UN SENTIERO DI MEMORIE DELLA GRANDE GUERRA A LAVARONE

DA CARBONARE ALL’EX COMANDO AUSTRO-UNGARICO,

DALL’OSSERVATORIO DEL MONTE RUST A CARBONARE

 

di Roberto Antolini

 

 

Posto a circa 1000 metri d’altezza, l’Altipiano di Lavarone è un territorio ondulato del Trentino sud-orientale, che sta fra Folgaria a ovest e Asiago a est (altro dolce altipiano, cantato letterariamente da Rigoni Stern: oltre il Passo Vezzena, ormai in Veneto). È limitato a nord e a sud dall’incisione di due scoscesi solchi vallivi: la Valsugana e la Valdastico. Ha avuto con la Storia un impatto traumatico ai tempi della Grande Guerra, soprattutto agli inizi, quando è diventato un tratto caldissimo del fronte italo-austriaco con la Strafexpedition del 1916 (costata la vita in pochi giorni a quasi 250.000 soldati). Era infatti allora marcato da forti austriaci fronteggiati dai forti italiani della zona di Asiago, ed è stato devastato da massicci cannoneggiamenti, e da assalti demenziali. Poi il fronte si è spostato un po’ più ad est, nella zona di Asiago, ed i forti austriaci, feriti dalla gragnuola di colpi italiani ma non rasi al suolo (faranno di peggio i recuperanti del dopoguerra, con le loro demolizioni mirate al recupero delle strutture metalliche), sono rimasti a punteggiare il territorio che li ha un po’ alla volta pacificamente riassorbiti come parte del paesaggio, fra prati e boschi dell’altipiano sempre più battuti da turisti e gitanti dalla domenica. Di quella che un tempo era la temutissima “cintura corazzata degli altipiani” si è salvato il solo Forte Belvedere, per volere del re d’Italia Vittorio Emanuele III, che ha voluto risparmiarlo dalle demolizioni post-belliche, per conservarlo intatto a memoria di quella mostruosa carneficina. Ora, arroccato come allora su uno spalto roccioso a strapiombo sulla Valdastico, è un bel museo, che ha conservato integre le strutture d’un tempo, mantenendo percorribili i cunicoli che collegano le postazioni avanzate al corpo centrale. Visitarlo è una istruttiva lezione di claustrofobia bellica.

 

Forte Belvedere

 

© Fotografia di Roberto Antolini
 

Ma l’altopiano di Lavarone è tutto disseminato dei resti di quella drammatica stagione (un secolo ci separa dall’inizio di quel disastro, da cui è iniziato il declino dell’Europa ed il passaggio dell’egemonia mondiale oltre l’Atlantico), e percorrere i suoi bellissimi sentieri significa incontrarne in ogni dove. Oggi vi indichiamo un anello, percorribile a piedi comodamente in anche meno di 3 ore, che passando su sentieri poco battuti permette di visitare due luoghi straordinari forgiati dagli avvenimenti di quel tempo, e di gettare dall’alto uno sguardo d’assieme sul verdissimo territorio di Lavarone, ed oltre sulle montagne circostanti, da quelle d’Asiago a est fino alle Dolomiti del Brenta a ovest, lontane, al di là della Val d’Adige.

Si parte dal paese di Carbonare, frazioncina del comune di Folgaria, raggiungibile da Rovereto tramite Folgaria e Passo del Sommo, e da Trento tramite Vattaro e Passo della Fricca. Servita anche da pullman di linea da Trento e Rovereto. Da Carbonare seguire per una decina di minuti (a piedi) la SS 349 verso Lavarone, e dopo la prima grande curva tramite la quale vi lasciate il paese dietro le spalle, in località Èlbele raggiungete il primo edificio che vi viene incontro, il Ristorante Giardino. Proprio di fronte al parcheggio del ristorante (indicato anche da un segnale della fermata Trentino-Trasporti), sulla sinistra della strada, parte il nostro sentiero, indicato dalla freccia bianca e rossa “Comando A.U. 33 giro dell’Èlbele”. Il sentiero si addentra fra bosco e radure dominate dall’alta mole rocciosa del Becco di Filadonna, sull’altro lato della valle del Centa, e oltrepassa due edifici rurali.

 

Partenza del sentiero all’Èlbele

 

© Fotografia di Roberto Antolini

Il Becco di Filadonna

 

© Fotografia di Roberto Antolini

Dalla base del sentiero affiorano ogni tanto resti di massicciata che ne rivelano l’origine militare: ci stiamo infatti dirigendo verso quello che era il Comando Austro-ungarico del Fronte degli altipiani, costruito (a protezione dai bombardamenti) in uno spettacolare canyon roccioso, ed il tracciato che stiamo seguendo deve essere quello di una via d’accesso d’allora.

