Autore: Giorgio Mezzalira

Riferimento: Relazione tenuta in occasione della consegna del Premio della Fondazione Ilse Waldthaler, Bolzano 2007

 

 

INTORNO AL CORAGGIO CIVILE

di Giorgio Mezzalira

 

Questi sono i nostri figli […] a noi, dunque, è sembrato giusto prenderci cura di costoro, per quanto ci era possibile, e di non comportarci come i più, che, quando i figli sono divenuti adolescenti, lasciano che essi facciano ciò che vogliono, ma cominciare fin da ora ad occuparci di loro, per quanto ne siamo in grado. Poiché sappiamo che anche voi avete dei figli, abbiamo ritenuto che voi, se non altri, vi sareste preoccupati di come avrebbero potuto diventare ottimi, se vi foste curati di loro. Platone, Lachete

 

Che cosa significa il termine “coraggio” accanto all’aggettivo “civile”? E, viceversa, cosa significa l’aggettivo “civile” accanto al termine “coraggio”? Come facciamo a riconoscere un atto di coraggio civile da un atto che non lo è?

La risposta a queste domande ci porta a scavare nei significati e anche nella storia passata e presente, alla ricerca più che degli “eroi”, delle diverse declinazioni in cui si è coniugato il coraggio civile. Una ricerca che abbiamo voluto iniziare da un mito, quasi fosse l’origine del significato che stiamo cercando.

 

 

1. Il mito di Prometeo: fu un atto di coraggio civile il suo?

 

Prometeo era un Titano, cioè di quella razza spodestata dal cielo per opera di Giove, e che portò a quest’ultimo e alla sua nuova signoria un rancore eterno. Egli rappresenta la scienza contrapposta alla rivelazione, ma anche il libero pensiero, la ribellione all’autorità costituita.

Egli impastò col fango della terra l’uomo e gli diede vita. Minerva ammirò molto questa sua opera e volle portare in cielo Prometeo perché lassù cercasse ciò che poteva perfezionare anche di più la sua creatura. Lassù Prometeo trovò il fuoco e lo rubò agli Dei per darlo agli uomini. Irritato per questo furto Giove consegnò Prometeo a Mercurio ordinandogli di portarlo sul Caucaso, di attaccarlo a una rupe, tenendovelo legato con catene ai piedi e alle braccia e condannato a vedersi rodere per l’eternità il fegato dall’aquila di Zeus. Il fegato nel mondo classico era la sede dell’ardimento. Del resto, ancora oggi diciamo “che fegato!” per indicare un atto di coraggio o comunque una particolare forma di forza, propria di chi dimostra di avere una buona corazza di fronte a situazioni difficili.

Ma che tipo coraggio fu quello di Prometeo? I Greci parlavano di ybris, termine che è traducibile con insolenza, tracotanza, violenza, prepotenza. Ma il suo significato filosofico riguarda più precisamente l’atto di oltrepassare la misura, la sfrenata insensatezza, l’agire contro gli dei, ma anche contro il logos, la ragione.

 

 

2. Alle radici del termine: tra ybris e coraggio

 

Ma se dunque non è l’ybris greca a cui dobbiamo rifarci per ritrovare il significato del coraggio, a quale altro termine dobbiamo guardare?

Diciamo pure che la parola coraggio richiama sempre nel profondo di noi una qualità un po’ rude, forte, pesante, un sentimento duro, un’esperienza limite. L’immaginario popolare lega il coraggio agli strumenti della violenza, all’addestramento allo scontro, alla capacità di lotta, alla forza nell’affrontare situazioni cariche di rischio. Insomma qualcosa di difficilmente compatibile con l’“avere cuore”, così come invece rimanda l’etimologia del termine “coraggio”: dal provenzale coratge, dal latino volgare coraticum, a sua volta derivato da una forma popolare per cor (cuore) [Dizionario Etimologico, Rusconi ed.].

Qualcosa che ha poco a che fare con la non-violenza.

