Autore: Giuseppe Felice Givanni / a cura di Roberto Antolini

Rif. bibl.: in corso di pubblicazione sulla rivista «Il furore dei libri»

 

Su gentile concessione di Il furore dei libri. Associazione Culturale di Promozione Sociale – Rovereto (www.ilfuroredeilibri.org)

 Il furore dei libri, Rovereto

 

 

 

[El Prior el magneva giust dei fonghi]

La Novela Dodese (1752) di Giuseppe Felice Givanni

 

a cura di Roberto Antolini

 

 

 

Una novella in versi in dialetto roveretano di metà Settecento

 

Di seguito a questa introduzione trovate il testo di una novella in versi dialettali roveretani di metà Settecento, fino ad ora mai pubblicata. È tratta dal codice DCLXIII della Biblioteca capitolare di Verona, un volumone manoscritto autografo del poeta Giuseppe Felice Givanni, spedito a quella - allora lontana - biblioteca veronese direttamente dall’autore nel 1785, lamentando la scarsa attenzione dei suoi concittadini per le sue produzioni letterarie, nate in epoca giovanile per essere lette nelle riunioni della Accademia degli Agiati, di cui Givanni era stato uno dei promotori. Produzioni che Givanni ha trascritto (e annotato) con cura nel codice ora veronese, a futura memoria: è morto poco dopo, nel 1787. Versioni manoscritte delle sue novelle in versi dialettali circolavano a Rovereto ancora nel secolo successivo - nell’Ottocento – ma in versioni filologicamente poco corrette, portando il segno di errori di trascrizione e sicuramente anche di censure, che i suoi testi imbevuti di un mordace razionalismo settecentesco provocavano nella società roveretana del secolo successivo, ormai permeata di restaurazione e purismo letterario-linguistico. Da queste fonti spurie sono state tratte le poche edizioni ottocentesche, che sono state raccolte nel 1982 in una antologia anastatica pubblicata dall’editore moresano La Grafica.

 

Codice DCLXIII della Biblioteca capitolare di Verona

 Biblioteca Capitolare di Verona

 

L’autore: Giuseppe Felice Givanni

 

Giuseppe Felice Givanni, nato nel 1722 nell’attuale quartiere roveretano di Santa Maria (ma allora si chiamava Borgo San Tommaso, e faceva parte del comune di Lizzana), proveniva da una famiglia di piccoli imprenditori che originari probabilmente dell’alto veronese, arrivano in Val Lagarina nel XVII secolo per inserirsi nelle attività dell’industria serica allora in pieno sviluppo in zona. A Rovereto si insediano nel Borgo San Tommaso, dove hanno lasciato tracce di attività economiche varie, sia nel campo della seta, sia in quello della carta.

Un ramo della famiglia diventa molto ricco con lo zio del poeta Giacomo (1665-1759) ed acquisisce un titolo di bassa nobiltà: il cavalierato. Ma il nostro poeta invece, Giuseppe Felice, rimarrà sempre povero, probabilmente a causa della precoce scomparsa del padre Domenico. Dal 1747 lo troviamo attivo come cappellano di famiglia, e poi anche come precettore dei figli, per il barone Gian Giulio Pizzini, ricevendo “stanza e mensa” nel bel palazzo rococò che ancora impreziosisce Piazza del Grano (ora Malfatti). Inoltre insegna Umanità al ginnasio. La cappella gentilizia della famiglia Pizzini, quella della cui magra rendita viveva Giuseppe Felice Givanni, è la chiesetta ora sconsacrata e malmessa della Madonna dell’aiuto, che sta di fronte a palazzo Pizzini.

 

Rovereto, Piazza del Grano (ora Malfatti), Cappella Pizzini

 Piazza del Grano, Rovereto

 

Giuseppe Felice Givanni, nonostante la disagiata condizione economica, sarà un intellettuale molto interessante, fra i più notevoli della seconda generazione del Settecento roveretano. Sarà un letterato razionalista e riformista, allievo del Tartarotti, ispirato a quell’idea di una religione “regolata” (cioè secondo ragione, ripulita da superstizioni, sentimentalismi barocchi e rigidità formalistiche) che aveva insegnato Ludovico Antonio Muratori. E di questa sua ispirazione religioso-riformista saranno piene anche le sue opere letterarie.

Givanni è infatti l’autore di una grande produzione poetica, nella quale si segnalano soprattutto le molte novelle in versi dialettali, dove, dietro un primo livello faceto, trapela una critica etica, sociale e culturale, alla Rovereto sua contemporanea, trasfigurando personaggi e storie del tempo.

 

 

La novella

 

Per avere idea della data di composizione di questa novella possiamo riferirci al fatto che è stata letta in una riunione della Accademia roveretana degli Agiati del 27 febbraio 1752. Anche qui possiamo trovare, dietro il primo livello di superficie della storia ridanciana dell’indovinello, la messa in scena – proprio tramite questa storia ridanciana – delle idee riformiste dell’autore. La struttura dell’intreccio è l’elaborazione ‘sociale’, con rovesciamento finale, di uno schema canonico della fiaba: quello dell’eroe che deve superare qualche prova posta dal principe, e riesce a farlo con l’appoggio di un aiutante-magico. Nell’adattamento di questo schema alla novella givanniana, l’intelligenza di un sottoposto (il cuoco) sostituisce le forze magiche della fiaba, per – alla fine – usurpare il ruolo dell’eroe rivelatosi inadeguato (un sovvertimento sociale).