 

Resti di massicciata

 

© Fotografia di Roberto Antolini
 

Si raggiunge rapidamente un bivio: a sinistra si va dritti verso il Comando restando nel bosco a monte della conca dove giace la frazione dei Virti, a destra si passa invece per la frazione, ricongiungendosi poi con il sentiero. Dei Virti, originariamente un semplice maso, al quale si sono aggiunte negli ultimi decenni delle seconde case, rimangono alcuni antichi edifici attraversati da un portico per il quale passava il vecchio Sentiero dell’Ancino (citato dal 1192) che metteva in comunicazione la Valsugana con la Val d’Astico. Il nome della località, che un tempo si scriveva con la w doppia (Wirti), deriva dalla radice di Wirt, cioè taverna nel linguaggio germanico degli abitanti storici dell’altipiano, i così detti “cimbri” (italianizzatisi nel XVIII-XIX secolo).

 

Immagine dei Virti

 

© Fotografia di Roberto Antolini

Oltre il portico, un sentiero delimitato - nella tradizione cimbra - da lastre di pietra porta a tornare sul tracciato della strada ex-militare per il Comando.

 

Lastre a lato del sentiero

 

© Fotografia di Roberto Antolini

Un’altra decina di minuti attraverso il bosco (ad un certo punto svoltare a destra, seguendo la freccia bianca e rossa, e salire un po’) e ci siamo: sulla destra ci si apre inatteso il possente canyon naturale - uno stretto corridoio fra rocce verticali - dentro il quale sono stati ricavati gli spazi del Comando, scavando caverne nella roccia e costruendo sul fondo un edificio sorretto da archi, ancora ben visibili. È forse questo il luogo più intensamente drammatico fra quelli che sono rimasti segnati dal Fronte degli Altipiani. Perché è questo luogo cupo, nascosto fra le viscere della terra, quello in cui più si percepisce la dimensione demoniaca della moderna guerra di sterminio di massa, inaugurata proprio allora. Qui, fra queste rocce sempre umide e coperte di muschi, centinaia di migliaia di soldati (ma anche di vedove, orfani, mutilati, profughi) hanno incontrato il proprio destino, in quella forma di asettica programmazione “tecnica” dell’eccidio che da allora caratterizza la guerra. Tutto ciò ancora alita intorno a questo posto, che ne trasuda. Celato dalle ombre del bosco alla vista di chi passa nei dintorni inconsapevole: bisogna venirlo a cercare.

 

Il Comando Austro-ungarico

 

© Fotografia di Roberto Antolini

Fino ad ora siamo andati in piano. Da qui si procede in leggera salita, ma niente di che: si passa dai 1120 m. del Comando ai 1282 m. dell’ Osservatorio sulla cima del Monte Rust. Continuando oltre il Comando lungo la strada da cui siamo arrivati, si giunge subito, nuovamente, sulla SS 349 per Lavarone. E la si attraversa prendendo dall’altra parte, qualche decina di metri sopra, la continuazione del sentiero, che parte da uno spiazzo ora ingombro di tronchi tagliati.

 

Ripresa del sentiero dopo l'attraversamento della SS 349

 

© Fotografia di Roberto Antolini
 

Si passa poco dopo in un tratto affiancato alla SS 349, e a questo punto vi prospetto due possibilità.

1. Una è quella di tenersi più bassi, procedendo nel bosco a fianco della strada asfaltata (un po’ sotto) pronti a riprenderla all’incontro con i primi edifici di Lavarone, dove si trova l’avvio della strada sterrata ma carrozzabile, e quindi molto comoda, che in una mezz’oretta vi porta all’Osservatorio del Monte Rust. La strada si imbocca subito prima del cartello stradale bianco con il nome dell’abitato della frazione di “Chiesa”, e purtroppo non è indicata da alcuna segnaletica per il Rust, fate quindi attenzione.

 

Imbocco della strada comoda per Monte Rust

 

© Fotografia di Roberto Antolini

Una volta imboccatala siete in una botte di ferro, tranne forse nel punto in cui la strada passa fra costruzioni recenti e la si può confondere per una strada privata, poi salite comodamente in un bel bosco di faggi verso la vetta dell’Osservatorio.

