Autore: Umberto Tecchiati

Rif. bibl.: “Ho scambiato una ragazza che agitava”, in: Musa ferroviaria, Il Filo, Roma 2009, ISBN 978-88-567-0953-7, pp. 35-37

 

 

La silloge di Umberto Tecchiati si snoda seguendo un percorso molto particolare, dando voce e fermando su carta i pensieri che fuggono durante i viaggi in treno. La maggior pare dei componimenti, infatti, è nata in seguito a spostamenti che l'autore ha compiuto e compie continuamente nell'arco della sua vita. L'intento è chiaro fin dalla copertina, dove sia il titolo che i versi per l'occhiello contribuiscono a dare forma ad uno sfondo "ferroviario", una perfetta anteprima di ciò che sarà il lavoro nel suo complesso. Musa ferroviaria si riferisce alla ispirazione che lo invade e lo segue costantemente nei suoi viaggi, consentendogli di esprimere a parole il fiume ininterrotto di sensazioni.

(dalla prefazione di Paola Santamaria)

 

Umberto Tecchiati è archeologo della Soprintendenza di Bolzano, città dove è nato, nel 1966, e vive. Scrive poesie fin da ragazzo. Musa ferroviaria è la sua prima raccolta.

 

 

Umberto Tecchiati, Musa ferroviaria, Roma 2009

 

Ho scambiato una ragazza che agitava

Il braccio dal predellino per il capotreno

Mi sono scusato, lei ha riso, amaramente:

"Magari, avrei un lavoro". Poi in viaggio

Un viaggio lento sulla cresta scivolosa

Tra il giorno e quel che resta, sotto un cielo

Feroce di viola e definitivo nel nero

Lei piange mentre io leggo senza

Capire Fortini in Ventiquattro voci,

E rimpiango di non avere con me

Una volta per sempre. Sui suoi binari

Il treno cuce una trina di luci

E sferragliare che Villafranca veronese

Unisce a S. Antonio mantovano

Terra di scoli meno bui nel buio incipiente

Placidi e ondiformi, lucidi e distesi.

 

Mi lascio salutare e accogliere

Dalla pianura, Ia mia sarebbe per vero

La bassa che muore sfociando nei torti

Rivi del delta del Po, terra di mio padre

E mio nonno, anime oscure, inessenziali

A tutto questo teatro fuori che a me

E a mia madre. Terra lasciata

Per la fabbrica l'anno millenovecentotrentanove

E ritrovata in guerra, in sella a una bici

Da Bolzano a Rovigo, di notte e senza

Luce ché gli aerei alleati spazzavano

L'argine maestro colle mitragliere.

E da Rovigo a Bolzano, a ritrovare

Il tornio: lui alla Lancia, e il nonno il suo

Alla Magnesio. Quella, sarebbe la mia:

Ma questa non è diversa, è solo

Invischiata nell'umido muschio notturno

Delle porcilaie, è triste di troppe luci

Che suonano l'angoscia della solitudine

E fingono un giorno perpetuo per timore

Della notte, ed è bagnata dalle lacrime

Della ragazza e corre l'anno di grazia

Duemilaotto, il primo di aprile.

 

Mantova, Romanore, il treno è un rosario

Si sgrana a occidente, nel suo calamaio

E ogni nome che tocca splende, come

Il giorno che fu inventato, ed è nuovo

E canta e brilla nel sangue che

Frigge alla nuca di troppa felicità

E gli occhi invetria, lasciandoli di smalto.

 

Vorrei tu fossi qui a respirarla questa piana

Tirata con la livella da un dio geometra

Che il corto orizzonte delle Alpi attedia

E addolora: a fiutare l'adolescenza

Delle siepi che sfiorano la rete metallica

E i muri confinari, presagio del verde trionfo

Estivo che all'aspra canicola il dolore

Delle vive esistenze mescola e confonde.

A sentirti fluire il sangue alle sedi

Recondite della felicità tu pure

Perdendoti come se niente contasse

Al di fuori di quest'aria spessa

Gonfia, diresti, di molta pioggia

E soltanto d'umido grossa e forte

Di stalle e ceppi bruciati a Suzzara

A Gonzaga a Reggiolo. E ora

Caccia col tuo riso Orione, caccia

La cupola coronata di stelle invernali

È tempo di godere, è tempo

Di fecondare la terra al ritmico

Pulsare dei piedi, e cingerti

Di sudore: il tiranno morirà

Contemplando i tuoi occhi che ridono

Il tiranno morirà nel tuo calice

E nella veste che sciogli alla luce, ridendo.