In un’epoca di critica illuministica alla sovrappopolazione conventuale (che gravava per il suo mantenimento sulla comunità), alla sua scarsa cultura e alla sua mancanza di ruolo socialmente attivo, Givanni ci descrive un convento di frati “di poco concetto”, dediti a una vita liturgica formalistica ma privi di pietas sociale, che oziavano senza problemi “nella stagione fredda in cui i poveri grami battono i denti”. Nonostante l’io-narrante givanniano giochi nel testo con un ruolo ‘al di sopra delle parti’ (criticando - nella conclusione - anche i “Grandi” che si fanno beffa della gente comune), l’esigenza di riforma qui è interpretata dal principe illuminato, che “aveva questo prurito, di ricavare da ogni semenza frutto”, e non volendo “mantenere oziosi”, medita “di mandar via dallo stato questi frati”. Come poi effettivamente farà negli anni Ottanta del Settecento il sovrano più ‘illuminato’ di tutti, Giuseppe II d’Austria, che chiuderà molti conventi (anche in Trentino), incamerandone i beni per destinarli ai primi progetti di assistenza pubblica.

In questa novella Givanni si mostra polemico anche verso il riflesso avvertibile dentro agli ordini religiosi della rigida divisione in classi della società, per cui alle più alte cariche religiose potevano in effetti ambire soprattutto i rampolli delle famiglie più ricche e altolocate. Il Priore “beschizzos” (fastidioso), ignorante e inetto, lamenta di aver dedicato la gioventù ad attività che lo connotano chiaramente come aristocratico: il gioco delle carte ed il “servir signora”, cioè il cicisbeismo (basti pensare alle attività del “giovin signore” nel Giorno pariniano). Mentre a salvare il convento dalle ire del principe sarà un umile - ma evidentemente intelligente - cuoco.

 

 

Nota sulla trascrizione

 

La novella è composta da 43 ottave numerate, più l’ottava non numerata che funge da premessa, anticipando la vicenda. Qui si saltano le ottave 1-5, di natura introduttiva e riferite – seppur scherzosamente - al dibattito interno alla Accademia degli Agiati, che probabilmente risultano meno interessanti per il lettore non specialista. E si comincia invece direttamente con l’ottava 6, che entra subito nel merito dello svolgimento narrativo.

Ho trascritto la novella dal citato manoscritto autografo riproponendo la stessa grafia usata dall’Autore. La cosa va segnalata soprattutto per quanto riguarda le forme di accentazione, che sono diverse da quelle in uso attualmente: Givanni usa un’unica forma di accento, simile al nostro accento grave, mentre non conosce la forma acuta dell’accento, affermatasi sistematicamente solo nel XX secolo. Ho qui riproposto questa sua forma grafica di accentazione anche per quelle parole – come perché – che nell’uso attuale richiederebbero altra grafia (evitando cioè la correzione alla forma in uso oggi).

 

PER CHI VOLESSE APPROFONDIRE

Roberto Antolini, Origine e condizione sociale del sacerdote roveretano Giuseppe Felice Matteo Givanni, poeta dialettale (1722-1787), in “Studi Trentini. Storia” A.92, (2013) n.2, p. 391-438

 

Roberto Antolini,  La Musa Sgrovia di Giuseppe Felice Givanni, in “Atti della Accademia Roveretana degli Agiati. Classe di Scienze Umane, Classe di Lettere ed Arti” A. CCLXIV, (2014) ser.9, v. 4, fasc.1, p.7-28

 

 

 

[El Prior el magneva giust dei fonghi]

[Il Priore stava proprio mangiando dei funghi]

Novela Dodese / Novella dodici

 

 

Con tre deficilissimi quesiti

            De confonder en Prencipe procura,

            E per quest de far nar en altri siti

            Tut en Convent de Frai de testa dura;

            E’n temp che ‘l crede za d’averli friti,

            El Cogo stes de ment scaltra, e maura,

            Soto coverta d’esser lu l’Prior,

            El vence i casi, e ‘l porta pace, e onor.

 

Traduzione: Con tre difficilissimi quesiti / un principe fa in modo di confondere, / e per questo di mandar in altri siti [cacciare] / tutto un convento di frati di testa dura; / e mentre crede di averli già fritti, / il cuoco stesso di mente scaltra e matura / facendo credere di esser lui il priore, / risolve i casi, e porta pace e onore [al convento].

 

 

 [OTTAVE 1-5 OMESSE]

 

 

6

Entum Paes del Stato de Milan

Gh’era ‘n Convent de Frai de poc concet,

No miga perchè i des scandol, o dam,

Che i dromiva anzi soli ‘ntel so let:

El mal l’era, che i steva for de mam, (e)

E l’Ozzi ghe proibiva ogni libret,

E i spendeva del temp l’ore pu bone

En visitar i amici, che gh’ha Done

 

(e) cioè fuori della Strada Imperiale

 

Traduzione: In un paese dello stato di Milano / c’era un convento di frati di poco concetto, / non perché dessero scandalo o facessero danni / che dormivano anzi soli nel loro letto: / il male era, che stavano fuor di mano [appartati], / e l’ozio gli proibiva ogni libretto / e spendevano le ore migliori della giornata / visitando gli amici che hanno donne.

 

 

7

Per altro i era pontuai al coro,

A le so Messe, a far le so funziom;

Ma dopo per aver en po’ de sboro, (f)

Tuti chi qua chi là neva a rondom. (g )

I so cantori era persone d’oro,

E i saveva far l’ato de atriziom:

No era altro che la Biblioteca

I la chiameva camera che seca.

 

(f) per metafora: vuol dire un po’ di sollievo; (g) girando

 

Traduzione: Per altro erano puntuali al coro, / alle loro messe, a fare le loro funzioni; / ma dopo per avere un po’ di sboro [diletto, con maliziosa allusione sessuale] / tutti chi di qua chi di là andavano in giro. / I loro cantori [superiori] erano persone d’oro / e sapevano fare atto d’attrizione: / non era altro che la biblioteca / la chiamavano “camera che secca”.