Diciamo anche che non è solo l’immaginario popolare a farlo. Lidia Menapace – esponente di spicco del movimento non-violento italiano – afferma:

 

Capitano guerre, terrorismo, eventi calamitosi, delitti efferati, le persone temono per la loro sicurezza e chi ha il potere continua a prendere decisioni per "dare sicurezza": espulsioni, invii di armati, deterrenti sociali vari. Siamo circondati di rassicurazioni e la nostra paura cresce, è un sentimento diffuso, incerto, angoscioso. Delitti tremendi (madri che uccidono figli, spesso dichiarando di sentirsi incapaci di gestirli), innamorati assassini, uxoricidi, pirati della strada, incendi di case abitate da poveri immigrati, naufragi, disastri aerei, luoghi di detenzione per persone che non hanno commesso reati (siano prigionieri di guerra, siano clandestini della migrazione), uso della tortura. E su tutto continua a risuonare la voce ardimentosa dei "capi" che vantano la loro durezza, che non prendono in considerazione la resa, continuano nelle violenze. "Vinceremo!", grido insensato che risuona beffardo e ridicolo alla memoria di molti tra noi.

È coraggio? A me sembra piuttosto ybris, la parola greca con la quale gli antichi indicavano una forma di coraggio che sfida la ragione, ama il rischio, vuole la supremazia. Con ybris i greci indicavano un sentimento di superiorità attribuito a chi lancia tali sfide: la radice della parola si ritrova in über, over, sopra, iper: insomma in tutte le lingue indogermaniche il prefisso che regge la parola ybris indica superiorità, sopraffazione, sovranità.

 

Si tratta – come nel mito di Prometeo o come nel racconto della Genesi (Adamo ed Eva che sfidano la conoscenza e vengono cacciati dall’Eden) – di una primitiva idea di giustizia come vendetta e ripristino dell’equilibrio etico attraverso la pena. Ma comunque indica un coraggio che non accetta limiti e provoca una risposta tremenda.

È coraggio quello che non include coscienza del limite, misura della risarcibilità, ripristino dell’equilibrio violato? Prosegue Menapace:

 

A me pare che oggi sia di ragione avere coraggio calcolato, non considerare umano lo sprezzo del pericolo, il disprezzo della vita, il calpestamento della natura, il misconoscimento dei diritti. Tutte funeste espressioni di temerità ybris demenza irrazionalità, cui non riconosco titolo di coraggio, che invece sta nell’affrontare insieme i rischi inevitabili e nel ridurli, nell’intervenire con mezzi non distruttivi, nel rispettare i diritti di tutti e tutte, anche quando essi non vengono riconosciuti.

 

 

2. Il coraggio non è temerarietà, è piuttosto una virtù

 

Tornando alla cultura greca, non c’è solo l’ybris del mito di Prometeo, c’è anche l’andreía (la fortezza o il coraggio), ovvero quella virtù che - accanto a prudenza / giustizia e temperanza – contribuisce a costituire le fondamenta della città ideale di Platone e designano la natura del bene comune.

La nostra città – si legge nella Repubblica – se è stata rettamente fondata, sarà perfettamente buona, e dunque sarà “sapiente, coraggiosa, temperante e giusta”.

Ma che cos’è di preciso il coraggio a cui Platone si riferisce?

Platone definisce la fortezza (il coraggio) come salvaguardia dell’opinione retta e conforme alla legge su ciò che si deve e su ciò che non si deve temere (Rep. 4, 430 b).

Un coraggio che ha quindi molto a che fare con la conoscenza e molto meno – se non per nulla – con la temerarietà.

