Autore: Carlo Romeo

Rif. bibl.: Romeo, Carlo, Il confine sotto attacco. La “Notte dei Fuochi” nella storiografia e pubblicistica italiana, in: “Storia e Regione / Geschichte und Region”, XX (2011), n. 1, pp. 122-134.

 

 

 

 

IL CONFINE SOTTO ATTACCO

LA “NOTTE DEI FUOCHI” NELLA STORIOGRAFIA

E PUBBLICISTICA ITALIANA

 

 

 

 

Tra diplomazia e ordine pubblico

 

In questo breve intervento cercherò di presentare gli aspetti fondamentali della ricezione in campo italiano della Feuernacht e più in generale del fenomeno terroristico in Alto Adige/Südtirol degli anni Sessanta. (1)[1] In ambito storiografico non vi sono a tutt’oggi sull’argomento specifico opere di ampiezza paragonabile a quelle uscite in area tedesca (Baugartner/ Mayr/ Mumelter 1992, Steininger 1999, Peterlini 2011). Per questo gran parte della ricezione può essere ricostruita solo attraverso fonti pubblicistiche e memorialistiche.

Generalmente l’immagine che della Notte dei fuochi viene presentata è quella di una forte cesura nella discussione sulla questione altoatesina. Eppure non va dimenticato che l’attenzione sulla situazione locale, anche a livello di ordine pubblico, si era già fortemente destata dagli anni precedenti. Questo vale sia per la pubblicistica locale, rivolta al gruppo italiano in provincia, sia per quella nazionale.

Sin dalla metà degli anni Cinquanta, l’intervento diretto dell’Austria, tornata pienamente sovrana (1955), aveva posto in allarme l’Italia a livello diplomatico. Nell’ottobre 1956 l’Austria aveva presentato il memorandum in cui chiedeva l’autonomia regionale per il Südtirol, l’effettiva parificazione della lingua tedesca, l’uguaglianza di diritti nell’accesso al pubblico impiego; la limitazione dell’afflusso italiano in provincia. L’inasprimento della crisi nei rapporti diplomatici era stata segnalata dalla stampa nazionale in tutti i suoi sviluppi, fino al clamoroso ricorso all’ONU del 1960.

A livello di cronaca politica regionale, la tensione era cresciuta attorno all’interpretazione dell’art. 14 dello Statuto fino alla sentenza della Corte Costituzionale del 1957, sfavorevole alla SVP. Il “Los von Trient” del novembre 1957 aveva riassunto e icasticamente rappresentato i motivi del malcontento sudtirolese. La grande adunata era riuscita a ottenere una notevole considerazione anche sulla stampa nazionale, che l’aveva dipinta a foschi colori e con grande preoccupazione come manifestazione di un crescente spirito di anti-italianità, foriera di sviluppi negativi nel clima della regione.

Parallelamente agli sviluppi della controversia diplomatica e politica, a partire dal 1956 la stampa aveva cominciato a segnalare una serie sempre più incalzante di episodi che esprimevano l’innalzamento del livello della tensione tra i gruppi etnici, con manifestazioni contrapposte e che spesso degeneravano sotto il profilo dell’ordine pubblico. Tra gli episodi grandi e piccoli che tenevano accesi i riflettori della stampa vanno ricordati almeno il processo ad Egon Mayr, il giovane ferroviere austriaco condannato per la diffusione di volantini che inneggiavano all’autodeterminazione, il processo ai cosiddetti “Pfunderer Burschen” (i giovani della Val di Fundres) per l’omicidio del finanziere Raimondo Falqui, nonché i primi attentati di questa fase (dal settembre 1956); quelle per intenderci del “gruppo Stieler”.

 

Alle soglie della Feuernacht il gruppo italiano a Bolzano era socialmente e politicamente variegato, ma sotto il profilo dell’informazione vi dominava fin dal dopoguerra il monopolio del quotidiano “Alto Adige”. Esso guidava in senso nazionale l’opinione pubblica appellandosi alla necessità di un’unità sovra-ideologica e sovra-partitica del gruppo italiano. Al vertice del Consiglio di amministrazione sedeva Angelo Facchin, appartenente all’ala più “nazionale” della Democrazia Cristiana e che era stato il deputato “italiano” dell’Alto Adige dal 1948 al 1958. Numerose erano state le prese di posizione del giornale riguardo alla politica dell’SVP, soprattutto dal 1957 in poi, presentata come una mirata strategia per indebolire il gruppo italiano in provincia.

Ricorrenti erano stati gli interventi a difesa delle ragioni nazionali da parte di Renato Cajoli, sotto lo pseudonimo di “Civis” (Cajoli 1958) e di Mario Ferrandi, ex direttore della “Provincia di Bolzano” in epoca fascista (Spectator 1959). Dal 1955 direttore del quotidiano, sostanziosamente finanziato da parte governativa, era Albino Cavazzani.

Eppure questi anni segnarono anche l’inizio dello scontro, all’interno della Democrazia Cristiana, tra la corrente “Primavera” (fortemente nazionale) e la cosiddetta “Corrente di base”, interessata a un approccio completamente nuovo sull’autonomia. A quest’ultima faceva riferimento, tra gli altri, Lidia Menapace, che in diverse occasioni espose la convinzione della necessità di un allargamento dell’autonomia provinciale. E va pure sottolineato che dal 1958 il ruolo di deputato “italiano” dell’Alto Adige fu rivestito da Alcide Berloffa, che segnò una netta cesura rispetto ai precedenti mandati di Facchin.