 

 

8

Notandum, che de tut quel cercuit

   Era patrom un Prencipe assolut,

   Che quando qualchedum no areva drit,

   L’era de far capace, e desfar tut:

   Prencipe che gh’aveva sto prolit, (a)

   De recavar da ogni somenza frut

   E se tra i somenai gh’era zizania

   Per destirparla ‘l se meteva ‘n smania

 

(a) il prurito

 

Traduzione: Notandum [roboante-ironica espressione usata in modo maccheronico], che di tutto quel territorio / era padrone un principe assoluto, / che quando qualcuno non arava dritto [non si comportava a modo], / era capace di fare e disfare tutto: / principe che aveva questo prurito, / di ricavare da ogni semenza frutto / e se tra il seminato c’era zizzania / era preso dalla smania di estirparla.

 

 

9

A sto grant sior fu donque da ‘n sopiet (b)

Retrat dei boni Frati l’esemplari

Con un tantinet d’enfesi sporchet

Fagant a tut un manec da terziari, (c)

E contantghe presempi che i stà ‘n let;

Che i è ozziosi, desonesti, e avari,

En temp che i pori grami ‘n stagiom fresca

Slinze i bateva come fa la lesca. (d)

 

(b) un mettimale; (c) I terziari del nostro paese hanno per la maggior parte il difetto di credere, ed esagerar come eccessi  anche i minori mancamenti altrui; d) tratto arlichinesco messo apposta, perchè l’esca non manda scintille di fuoco, ma sibbene la pietra

 

Traduzione: A questo gran signore fu dunque da una spia / fatto un ritratto dei buoni frati / con un pochettino d’enfasi critica / aggiungendo a tutto una interpretazione malevola [come fanno i terziari], / e raccontandogli per esempio che stanno a letto; / che sono oziosi, disonesti, e avari, / in tempo che i poveracci in inverno / fanno scintille [battendo i denti] come fa l’esca [per accendere il fuoco].

 

 

10

Basta ‘l ghe ‘n contè su de tante sort

Al Prencipe bilos, che a recchie tese,

Enscambi al maldicent de dar el tort,

El le scolteva tute for destese:

Tant che ‘l zurè de rabia con trasport,

De no voler a oziosi far le spese,

Ma de mandar zo dal Stat sti Frai,

E farne vegnir altri de mior tai (e)

 

(e) di miglior taglio

 

Traduzione: Basta[,] gliene raccontò così tante / al principe preso da sfoghi di bile, che ad orecchie tese, / invece di prendersela con il maldicente, / le ascoltava tutte con attenzione: / tanto che giurò preso dal trasporto della rabbia, / di non voler sostenere gli oziosi / ma di cacciare dalla stato questi frati, / e farne venir altri di miglior qualità.

 

 

11

Ma pur per no parer tant rigoros

            A cazzar via ‘n Convent de Frati ‘ntrec,

            Senza gatar el bus prima a la nos,

            E far senza ‘n perchè cossì grant sbrec:

            Con ‘n argument fantastic, e ‘ntrigos

            El pensè de tajar a l’oca ‘l bec,

            Con enetenziom, se no i ghe’l sa resolver,

            De dir: caveve for da la me polver.

 

Traduzione: Ma per non sembrare tanto [troppo] rigoroso / a cacciar via un intero convento di frati, / senza prima trovare il buco [del tarlo] nella noce, / e creare senza spiegazioni un così gran trauma: / con un argomento fantasioso e  intrigante / pensò di tagliare il becco all’oca, / con l’intenzione, se [i frati] non glielo sanno risolvere, / di dire: toglietevi dalla mia polvere [d’attorno].

 

 

12

    Che però, come ‘l Prencipe lontam

            Era pu de des mieri (a) dal convent,

            El messe zo na litra de so mam,

            En la qual l’estendè trepi (b) argument

            E po’l la spedì via per terza mam,

            E senza che nessuno saves gnent,

Con dir a quel Comes: diseghe al Frate,

            Che a la resposta no ghe fazzo rate.

 

(a) miglia; (b) triplice

 

Traduzione: Però, siccome il principe era lontano / più di tre miglia dal convento, / mise giù [scrisse] una lettera di sua mano, / nella quale stese tre argomenti / e poi la spedì per terza mano [via terzi], / e senza che nessuno sapesse nulla, / disse a quel messo: dite al frate, / che non faccio rate [sconti] sulla risposta.

 

 

13

    En sustanza la litra la diseva:

            (Direta za al Prior dei bravi Padri)

            Padre, contra de voi ho al cor na sgeva (c)

            Pu granda de le spole dei tessadri;

            Perchè da zent de ment sapienta, e greva

            M’è stà contà, che sè zuconi quadri

            Prima voi, e po tuti i vossi Frai

            E che avè i Libri tuti ‘mpolverai.

 

(c) una spina

 

Traduzione: In sostanza la lettera diceva: / (diretta al priore dei bravi padri) /  padre, contro di voi ho una spina nel cuore / più grande delle spole dei tessitori; / perché da gente di mente sapiente, e seria / mi è stato raccontato, che siete zucconi quadri / prima voi, e poi tutti i vostri frati / e che avete li libri tutti impolverati.

 

 

14

Però mi che no pos sofrir fruter

            Che no zerboja, e no maura fruti,

            Come dis el Vangeli, a dir el ver (x)

            Volea tajarve dai me stati tuti;

            Ma ancor per carità, no per dover,

            Ho pensà darve tre quesiti astuti:

            Se savarè responder bem con bem, (a)

            Se no garbatum tuum (b) ne via dassem.