 

Il tema del coraggio ritorna anche nel Lachete di Platone (dialogo sulla virtù del coraggio): due anziani interrogano i valorosi condottieri su come si debbano educare i figli. Imparare a combattere in armi è adatto o no a dei ragazzi? È la disciplina per eccellenza che conduce alla virtù del coraggio? Se il coraggio è la virtù principale di ogni buon cittadino, i valorosi condottieri dovrebbero saperlo. E invece non ne sanno nulla, perché il coraggio militare non è ciò che serve nell’Atene democratica. Viene infine interpellato Socrate che interpreta il coraggio come coraggio civile e afferma la necessità di educare i cittadini alla democrazia.

Il coraggio, si ribadisce nel Lachete, non è ybris; non è sconsideratezza, ovvero non- considerare, non esaminare attentamente, non dedicare a qualcosa un’accurata riflessione. Il coraggio, ancora, è diverso dall’ignoranza che porta a non avere paura di qualcuno o di qualcosa. Seguiamo due passaggi del dialogo di Platone in proposito. Nel primo è uno dei due valorosi ateniesi che parla, Nicia; nel secondo, è Socrate che si rivolge a Lachete:

 

Nicia: In verità, Lachete, io non chiamo coraggiosi né gli animali né alcun altro essere che, per ignoranza, non tema ciò che è temibile, ma intrepido e stolto; o for-se credi che io chiami coraggiosi tutti i bambini che, per ignoranza, non hanno paura di nulla? Credo che il non aver paura e l'essere coraggiosi non siano la stessa cosa. E credo, inoltre, che in ben pochi risiedano coraggio e prudenza e che anzi nella maggior parte di uomini, donne, bambini ed animali risiedano tracotanza, audacia, intrepidezza accompagnata da sconsideratezza. Ciò che tu e molti altri definite coraggioso, io lo definisco tracotante, è coraggioso, invece, ciò che è intelligente ed è appunto ciò di cui parlo […]

Socrate: […] volevo sapere da te non solo dei coraggiosi che combattono nella fanteria, ma anche di quelli della cavalleria e di ogni altra forma di combattimento, e non solo di quelli che sono coraggiosi in guerra, ma anche nei pericoli del mare e verso le malattie, la povertà, le vicende politiche, il dolore e la paura e di quelli che sono in grado di lottare contro desideri e passioni, sia resistendo sia fuggendo; infatti vi sono uomini coraggiosi anche in queste situa-zioni, Lachete.

 

Il coraggio si iscrive in una funzione di salvaguardia e di difesa che ha a cuore il benessere della collettività così come è garantito dalla legge. Ad assolvere questo compito nella Repubblica di Platone è chiamata la classe dei guardiani: persone particolarmente dotate di coraggio e assolutamente fedeli alla città.

Possiamo dire che anche oggi c’è bisogno di una classe di guardiani capaci sia di fedeltà nei confronti della città che di coraggio civile; capaci cioè di aver a cuore le leggi, le norme che ci siamo dati, che regolano lo spazio del nostro vivere in comune e capaci di vigilare sul pericolo che non siano rispettate, che vengano calpestate.

Considerare il coraggio come una virtù implica non solo essere a conoscenza di un valore generale di riferimento, ma anche sapere che si tratta di sforzarsi di praticarlo. In breve, citando R. Dahrendorf, “le virtù sono valori generali più fatica individuale”.

 

 

3.1. Il coraggio civile

 

L’aggettivo “civile” accanto al termine coraggio indica che non si tratta di atti legati all’ardimento militare, all’audacia, bensì alla responsabilità del “buon cittadino”. Non c’è un nemico da combattere, né un atto di eroismo da compiere, bensì un patrimonio comune di leggi e norme da difendere e rivendicare perché garantiscono la libertà, la giustizia e la democrazia. E, se è vero che il cittadino è chiamato a rispettare le leggi, ovvero all’obbedienza civile, è altrettanto vero che il cittadino ha il diritto di essere governato saggiamente e con giustizia.

