«La storia del cinema si divide in due ere:
una prima e una dopo Roma città aperta.»
Otto Preminger
Mercoledì 11 febbraio 2015
Filmclub – Sala Capitol 1
(Bolzano, Via Dr. Streiter 8/d)
Proiezione di ROMA CITTÀ APERTA
di Roberto Rossellini
nella versione restaurata nel 2013 da: Fondazione Cineteca di Bologna, CSC - Cineteca Nazionale, Coproduction Office e Istituto Luce Cinecittà al laboratorio L’Immagine Ritrovata. Nell'ambito del Progetto Rossellini.
Introduzione:
Ina Tartler (Vereinigte Bühnen Bozen)
Carlo Romeo (storico)
«Il cinema esce per le strade, diventa "realistico", quando elimina una serie di diaframmi rispetto a una sua specificità tecnica [...]. In Roma città aperta il titolo stesso rivela un'apertura inconsueta: la gente, non i borghesi (che vivono nascosti nei loro uffici) ma la gente del popolo, vive all'aperto, nella città. Se il film è la storia di un caseggiato, lo è in quanto quest'ultimo è un microcosmo che sintetizza (come un palcoscenico en plein air) la città intera: le nostre case già sono per Rossellini, nel '45, le nostre strade, e non più degli interni; la vita privata, le storie d'amore, coinvolgendo gli altri, si svolgono alla luce del sole; e la clandestinità della lotta partigiana è una nuova prassi, che passa attraverso i tetti e non si cela nel basso delle cantine»
Adriano Aprà, Rossellini oltre il neorealismo, in Il neorealismo cinematografico italiano, a cura di Lino Miccichè, Marsilio, Venezia 1975.
«[…]Rossellini per Roma città aperta adotta la tecnica del levare, del togliere, come per la scultura su pietra e non quella dell'aggiungere, che è propria dei metalli e che sarà la sua tecnica di lavoro nei film immediatamente successivi come Paisà, Germania anno zero e Viaggio in Italia. Rossellini era perfettamente cosciente di questo suo modo di operare. Confrontando le due scene relative alla morte della Magnani [...], infatti, ci accorgiamo che la scena del film nasce da un semplice, coraggioso e consistente taglio operato sulla sceneggiatura originale [...] e suggerito agli autori dal celebre episodio di un'infuriata della Magnani che si lancia all'inseguimento dell'auto di Massimo Serato, suo compagno di allora.»
Stefano Roncoroni, La storia di "Roma città aperta", Cineteca di Bologna - Le Mani, Recco 2006
«[…] Il terrore, l'attesa di una morte atroce, la perdita della libertà, l'ansia per la sorte dei propri cari, tutto questo è stato vissuto ed espresso dagli artisti e dai poeti che operavano a Roma in quegli anni come un prolungarsi della stagione dei primi martiri dell'era cristiana. La passione di Cristo era il punto di riferimento obbligato per coloro che cercavano di trovare un senso al dolore diffuso all'intorno in un'estensione che sembrava senza limiti. [...]
Ci sono cose che si possono soltanto immaginare; altre invece sono lì sotto gli occhi di tutti e parlano con la loro concretezza immediatamente percepibile. Nelle ultime due inquadrature della sequenza si vede don Pietro, inginocchiato per terra, che tiene tra le braccia il corpo esanime di Pina, mentre il "metropolitano" trattiene Marcello. La prima delle due immagini è un campo medio; la seconda un piano ravvicinato. Anche se nelle due inquadrature non vi è nessuna accentuazione che lascia supporre, da parte del regista, l'intenzione di ottenere particolari effetti visivi, allo spettatore attento non sfugge la dimensione plastica che i corpi di Fabrizi e della Magnani assumono per l'evidenza stessa della situazione nella quale si sono venuti a trovare. Ciò è particolarmente chiaro nella seconda delle due inquadrature, quella ripresa da vicino, che chiude la sequenza. Pochi secondi di verità folgorante. Il corpo di una persona viva sorregge il corpo di una persona morta. L'equivalente moderno del concetto espresso nel gruppo marmoreo della Pietà. Il pensiero va immediatamente al gruppo marmoreo scolpito da Michelangelo […]»
Virgilio Fantuzzi, Riflessi dell'iconografia religiosa nel film "Roma città aperta" di Roberto Rossellini, «La Civiltà Cattolica», quad. n. 3489, 1995.
Non so perché‚ trafitto
da tante lacrime sogguardo
quel gruppo di ragazzi allontanarsi
nell’acre luce di una Roma ignota,
la Roma appena affiorata dalla morte,
superstite con tutta la stupenda
gioia di biancheggiare nella luce:
piena del suo immediato destino
d’un dopoguerra epico, degli anni
brevi e degni d’un intera esistenza.
Li vedo allontanarsi: ed è ben chiaro
che, adolescenti, prendono la strada
della speranza, in mezzo alle macerie
assorbite da un biancore ch’è vita
quasi sessuale, sacra nelle sue miserie.
E il loro allontanarsi nella luce
mi fa ora raggricciare di pianto:
perché? Perché non c’era luce
nel loro futuro. Perché c’era questo
stanco ricadere, questa oscurità
Sono adulti, ora: hanno vissuto
quel loro sgomentante dopoguerra
di corruzione assorbita dalla luce,
e sono intorno a me, poveri uomini
a cui ogni martirio è stato inutile,
servi del tempo, in questi giorni
in cui si desta il doloroso stupore
di sapere che tutta quella luce,
per cui vivemmo, fu soltanto un sogno
ingiustificato, inoggettivo, fonte
ora di solitarie, vergognose lacrime.
Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo
( Lacrime), Garzanti 1961