 

(x) Parabola dell’albero infruttifero che il Padrone volea tagliare; (a) per dir: le cose anderanno bene, oppur saremo d’accordo, si dice bem con bem; (b) tolto dalla guarigione del paralitico, quando Gesù gli disse: tolle grabatum tuum et vade

 

Traduzione: Quindi io che non posso soffrire frutteto / che non germoglia, e non matura frutti, / come dice il vangelo, a dire il vero / volevo tagliarvi [fuori] da tutti i miei stati; / ma ancora per carità, non per dovere / ho pensato di sottoporvi tre quesiti astuti: / se saprete rispondere le cose andranno bene, / se no garbatum tuum ve ne dovrete andare via davvero.

 

 

15

En termen de tre dì, a ste tre costiom

            Voi stes me dovarè resposta dar:

            En prima me dirè senza ceziom,

            Se sia par, o despar la lea del mar (c)

            Per secont me dirè cossa ogni om

            A pena ‘n let sia solit prim de far;

            E per terz me dirè, ma francament,

            Qual penser sarà alora ‘n la me ment.

 

(c) l’arena del mare

 

Traduzione: Nel termine di tre giorni, a queste tre questioni / voi stesso mi dovrete dar risposta: / per prima cosa mi direte senza [tirare in ballo] eccezioni, / se sia pari o dispari la sabbia del mare / per seconda mi direte che cosa ogni uomo / sia solito fare per prima cosa appena è a letto; / e per terza mi direte, ma francamente, / quale pensiero sarà allora nella mia mente.

 

 

16

El Priore el magneva giust dei fonghi,

            Quando ghe fu la litra consegnaa,

            La qual lezua, trant dei sospiri longhi

            El levè su, e ‘l fe na spacesaa:

            I Frati steva lì coi bislonghi,

            Azzo ‘ghe fus la cossa palesáa;

            Ma lu mandant dal cor sangioti, e sbave,

            El corè ‘n cela, e ‘l tosse zo la chiave

 

Traduzione: Il Priore stava mangiando dei funghi, / quando gli fu consegnata la lettera, / letta la quale, tirando dei lunghi sospiri / si alza su, e fa una passeggiata: / i frati stavano lì coi musi lunghi, / affinché gli fosse spiegata la cosa; / ma lui mandando dal cuore singhiozzi, e sbavando, / corre in cella, e tira giù la chiave.

 

 

17

Ma per diana da l’ua, che chi fus stai

            Lì presenti a sentir le lamentanze

            Che feva ‘l Frate per quel so travai ….

            Altro che se l’aves gota, o buganze!

            Ah! ‘l diseva, con ochi spalancai (a)

            Tiram con chi fa a Dio per voi le istanze!

            Questi è quesiti da desgarbojar? (b)

            L’è ‘n empossibol: ne volè sediar. (c)

 

(a) assai aperti per la bile unita al travaglio, e angoscia; (b) districare; (c) assediare

 

Traduzione: Ma per Diana dell’uva, che chi fosse stato / lì presente a sentir le lamentanze / che faceva il frate per quel suo travaglio … / altro che se avesse la gotta, o i geloni! / ah! Diceva, con occhi spalancati / tiriamo con chi fa per voi le istanze ad Iddio / questi sarebbero quesiti da disbrogliare? / è impossibile: ci volete assediare.

 

 

18

Cossì anca quel regaz è solit far

            Che va chiapant col pugn le mosche vive,

            E se qualcuna el ne pol mai binar,

            Zoncaa la testa, e la assa nar cossive; (d)

            E se la mosca stà senza sgolar,

            El fa tant, che la sbalza da chi’ e live; (e)

            Ma la casca po morta ‘n qualche loc,

            Perchè senza la testa tut val poc:

 

(d) mozzata a quella la testa la lascia andar così, cioè troncata; (e) da qui a lì, cioè per curto tratto

 

Traduzione: Così è solito fare anche quel ragazzo / che prova a prendere nel pugno mosche vive, / e se ne riesce davvero prendere qualcuna, / tranciatale via la testa, la lascia andar così conciata; / e se la mosca sta senza volare, / fa già tanto se la sbalza da qui a lì; / ma poi casca morta da qualche parte, / perché senza la testa vale tutto poco.

 

 

19

Che cade, che me fe’ de ste costiom,

            Che per saverle ghe vol ment devina?

            Quest’è ‘n voler che vaga a svoltolom

            Perchè za l’è ‘mpossibol che ‘ndovina.

            Som ben nassù sot a costellaziom,

            Che me manazza poertà, e rovina

            Giust entei ani, che son fiap, e miz,

            E che dovaria far da polsaiz. (f)

 

(f) uno che ha riposato e riposa dopo le sostenute fatiche.

 

Traduzione: Che giova, che mi facciate di queste questioni, / che per saperle ci vuole mente divina? / questo è volere che vada a rotoli / perché è sicuramente impossibile che indovini. / Sono ben nato sotto una costellazione, / che mi minaccia povertà e rovina / proprio negli anni, che sono moscio, e avvizzito, / e che dovrei riposare.

 

 

20

Beato mi, se ‘ntei me tendri ani

            Aves fat i me studi con del frut,

            Ades almanca no saria ‘n sti afani,

            E a dar resposta no saria sì mut:

            Questo se chiama un de quei grant malani,

            Che sovrazonze a ognuno, che da put

            No se sfadiga a scozzonarse fora (a)

            Altro che co le carte, o a servir siora.