Il coraggio civile è una virtù civile; è, come dice Machiavelli, “tenere le mani sopra la libertà”. Per frenare coloro che hanno le mani lunghe ci vuole, oltre alle buone leggi, la virtù civile dei cittadini. Se non ci sono cittadini disposti ad essere vigili, a impegnarsi, capaci di resistere contro gli arroganti, servire il bene pubblico, la repubblica muore, diventa il luogo in cui alcuni dominano e gli altri servono, il luogo in cui domina il “particolare”, di cui parla Guicciardini (l’utile individuale, gli interessi dei pochi).

 

Il coraggio civile non è tanto la volontà di immolarsi per la patria o un atto di coraggio fine a se stesso; è piuttosto la coscienza (nel senso di coscienza e consapevolezza = percezione e azione, coscienza di sé e coscienza degli altri) di avere il diritto/dovere di salvaguardare la propria dignità di persona umana/di cittadino membro di una comunità, contro chi o cosa mette a rischio la libertà, il bene comune.

E quando parliamo di libertà ci riferiamo a una condizione di indipendenza dell’individuo, che non va intesa come la libera uscita da ogni patto o regola che go-verna il vivere civile. Non è liceità: assenza di impedimento (secondo l’idea liberale di libertà).

Semmai, è proprio l’arbitrio che può proliferare in situazioni di mancato rispetto delle leggi – come principi regolatori del buon vivere civile – a rendere dipendenti gli individui dalla volontà – appunto arbitraria – di altri individui, a generare oppressione e forme di schiavitù. Nasce qui la paura nei confronti di persone che hanno o vantano poteri arbitrari. Paura che alimenta atteggiamenti servili, che porta a tacere e ad adulare i potenti. Una condizione di dipendenza incompatibile con lo status del cittadino e che va combattuta – con coraggio civile – denunciandola come atto contro la libertà e rivendicando piuttosto la dipendenza dalla legge – intesa quest’ultima come volontà non arbitraria che si applica a tutti – come condizione di indipendenza dell’individuo.

Coraggio civile, allora, può significare:

- non transigere rispetto a chi o cosa cerca di far prevalere la volontà arbitra-ria;

- assolvere i propri doveri di cittadino e impegnarsi affinché prevalga la giusti-zia, il rispetto delle regole del vivere comune, il bene comune;

- contrastare – secondo le parole di Bobbio – “l’indifferenza e l’apatia politica”.

 

 

4. Le declinazioni del coraggio civile attraverso alcune e diverse testimonianze

 

Come ricordato all’inizio di questo intervento, riteniamo che gli esempi di coraggio civile che ci vengono dal passato e dal presente non vadano ridotti all’immagine dell’eroe che essi richiamano o sembrano richiamare; ci aiutano piuttosto a riflettere sulle diverse forme e sui diversi valori ai quali l’esercizio del coraggio civile può ricondurre. E questo anche nella consapevolezza che, più che di eroi, ci sia bisogno di una “classe di guardiani” che diventi tanto consistente quanto numerosi sono i cittadini di questo mondo. È in questa prospettiva che consegniamo alla vostra attenzione questo piccolo repertorio di atti di coraggio civile.

 

1. Gandhi, ovvero il coraggio civile come coscienza civile

 

Dinanzi ad un tribunale che doveva giudicarlo per un atto di disobbedienza civile disse:

 

Oso fare questa dichiarazione non certo per sottrarmi alla pena che mi dovrebbe essere inflitta, ma per mostrare che io ho disubbidito all’ordine che mi era stato impartito non per mancanza di rispetto alla legittima autorità, ma per ubbidire alla legge più alta del nostro essere, la voce della coscienza.

 

Ovvero la coscienza civile; la coscienza di essere parte di una collettività regolata dal rispetto del bene comune e dei valori di giustizia, libertà, che lo custodiscono. Quindi non solo la coscienza di sé, ma anche coscienza morale.

 

 

2. Paul Camara , ovvero il coraggio civile al servizio della verità

 

Paul Camara , nato nella Sierra Leone, giornalista, vincitore del “The Civil Courage Prize” assegnato da una fondazione di New York.

