Copertina Cumer

 

Autore: Carlo Romeo

Rif. bibl.: Romeo, Carlo, Il diario interrotto, in: Silvana Cumer, “Tutto è grigio oggi per noi”. Diario di guerra di una quattordicenne, Edition Raetia, Bolzano 2007, pp. 17-31.

 

 

 

Il diario interrotto

 

di Carlo Romeo

 

 

Nulla di speciale nel fatto che una quattordicenne decida un bel giorno di iniziare il “suo” diario. Più interessante è che la ragazza mostri sin dalle prime righe personalità, fantasia, sensibilità e originalità di scrittura. Tuttavia ciò che rende davvero singolare questo diario adolescenziale è il suo arco cronologico: ha inizio il 21 marzo del 1943 e termina l’otto settembre. Lette a posteriori, queste intime pagine acquistano forza evocativa e quasi allegorica. Esse finiscono col comporsi - proprio in virtù del loro brusco interrompersi - in un’involontaria “opera compiuta”; l’abbozzo del “romanzo di formazione” di un’anima partorito proprio nell’anno di massima, storica distruzione.

Il 1943 rappresenta la catastrofe della nazione italiana eretta in vent’anni di regime e retorica fascista. Le sconfitte dell’Asse, in particolare quelle italiane (in Africa, in Russia, sul vicino Mare nostrum) sono ormai percezione diffusa nell’opinione pubblica. Le maglie della censura di guerra non tengono più. Accolti nei campi contumaciali (alcuni dei quali in Alto Adige), i reduci dell’Armir raccontano la vera entità della sconfitta, la disastrosa ritirata nelle steppe ghiacciate, l’inadeguatezza e impreparazione dell’apparato bellico italiano, la fredda brutalità dell’alleato germanico. Nelle scritte sui muri, nei volantini abbandonati sulle strade, nelle battute tra conoscenti fidati (quando ci si sente al riparo da orecchi indesiderati) i veri umori dell’opinione pubblica si manifestano esplicitamente: il crescente malcontento verso la guerra, la sfiducia in Mussolini e l’ostilità verso la Germania, alla cui alleanza viene attribuita la tragica situazione in cui si è cacciato il Paese.

Si diffonde sempre più l’ascolto clandestino di “Radio Londra” che descrive scenari assai diversi da quelli dei bollettini di guerra ufficiali. Occupata anche la Tunisia, le forze Alleate si predispongono a sbarcare in Sicilia. Agli inizi dell’estate comincia una nuova, più devastante campagna di bombardamenti sulla penisola; la guerra è sempre più vicina ed entra nell’angoscia quotidiana con le sirene degli allarmi antiaerei, le corse nei rifugi, gli edifici crollati insieme alle frasi di marmoreo eroismo nazionale incise sulle facciate.

Il diario della quattordicenne Silvana non può che essere letto evocando questo contesto, proprio per la curiosità con cui quest’adolescente cerca di porsi in rapporto col mondo. Il diario registra un rapido processo di presa di coscienza della tragica realtà e il lacerarsi del velo che la ricopriva. È un processo che si indovina forse più profondo di quello che la scrittura può riportare. Esso mette in gioco certezze, convenzioni, punti di riferimento in una fase della vita, quello dell’adolescenza appunto, che di “verità” su se stessi e sugli altri ha una sete inestinguibile. In questa ricerca Silvana non può che usare tutti i linguaggi, le immagini, gli echi di cui è intrisa la sua cultura, quella della scuola di cui è allieva modello; tuttavia compone questi elementi in modo originale, sulla spinta di un’autentica necessità di capire. E fa presto ad accorgersi che i conti non tornano.

Il 6 giugno la guerra fa irruzione, all’improvviso, nel diario. È come se Silvana decidesse di aprire un inevitabile confronto, sino ad allora rinviato: “Voglio scrivere un poco della guerra, quel poco che so, che mi concerne”. La ragazza utilizza i codici interpretativi che il contesto le fornisce, da quello religioso a quello patriottico. Invoca un Dio misericordioso che faccia cessare la guerra in un modo o nell’altro (“Se tu non vuoi che la Vittoria ci arrida, ebbene, dacci, oh, dacci forza nella sconfitta”). Compiange le vittime innocenti dei bombardamenti, soprattutto i bambini. Si sdegna per la cieca violenza dei nemici, indicati con gli appellativi suggeriti dalla stampa nazionale contemporanea (“castiga, castiga i barbari, i miscredenti, gli indegni, coloro che si divertono agli urli ai pianti, dà loro i tormenti spaventosi del rimorso, se non vuoi dare l’inferno”). Si crea in realtà un cortocircuito tra le immagini, le parole mutuate che si ritrova sulla penna e gli interrogativi senza risposta che pone la sua sensibilità. E in lei nasce già la consapevolezza di un’irriducibile complessità; rinuncia ad un facile discrimine tra le parti in causa, fra il torto e la ragione. Le colpe dei padri, prega, non ricadano sui figli. E vi è già un moto di ribellione verso l’ipocrisia collettiva del momento; emerge nell’efficace sarcasmo con cui parla dello slogan “Vinceremo”, fino a poco prima “gridato” da tutti i “galletti spavaldi dell’ultima covata” ed ora parola vuota su manifesti semistrappati, imbarazzante testimone di scomparsi, folli entusiasmi.

