Susan R. Grayzel, Women’s Mobilization for War, in: 1914-1918-online. International Encyclopedia of the First World War, a cura di Ute Daniel/Peter Gatrell/Oliver Janz/Heather Jones/Jennifer Keene/Alan Kramer und Bill Nasson, Freie Universität Berlin, Berlin 2014-10-08. DOI: http://dx.doi.org/10.15463/ie1418.10348.

 

[4] Su questo aspetto cfr. anche il contributo di Christa Hämmerle in questo volume.

 

[5] Cfr. il lavoro pionieristico di Karen Hagemann/Stefanie Schüler-Springorum (a cura di), Heimat – Front. Militär und Geschlechterverhältnisse im Zeitalter der Weltkriege, Frankfurt a. M. 2002.

 

[6] Ute Daniel, Arbeiterfrauen in der Kriegsgesellschaft. Beruf, Familie und Politik im Ersten Weltkrieg (Kritische Studien zur Geschichtswissenschaft 84), Göttingen 1989, p. 259.

 

[7] Si veda il contributo di Christa Hämmerle, p. 47.

 

[8] Si veda tra gli altri: Thomas Kühne (a cura di), Männergeschichte – Geschlechtergeschichte. Männlichkeit im Wandel der Moderne, Frankfurt a. M. 1996; Thomas Kühne/Benjamin Ziemann (a cura di), Was ist Militärgeschichte? Paderborn u. a. 2000.

 

[9] Ingrid E. Sharp, p. 61