 

Il giornale For the People fu fondato nel ’83, l’anno dopo la mia laurea. Fin dal primo giorno abbiamo sempre cercato di far si che la nostra pubblicazione fosse un vero giornale nato da un forte senso di umanità, libertà e giustizia. Ironicamente, furono proprio questi valori che mi portarono in prigione nel 1984.

Il mio crimine agli occhi dello stato era quello di dire la verità, che secondo loro sarebbe stato meglio solo sussurrare.

Sono stato in prigione più volte di quanto posso dire e ho visto una moltitudine di prigionieri morire, tante di queste morti a causa di un sistema giudiziario corrotto e manipolato da un regime dispotico. Ho scritto un articolo nel quale paragonavo quella prigione a un silenziatore (di arma) che emette una morte dolorosa e agonizzante ma silenziosa.

 

 

3. Anna Politkovskaja, ovvero il coraggio civile come esercizio di non-violenza

 

Anna Politkovskaja, inviato speciale del quotidiano moscovita “Novaja gazeta” (articoli e reportage sulla guerra del Caucaso), viene assassinata il 7 ottobre 2006. In “Diario russo” riporta il seguente episodio. Lei assiste ad un processo contro aderenti al partito nazional-bolscevico russo, un processo politico inventato di sana pianta per contrastare un’opposizione scomoda con il cui il potere non si vuole confrontare apertamente; e si chiede:

 

Perché assisto al loro processo? Perché ne scrivo, pur non condividendo l’ideologia nazional-bolscevica e pur sentendo del tutto estraneo il modo in cui Limonov (leader del movimento) vorrebbe riorganizzare la società russa?

Perché c’è bisogno di confrontarsi in una discussione aperta. Convinti di essere nel giusto. Bisogna vincere con le parole. E se non ci si riesce, vuol dire che ci si deve preparare meglio. Tertium non datur. La violenza rinfocola l’ideologia.

 

 

4. Ralf Dahrendorf, ovvero il coraggio civile come esigenza di giustizia

 

Secondo Dahrendorf – filosofo e sociologo tedesco – coraggio civile non significa che uno debba essere pronto a partire in guerra per le proprie convinzioni, e tanto meno perché un Führer lo ordina, ma comporta che non si fugga, anzi in talune circostanze si intervenga quando accade che altri subiscono un’ingiustizia.

 

 

5. Svetlana Broz, ovvero il coraggio civile come esercizio di bontà umana e atto disinteressato di carità cristiana

 

Svetlana Broz, nipote del maresciallo Tito, cardiologa, a pieno tempo immersa nella raccolta delle testimonianze dei giusti nelle guerre balcaniche.

 

Una delle caratteristiche dei gesti di coraggio civile mi sembra sia quella di aiutare l’altro per quello che vuol fare e sta facendo sospendendo ogni giudizio su di lui e su quello che sta facendo.

 

 

5. Conclusione

 

In conclusione, se dovessimo cercare tra gli esempi di coraggio civile citati alcune coordinate che ci aiutino a riconoscere quali sono i princìpi a cui quegli atti sono orientati, forse dovremmo rifarci a quelli che per Norberto Bobbio dovrebbero essere i primi doveri del cittadino e dello Stato. Ovvero, rispettivamente, il dovere di rispettare e accettare gli altri; il dovere per lo Stato di perseguire il bene comune e non l’interesse particolare o individuale.

Ci pare di poter dire che sono due grandi questioni, o meglio, due grandi ambiti d’azione dentro i quali esercitare costantemente e in modo responsabile il nostro coraggio civile.

 

 

 

NOTA

Per questo intervento mi sento particolarmente debitore nei confronti di quanto ha scritto Lidia Menapace nei bollettini del Centro di Ricerca per la Pace di Viterbo (sito web in costruzione) e di quanto è contenuto nel saggio di M. Viroli e N. Bobbio, Dialogo intorno alla repubblica, Laterza.