 

(a)    Dirozzarsi

 

Traduzione: Beato me, se nei miei anni teneri [giovanili]  / avessi fatto i miei studi con frutto, / adesso almeno non sarei in questi affanni, / e non sarei così ammutolito: / questo si chiama uno di quei gran malanni, / che sopraggiunge ad ognuno, che da ragazzino / non si affatica a dirozzarsi / altro che con le carte, o a corteggiar signora.

 

 

21

Ensoma come osel, che for passant

            Per qualche rocol casca ‘nte la saca,

            Da la qual per scampar el va provant,

            Se ‘l pol sgolar, ma le so prove ‘l fiaca;

            Anzi ‘l se va a la pezi ‘ngarbujant:

            Co le zate, e col bec per tut el taca:

            L’urta ‘l sbalza ‘l va ‘ntorno, e gnent ghe giova,

            E ‘nnanz morir cinquanta morte l prova:

 

Traduzione: Insomma come quell’uccello, che passando / cade dentro la sacca di qualche roccolo, / per scappare dalla quale va provando, / se può volar [fuori], ma i tentativi lo sfiniscono; / anzi va ingarbugliandosi ancor peggio: / si avventa dappertutto con le zampe e con il becco: / urta, sbalza, si rigira, e nulla gli giova, / e prima di morire assapora la morte cinquanta volte:

 

 

22

El poro galantom el procureva

            De nar la biligornia (b) parant  via;

            Ma per quant a far quest el se sforzeva,

            Sempre l’aveva lì la fantasia:

            De quà, e de là a passi grevi ‘l neva

            Pensant a gatar for el vero quia;

            De resposte ‘l penseva or quela, or questa;

            Ma i dubi nol lasseva mai de pesta. (c)

 

(b).melanconia, tristezza d’animo; (c) lassar de pesta è nostra frase, ed esprime affligere continuamente

 

Traduzione: Il povero galantuomo cercava / di cacciar via la malinconia; / ma per quanto si sforzasse di farlo, / sempre a quello ritornava il suo pensiero: / andava qua e là a passi grevi, pensando a come trarsi d’impaccio; / pensava ora questa ora quella risposta; / ma i dubbi seguivano le sue impronte [gli stavano alle costole].

 

 

23

El rest dei Frai se fa le mili cros (a)

            A veder el Prior cossì piem d’ira;

            Ma perchè l’era al solit beschizzos, (b)

            Nessum ghe parla, ma ochiae i ghe tira.

            Pura ‘l cogo dei altri ‘l pu ardegos (c)

            Come che l’era del Prior la mira, (d)

            El lo tirè da banda con dir: Padre

            Che passiom avè mai rabiose, e ladre?

 

(a) farse le mili cros è frase nostra, e vuol dire stupirsi; (b) fastidioso; (c) ardito; (d) esser la mira è lo stesso che esser l’occhio dritto di uno

 

Traduzione: Il resto dei frati si tormenta / a vedere il priore così pieno d’ira; / ma poiché era abitualmente intrattabile, / nessuno gli parla, ma si limitano a lanciagli occhiate. / Eppure il cuoco più ardimentoso degli altri / come si trovò in vista del priore, / lo prese da parte dicendo: padre / che preoccupazioni avete mai così rabbiose, e ladre[infide]?

 

 

24

O tasi, caro ti, dis el Prior,

            Che sim le stele zacaria coi denti: (e)

            Travai no credo, che ghe sia mazor

            De quel che ades me rode i sentimenti.

            El nos Prencipe vol con tut rigor,

            Che temp tre dì responda a tre argumenti;

            E se no digo tut quel che ‘l vol el,

            Per noi tuti l’ di dre l’è Sant Michel. (f)

 

(e) veramente si dice dar el bec a le stele in nostro dialetto; ma questa zaccar coi denti le stele penso che possa esprimer lo stesso che vuol dir esser trasportato dall’ira; (f) siccome al giorno di S.Michele si costuma di mutar abitazione, e fitanze, così qui vuol dir che anch’essi dovranno mutar convento, e Paese.

 

Traduzione: O taci, caro mio, dice il priore, / che morderei perfino le stelle: / non credo, che ci sia tormento maggiore / di quello che adesso mi rode. / Il nostro principe vuole con il massimo rigore, / che entro tre giorni risponda a tre argomenti;/ e se non dico tutto quello che vuole lui, / per tutti noi il giorno dopo è San Michele [giorno di trasloco].

 

 

25

Ma perdoneme l’ardec che me toga (g),

            Perchè som en por dugo, en por toblonder, (h)

            No se poria saver, sozonze ‘l Cogo,

            Quai sia sti grant quesiti da responder?

            El Padre dise: giust con ti me sfogo,

            E tei digo piam piam per no confonder;

            E lezighe la litra con chiarezza,

            Mandant dai ochi qualche debolezza. (i)

 

(g) la nota (g) è segnata sul testo, ma poi manca la nota relativa in margine; (h) dugo, e toblonder sono lo stesso significando un uomo ignorante, e da nulla; ma il secondo si da ai tedeschi di tal carattere; (i) qualche lagrima, effetto co ‘animo debole.

 

Traduzione: Ma perdonatemi l’ardire che mi prendo, / perché sono un povero sempliciotto, un povero crucco [proveniente da zone di lingua tedesca, come nel XVIII sec. erano ancora le valli del Leno e gli altipiani], / non si potrebbe sapere, soggiunge il cuoco, / quali sono questi grandi quesiti a cui bisogna rispondere? / Il padre disse: mi sfogo proprio con te, / e te li dico pian piano per non confondermi; / e leggigli chiaramente la lettera, / mandando dagli occhi qualche debolezza [lacrima].