Riflettendo in pieno le oscillazioni dello “spirito pubblico” del momento, Silvana prova ad attribuire i mali dell’Italia di volta in volta alla debolezza governativa, all’incapacità e disonestà di chi sta al timone, all’egoismo e ai vizi caratteriali comuni agli italiani. La figura del Duce è per lei ancora “sub judice”; solo, col suo genio, in mezzo ai suoi inetti collaboratori. Eppure proprio dal “Capo” potrebbe avere inizio il crollo: “Che la mia fiducia in lui non crolli! Che non trovi che la magnifica statua di marmo posi su piedistallo d’argilla!”.

La statua crollerà il 25 luglio. Le due notazioni che riguardano l’evento sono indicative della confusa successione di sentimenti, umori, reazioni con cui è accolta la notizia delle “dimissioni” di Mussolini. Inizialmente Silvana crede ad una scelta volontaria, ad una sorta di sacrificio in nome del bene della patria. Non si unisce al coro dei denigratori. Questa ostinata “difesa ad oltranza” - lungi dal caratterizzarsi come giudizio politico - è invece un interessante documento di ribellismo psicologico, diffuso soprattutto tra i giovani. Lo sconcerto destato dalla scomparsa del “mito del Duce” si colloca nell’“implosione” di tutto un apparato/sistema. Insieme al partito fascista si smobilita da un giorno all’altro, senza spiegazioni, senza assunzioni di responsabilità, un intero cosmo di ipocrite finzioni, come se nulla fosse. Agli occhi di un adolescente il mondo degli adulti non sembra più dare garanzie di credibilità.

Dopo il 25 luglio, quasi tutte le piazze d’Italia sono invase da festose manifestazioni, nell’illusione che la caduta del fascismo corrisponda alla fine della guerra. A Bolzano la situazione è apparentemente tranquilla. Le manifestazioni pubbliche sono sporadiche e circoscritte soprattutto al ceto operaio della grande zona industriale, il più politicizzato. Dalla “Bolzano borghese”, in gran parte legata al lavoro pubblico e alla presenza dello Stato, il periodo badogliano sarà vissuto in trepido silenzio, con l’occhio rivolto sia alla preoccupante instabilità delle istituzioni sia alla crescente, minacciosa presenza germanica.

Nel diario di Silvana si affaccia spesso quello che era un sentimento ormai diffusissimo nell’opinione pubblica italiana: l’ostilità alla Germania. Proprio all’alleato teutonico e a Mussolini, che di quell’alleanza era artefice, veniva attribuita la principale responsabilità della guerra. La presenza sempre maggiore delle truppe germaniche che affluiscono verso sud è descritta da Silvana con caratteri di tracotanza. Si tratta di un alleato che soggiogherà e devasterà l’Italia, come un tempo fecero i francesi di Carlo VIII (“Si maledisse Lodovico il Moro; ora chi dobbiamo maledire?”).

In Alto Adige tale presenza è ancor più accentuata. Da più di tre anni la provincia è piena di uffici germanici che si occupano dei sudtirolesi optanti per la Germania in attesa di trasferimento. È comprensibile che questi ultimi accolgano le novità con sentimenti del tutto opposti a quelli della popolazione italiana. Nel diario vi è comunque un solo cenno all’entusiasmo con cui a fine luglio vengono salutate le truppe germaniche: “Le tedesche li accolgono in abito di gala e fanno ogni cosa pur di attirare la loro attenzione e di far cosa loro gradita”. Molto invece Silvana si diffonde sulla minaccia che rappresenta la Germania, riflettendo anche in questo caso i più profondi umori dell’opinione pubblica, che non crede affatto all’autenticità dell’imperativo badogliano “La guerra continua”. I tedeschi sono l’ultimo vero ostacolo sulla via della salvezza/armistizio: “Già, ma con i Tedeschi, gli odiosi Tedeschi, come ce la caviamo? Ora, caduto il Fascismo, nessuno più ci odia. Essi soltanto. L’atavica rivalità è venuta a galla. L’opera di 5 anni non può cancellare quella di 25 secoli. Essi sono i nemici primi, non gli altri”.

Il diario termina nel tumulto di quel tragico otto settembre, con uno stile che sembra abbastanza mutato, un po’ distante dal compiacimento “letterario” delle pagine primaverili: appunti secchi, cronachistici, come per rappresentare la rapida brutalità degli avvenimenti che si accavallano. “Quante cose sono cambiate, mio bel diario, nel corso di due settimane! Devo andare con ordine, perché ci sono tante cose da raccontare che la mia testa scoppia. Avanti, dunque, senza alcuna pretesa letteraria”.

A questa frammentazione cronachistica fa eccezione proprio l’ultima pagina del diario, di straordinaria efficacia, in cui Silvana riprende il tono di una narrazione e riflessione accorate. L’immagine della colonna di alpini catturati e disarmati che procede scortata da tre soli soldati tedeschi è descritta con piena consapevolezza del suo valore simbolico, come l’umiliazione e la fine di una patria/nazione. Eppure anche qui, in questo quadro apparentemente univoco, compare l’elemento che rimanda alla complessità. Il tedesco che guida la colonna non ha l’espressione oltraggiante degli altri, più giovani. Ha un “vecchio viso triste e serio” che le pare persino commosso. È un’impressione fondata? È un’allucinazione? È l’eco di un topos letterario? Poco importa. Per Silvana è forse l’appiglio per un nuovo modo di capire gli uomini e le lacrimae rerum (Virgilio) che accompagnano il breve cammino dei mortali. Il lettore non potrà saperlo. Il diario di un’adolescente cominciato in primavera termina, dopo soli sei mesi, nella sospensione di quell’ultimo “perché?”