 

Strada per il Monte Rust, che si infila fra case moderne

 

Foto di Roberto Antolini

2. L’altra possibilità è quella di battere una via un po’ più “da cercare” - perché ad un certo punto finiscono le segnalazioni - ma più bella, nel fitto del bosco, e leggermente più lunga. Dal punto in cui ci si affianca alla SS 349 si tiene il sentiero, che sale dolcemente sopra la strada asfaltata.

 

Strada interna per Monte Rus

 

© Fotografia di Roberto Antolini
 

Ad un certo punto però il tracciato si spegne e dovrete orientarvi “a naso” tenendo presente che dovete salire a destra, fra qualche masso roccioso, fino ad incontrare un’altra vecchia stradina che con qualche giravolta e qualche saliscendi raggiunge la strada che scende da Monte Rust verso Carbonare (che useremo al ritorno).

 

Bosco da risalire fra massi rocciosi

 

© Fotografia di Roberto Antolini

Da lì risalite (a sinistra) fino a raggiungere la carrozzabile che sale al Rust da Lavarone. Anche il percorso 2 attraversa un bosco di bellissimi faggi, lungo stradine – quando ci sono - contornate di antichi muriccioli, e ad un certo punto salta fuori una lapide del 1874, intestata ad un certo Francesco Wirti (con la W).

 

Stradine  contornate di antichi muriccioli

 

© Fotografia di Roberto Antolini

Lapide del 1874

 

© Fotografia di Roberto Antolini

Sulla cima del Monte Rust (in realtà un monticello, come abbiamo visto, ma collocato in posizione strategica) trovate i ruderi di un Osservatorio dell’esercito austro-ungarico, dal quale si poteva controllare ogni punto dell’altipiano e soprattutto si poteva comunicare tramite sistemi ottici con tutti i forti austriaci di questo tratto del fronte: i Forti Sommo Alto e Cherle di Folgaria, il Forte Belvedere e quello di Luserna, e in lontananza - a Passo Vezzena - il Forte Verle e l’Osservatorio del Pizzo di Levico.

 

Osservatorio di Monte Rust

 

© Fotografia di Roberto Antolini

Incombente su tutti, ad oltre 2000 m., il forte italiano di Cima Verena, che dall’estremo limite dell’altipiano di Asiago batteva a piacimento i sottostanti forti austriaci, ed erano dolori. Noi oggi possiamo goderci un panorama pacificato, un frusciare di brezze silvestri che smuovono la massa verde del fogliame, la fanno ondeggiare. Ed intorno all’altipiano una corona di monti, cime rocciose e bianche di neve fino alla fine della primavera.

 

Il Becco di Filadonna dall'Osservatorio di Monte Rust

 

© Fotografia di Roberto Antolini

L'aguzza punta del Pizzo di Levico dall'Osservatorio di Monte Rust (sullo sfondo, bianco di neve, l'Ortigara)

 

© Fotografia di Roberto Antolini

Dall’Osservatorio si scende per la stessa strada usata per salire, fino ad un certo punto. Fino al punto in cui si trova un bivio, segnalato dalla solita freccia bianca e rossa, in cui si prende – questa volta – la direzione di Carbonare. Comoda discesa di una mezz’ora per tornare al paese da cui siamo partiti. Se forniti di macchina vale la pena, dopo la passeggiata, fare una visita anche al Forte Belvedere, e se dovete pranzare consiglio il Ristorante Rossi di Luserna (0464.789712), dove si consuma la tipica cucina trentina in un ambiente rimasto invariato dagli anni ’50: un tuffo nelle atmosfere dell’infanzia (o in quella dei vostri genitori).

 

 

LETTURE PREPARATORIE

 

Sui Cimbri, anche se ambientato non proprio a Lavarone ma sulle prealpi vicentine, c’è un avvincente romanzo giallo-gotico di Umberto Matino La Valle dell'Orco (edizione Foschi).

Sulla vita tradizionale degli Altipiani fra Otto- e Novecento rimane insuperato il breve romanzo di Mario Rigoni Stern Storia di Tönle (Einaudi).

Fra le memorie di guerra ambientate in zona consigliamo il superclassico dell’ufficiale italiano e poi (nel dopo-guerra) grande antifascista Emilio Lussu Un anno sull’Altipiano (Einaudi) a cui si è ispirato il film Uomini contro di Francesco Rosi.

Una specifica memoria sulla guerra all’interno dei forti di Lavarone, questa volta quindi vista dalla parte austro-ungarica, è il libro di Fritz Weber Le tappe della disfatta (Mursia).

 

 

 

© Fotografie di Roberto Antolini