 

 

26

Quando ‘l Cogo avè ‘ntes le ficultà, (a)

            El stè ‘n pezzot emmobil a pensar;

            Ma po ‘l respose al Padre travajà:

            Eh via, no ve stè altro a maricar (b)

            Lasseme far a mi, che za ho gatà

            Le resposte, che al Prencipe ho da dar;

            E voi no fè giganti i salvanei,

            Perchè narà la cossa coi so pei. (c)

 

(a) difficoltà = troncato come suol farsi da molti della gente bassa; (b) rammaricare, troncato come il sopraddetto; (c) la cossa va coi so pei = vuol dire la cosa anderà a seconda.

 

Traduzione: Quando il cuoco ebbe inteso le difficoltà, / restò un po’ immobile a pensare; / ma poi rispose al padre angosciato: / eh via, non state a tormentarvi ancora / lasciate fare a me, che già ho trovato / le risposte, che ho da dare al principe; / e voi non prendete per giganti i folletti [non ingigantite le difficoltà], / perché la cosa andrà per il verso giusto.

 

 

27

Oh! se (responde ‘l Padre) te bastes

            L’anim de desgartiarme da sta petola, (d)

            Te faria segurtà, che ‘n sto Paes

            Voria narte lodant per ogni betola.

            Tant’è (sozonze ‘l Cogo) za avè ‘ntes

            Mi mi som quel mostaz, che ve despetola:

            Mi narò ‘nnanzi al Prencipe a responder,

            E no ve ‘ndubitè, che ‘l voi confonder.

 

(d) petola chiamiamo noi il fiore d’un erba, ossia il guscio delle sementi di quella, tutto spinoso, che si attacca e intrieca tutto ciò che tocca di poroso.

 

Traduzione: Oh! Se (risponde il padre) ti bastasse / l’animo per tirarmi fuori da quest’impiccio, / potresti star certo, che in questo paese / vorrei andare lodandoti in ogni osteria. / Tant’è (soggiunge il cuoco) avete già inteso / sono io quel ceffo, che vi disimpaccia: / andrò io innanzi al principe a rispondere, / e non dubitate, che voglio confonderlo.

 

 

28

Passa i di, e vegn el termen perentori

            De presentarse a dir la so resom:

            Sbalza ‘l Cogo a caval, sperona, e cori

            Senza dir a nessum la so ‘ntenziom:

            L’ariva ‘n corte, e per i servitori

            Al Prencipe, che steva ‘n spetaziom,

            El fa dir, ch’è vegnù ‘l Frate, che ‘l sa,

            E che ‘l cerca l’onor d’esser scoltà.

 

Traduzione: Passano i giorni, e viene il termine perentorio / di presentarsi a dire le proprie ragioni: /balza il cuoco a cavallo, sprona, e corri / senza dire a nessuno la sua intenzione: / arriva a corte, e per i servitori / al principe, che era in attesa, / fa dire, ch’è arrivato il frate, che lui sa, / e che cerca l’onore di essere ascoltato.

 

 

29

El Prencipe lissenzia tuti quei,

            Che steva lì a tegnirghe compagnia,

            Per poder tra quatr’ochi ancor pu mei

            Provar del Frate la Filosofia:

            Dopo ‘l mandè for subit dei Lachei

            A far intrar quel Padre Zammaria:

            Va drento ‘l Frate, e quando che ‘l fu lì

            El fè un enchim, e ‘l tachè via cossì:

 

Traduzione: Il principe congeda tutti quelli, / che stavano lì a tenergli compagnia / per poter a quattr’occhi ancora meglio / provare la filosofia [le conoscenze] del frate: / dopo manda subito dei lacchè / a far entrare quel Padre Zammaria: / entra il frate, e quando fu lì / fece un inchino, e iniziò così:

 

 

30

Altezza, mi no savaria la causa,

            Perchè ‘l sia cossì ‘n Bestia contra noi:

            Mi no credeva mai, che tanta nausa

            Podes en la so testa far zerboi;

            Ma se ‘l me faoris de ‘n po de pausa,

            Prest farò a destrigarme dal garboi;

            E se al me dir el lasserà dar sboro

            El se persuaderà afat afatoro (a)

 

(a) per dar forza al discorso abbiamo anche noi i nostri particolari ripieni [ripieghi? ndr], questo n’è uno, e vuol dir affatto, interamente. Qui è alterato anche nel nostro dialetto, dicendosi per ordinario affat affatorum

 

Traduzione: Altezza, io non saprei la causa, / che lo rende così imbestialito contro di noi: / non avrei mai creduto, che tanta nausea [nei nostri confronti] / potesse germogliare nella sua testa; / ma se mi concede un po’ di tempo, / farò presto a districarmi dall’ingarbugliamento; / e se mi lascerà parlare / si persuaderà subito.

 

 

31

El sapa, che noi altri sem dabem;

            E nessum pol saverlo pu de noi:

            Fem le nosse funziom, e confessem,

            E al coro de securi sem en doi:

            Tegnim scola a putei, e gh’ensegnem

            Lezer, scriver, e abac; e certi fioi

            Deventa cossì bravi, che i edifica

            De quindes ani a lezer el Magnifica (b)

 

(b) il Magnificat

 

Traduzione: Sappia, che noi altri siamo dabbene; / e nessuno può saperlo più di noi: / facciamo le nostre funzioni, e confessiamo, / e al coro di sicuro siamo [almeno] in due: / facciamo scuola ai ragazzi, e insegniamo loro / a leggere, scrivere, e usare l’abbaco (far di conto); / e certi figlioli / diventano così bravi, che sanno / a quindici anni leggere il Magnificat.

 

 

32

Per quel po, che reguarda i nossi studi

            Ognum de noi studia che se contenta;

            E a mi men sa (a) che ho spes alquanti scudi

            Tra i altri a far vegnir l’Arcadia ‘n Brenta:

            Nol pensa, che noi siama cossì nudi

            De coniziom, nè che a studiar se stenta;

            Perchè ghe n’è po trei, che se delima

            Contuniament en la materia prima.

 

(a) a mi men sa – vuol dire: a mio gran costo lo so ben io

 

Traduzione: Per quello poi, che riguarda i nostri studi / ognuno di noi studia abbastanza; / e lo so ben io che ho speso alquanti scudi / tra gli altri a far venire L’Arcadia in Brenta [dramma comico in musica del 1749, di Baldassarre Galuppi su testo del Goldoni]: / non pensi, che siamo così nudi [privi] / di cognizioni, né che si stenti a studiare; / perché ce ne sono poi tre, che si strizzano / continuamente la materia prima.

 

 

33

 sem … Ma dis el Prencipe: mi bramo,

            Che me de’ la resposta ai tre quesiti:

            Quest’è la pura causa che ve chiamo,

            No per saver se siè pojati o sghiti:

            E torno a dir, che sarè ‘n poro gramo

            Voi, e con voi i vossi Frati friti,

            Se no darè resposta, che me paga,

            E tut ste berle sarà fate al caga. (b)

 

(b) far na cossa al caga significa lavar la testa all’asino – laberem lavare

 

Traduzione: Noi siamo … ma dice il principe: io voglio / che mi diate la risposta ai tre quesiti: / questa è la causa per cui vi ho chiamato, / non per sapere se siete pulcini o schizzi di merda: / e torno a dire, che sarete un poveraccio / voi, e con voi i vostri frati fritti, / se non darete risposta, che mi soddisfi, / e tutte queste chiacchiere saranno state fatte a vuoto.

 

 

34

 alora ‘l Fra: nol credes miga,

            Che ‘nfra le gambe nes la coa tirant, (c)

            Né che sì dopi fus, o si formiga

            De portar via le popole (d) berlant (e)

            Anzi per no star chi a purar fadiga (f)

            Le tre resposte ghe narò mostrant

            Una e po l’altra despazzatament: (g)

            Et eco che me meto al grant ciment.

 

(c) tirar la coa ‘nfra le gambe è frase nostra, e vale come schermirsi, o tergiversare; (d) portar via le popole significa sottrarsi al gastigo, o portarsi fuori d’imbroglio senza perder nulla; (e) chiacchierando; (f) purar fadiga è come esser poltrone, o senza grandi stampite non sottomettersi alla fatica; (g) di seguito con prestezza.

 

Traduzione: Risponde allora il frate: non creda mica, / che vada tirando la coda fra le gambe [tergiversando], / né che sia così doppio, o così formica / da portar via la chiappe a forza di chiacchiere / anzi per non star qui a borbottare faticosamente / le tre risposte verrò a mostrarle / subito una dopo l’altra: / ed ecco che mi metto al gran cimento.

 

 

35

En primis Vossa Altezza ne domanda

            Se sia par o despar la lea del mar?

            Mi ghe respondo, o decisiom granda!

            Che la sabia del mar la è despar.

            La cossa la è cossì, e se ‘l comanda,

            A so bel ati ‘l la pol far lombrar, (a)

            E se no la è po tala, alora ‘l fazza

            Tut quel, che la so litra ne menazza.

 

(a) numerare

 

Traduzione: Per prima cosa vostra altezza ci domanda / se sia pari o dispari la sabbia del mare? / io le rispondo, o grande decisione! / che la sabbia del mare è dispari. / La cosa sta così, e se lei comanda, / a suo bel volere può farla contare, / e se poi non è tale, allora faccia pure / tutto quello, che la sua lettera ci minaccia.

 

 

36

La seconda resposta è de trastul,

            Ma per tirarla fora ha bisognest,

            Che la smenuzza bem con en bom frul,

            E la sperienza m’ha ‘nsegnà po’ l rest:

            El tirar la camisa sot al cul

            L’è ‘l prim mister, che fa ogn’Om onest,

            E ogni dona modesta a mala pena

            Che i poza sul so let fiaca la schena.

 

Traduzione: La seconda risposta è divertente / ma per tirarla fuori ho avuto bisogno, / di mescolarla bene con un buon frullino, / e l’esperienza m’ha insegnato poi il resto: / il tirare la camicia sotto al culo [allusione maliziosa all’attività erotica] / è il primo atto, che fa ogni uomo onesto, / e ogni donna modesta a mala pena / che poggiano la schiena stanca sul letto.

 

 

37

Al terz quesit, sibem che vossa Altezza

            Forsi narà pensant, che ‘l sia ‘ntrigà,

            Con tuta ghe respondo la franchezza,

            E ghe taco ‘ntel negro (b) ‘n verità;

            E de dir bem ho tanta secureza,

            Sibem che dal proverbi ho abu ‘mparà’

            A no dir quatro sim che no l è ‘n sacco (c)

            Che, se no la è cossì a ‘n laz me taco

 

(b).metafora presa da quei che sparano al tavolazzo; (c) proverbio che corre per esprimere, che non si dee tener per sicuro nulla fin a tanto che non se lo ha in possesso

 

Traduzione: Al terzo quesito, sebbene vostra altezza / forse starà pensando, che sia in difficoltà, / rispondo con tutta franchezza, / e colpisco nel nero [il centro del bersaglio] in verità; / ed ho tanta sicurezza di dir giusto, / nonostante abbia imparato dal proverbio / a non dir quattro fin che non è nel sacco / che, se non è così mi attacco ad un laccio [per impiccarsi].

 

 

38

Na bona volta (a) a tuti i pati el vol,

            Che sapa dir cossa, che l’ha ‘n la ment;

            E mi respondo a bat spiandor de sol,

            Che ‘l pensa d’aver chi ‘l Prior present:

            Dubitar de sta cossa no se pol,

            Che no la sia vera realment;

            Ma mi ghe digo, che ‘l comete uror

            Perchè mi som el Cogo, e no ‘l Prior.

 

(a) a buon conto

 

Traduzione: Una buona volta lei vuole secondo i patti, / che sappia dire cosa, che lei ha in mente; / e io rispondo a sole splendente [con chiarezza], / che lei pensa d’aver qui presente il priore: / non si può dubitare di questa cosa / che non sia realmente vera; / ma io le dico, che commette errore / perché io sono il cuoco, e non il priore.

 

 

39

Come ’n regaz, che avea n’osel en mam

            Tolt fora da la re’ (b), o zo dal stazom,

            Che ‘l pensa de tegnirlo vif tra l’am

            O per stua, o serà ‘ntum bel cabiom,

            O pura de coparlo, e a mam a mam (c)

            El ghe scapa tra i dei, e ‘l por frascom

            El resta lì con en pugn piem de mosche

            A vardar dre a l’osel co le cie losche:

 

(b) la rete; (c) quand’ecco

 

Traduzione: Come un ragazzo, che aveva un uccello in mano / tirato fuori dalla rete, o [tirato] giù dal roccolo, / che pensa di tenerlo in vita [tutto] l’anno / o nella stanza, o chiuso in una bella gabbia, / oppure di accopparlo, e a mano a mano / gli scappa dalle dita, e il giovinastro / resta lì con un pugno di mosche / a guardar dietro all’uccello [che scappa] con le ciglia stralunate:

 

 

40

Tal e qual el bom Prencipe restè

            Encantà senza aver ne ti ne voi, (d)

            Sentent resposte forte pu de asè (e)

            Da quel fator de torte, e de rofioi;

            E tut quachià, e ‘mmobil for de se,

            El ros ghe feva sul mostaz zerboi

            A vederse convenz da ‘n motazzecher, (f)

            Che pareva un scolar de Dom Pernecher. (g)

 

d) non aver nè ti nè voi è tanto come esser confuso, o stolido; (e) aceto, il cui sapore presso di noi non si dice acido, ma forte; (f) accrescitivo di mostaccio per dinotarlo grosso, e tondo; (g) Il Sig.r Dn. Pietro Pernecher era un uomo molto esemplare, e semplice, ma Maestro fatto all’antica, pieno di pedantesco. Teneva degli scolari a costo, e per altro giovani grossolani e di montagna.

 

Traduzione: Tal e quale il buon principe restò / imbambolato senza aver né tu né voi [stupefatto], / sentendo risposte più forti dell’aceto / da quel facitore di torte e di brodetti; / e tutto ammutolito, e bloccato fuor di sé, / il rosso germogliava sul volto / a vedersi schermito da un faccione, / che pareva uno scolaro di don Pernecher

 

 

41

Si confus el tirè la conclusiom

            Con se sol dir ad majus a minori:

            Se tant sa dir el pu bisont scotom,

            A pruziom i altri Frai sarà dotori;

            Per el che fata al Cogo promessiom

            De no farghe mai pu sti baticori,

            El lo lissenziè subit da l’udienza,

            E ‘l Cogo corse a ca’ con empassienza.

 

Traduzione: Così confuso tirò la conclusione / dicendosi ad majus a minori  [fra sé e sé]: / se tanto sa dire il più bisunto cuoco, / in confronto gli altri frati saranno dottori; / per la qual cosa fatta al cuoco la promessa / di non far più prendere a loro simili batticuori, / lo licenziò subito dall’udienza, / e il cuoco corse a casa con impazienza.

 

42

E cossì apont sto Cogo vitorios

            El tornè al so convent, e su la porta

            Tuti quei Frati co le mam en cros

            Steva a spetar che nova che ‘l ghe porta;

            Quando po che i sentì ‘l colp enzegnos

            I se messe a criar con voce forta

            Batant le mam : e viva ‘l Cogo, e viva,

            Che ‘l n’ha tirai da la borasca a riva.

 

Traduzione: E così appunto questo cuoco vittorioso / tornò al suo convento, e sulla porta / tutti quei frati con le mani in croce / stavano ad aspettare che novità gli portava; / quando poi ebbero sentito il colpo d’ingegno / si misero a gridare ad alta voce / battendo le mani: evviva il cuoco, evviva, / che ci ha tratto dalla burrasca a riva.

 

 

43

L’istoria è za fenia; ma mi ‘nfratant

            Per coronarla farò come Isopo,

            El qual fa nar i animai parlant,

            E’l tira la moral po subit dopo;

            E dirò, che anca i Grandi minchionant

            I sen fa moche de la zent, e popo (a)

            Na volta o l’altra vegn quel dal formai (b),

            Che i fa restar alochi, o papagai.

 

(a) repetizione usata per dir poi; (b) vegn quel dal formai è nostro modo di dire, volendosi render cauti gli azzardosi colla minaccia, che verrà chi lor farà pagar il fio

 

Traduzione: La storia è già finita; ma io nel frattempo / per concluderla farò come Esopo / il quale fa andar parlando gli animali, / e subito dopo tira la morale; / e dirò, che anche i grandi dileggiando / si fanno beffa della gente, e poi / una volta o l’altra viene quello del formaggio / che li fa restare [come] allocchi, o pappagalli.