 

 

Il difficile dialogo

 

Tutto ciò aveva prodotto in quegli anni una notevole pubblicistica in campo italiano. Da un lato, si trattava di presentare e controbattere le tesi austriache (ISPI 1957), dall’altro di destituire di ogni fondamento le motivazioni del malcontento sudtirolese in un’ottica assai simile a quella delle pubblicazioni del 1946/47, con ampi rimandi alle rivendicazioni storiche dell’italianità della provincia (Battisti 1957).

Non mancavano, come in questo caso (De Kassel 1957), spunti nuovi relativi al quadro internazionale. Ci si appellava al nuovo ruolo che la frontiera del Brennero aveva assunto con l’istituzione della NATO nella prospettiva della “guerra fredda”. La tesi avanzata era che il mondo comunista avrebbe approfittato della ridiscussione della frontiera del Brennero da parte dell’Austria (“involontaria alleata”) per indebolire gli assetti dell’Europa Occidentale (“L’occidente deve fermare l’Austria dal portare il problema di Bolzano davanti alle Nazioni Unite […] Fermando l’Austria l’occidente ferma la Russia”)

 

Va comunque sottolineato come già in questa fase siano presenti tentativi di analisi abbastanza equilibrate e aperte alle ragioni dell’altra parte. Il libro Problemi dell’Alto Adige, scritto nel corso del 1956 dall’allora giovanissimo giornalista meranese Palmiro Boschesi, esprimeva una chiara presa di posizione verso gli atteggiamenti di chiusura del governo italiano; ad esempio la negazione dell’esistenza stessa del problema altoatesino con cui Tambroni aveva indignato l’opinione pubblica sudtirolese nel discorso in occasione dell’inaugurazione della Fiera di Bolzano (15 settembre 1956). L’analisi di Boschesi segnalava una netta distanza generazionale con vecchie argomentazioni di tipo nazionalistico: “i discorsi, poi, su di una effettiva documentazione dell’italianità dell’Alto Adige, in politica hanno un’importanza assai limitata. Il politico non discorre di questo. Il politico è preoccupato dalla situazione odierna, quella di fatto”. L’obiettività dello studio si rivelava nell’analisi delle dinamiche che lungo gli anni Cinquanta avevano accresciuto la tensione: la controversia sull’articolo 14; la campagne stampa delle rispettive “marce della morte” (del gruppo tedesco e di quello italiano), i colpevoli ritardi della politica e burocrazia italiana. “Abiurando qualsiasi forma di faciloneria, occorre garantire alla popolazione tedesca che i suoi diritti sono e saranno effettivamente osservati; cosa molto difficile (…) perché, in ambedue i gruppi, serpeggiano certe velleità estremistiche che possono distruggere tutto” (Boschesi 1957).

Non mancavano poi sulle testate nazionali i commenti di inviati e osservatori di grande preparazione e acutezza, che presentavano le ragioni del dialogo cercando di contrastare le “sirene nazionalistiche”. Tra questi ricordo Umberto Segre, che per quotidiani e riviste come “Il Giorno” e “Il Ponte” scrisse corrispondenze dall’inizio degli anni ’50 alle soglie del “Pacchetto”. Segre, che conosceva bene l’Alto Adige per avervi insegnato negli anni Trenta e per successive, regolari frequentazioni, sarebbe stato uno dei più attenti commentatori in Italia dell’escalation innescata dagli attentati. In generale, i suoi interventi sottolinearono negli anni con grande chiarezza gli aspetti fondamentali della questione: l’incomprensione anche di profilo “culturale” da parte della tradizione politica italiana nei riguardi delle istanze autonomistiche sudtirolesi; l’esigenza di distinguere tra gli iniziali attentati di tipo simbolico e dimostrativo e la successiva campagna di terrorismo strategicamente pianificata; il rischio che la violenza riducesse i margini di manovra della politica (Segre 2007).

Esistevano anche voci isolate ma autorevoli, come quella del questore di Bolzano Renato Mazzoni (presente nel capoluogo già dal 1947). La sua ormai famosa lettera al Ministro dell’Interno (17 marzo 1957) seguiva l’invito ad esporre “senza reticenze e per intero” la propria opinione in merito al peggioramento della situazione altoatesina. Essa esprimeva tutta la sua amarezza per le responsabilità e la scarsa sensibilità da parte dei dirigenti italiani verso i problemi rimasti ancora aperti.

 

“In questa sua opera anticulturale e antistorica la classe dirigente trentina ha provato potenti alleati nei circoli nazionalisti alto-atesini, annidati in tutti i partiti e con particolare potenza nella Democrazia Cristiana, e nell’apparato burocratico dello Stato, ad ogni livello a Roma come a Bolzano. Non va sottaciuta nemmeno l’opera deleteria della stampa (…) Fatale è stato quindi che il gruppo etnico tedesco si sentisse tradito nelle sue aspirazioni ad una vera autonomia e che quindi facesse risuonare lo slogan ‘Los von Trient’. Si badi bene che ‘Los von Trient’ non vuole ancora dire ‘Los von Rom’ se con alta intelligenza politica si vorranno riannodare i fili del dialogo e ricondurre tutto il problema nella sua naturale sede che è una profonda revisione dello statuto che dia certezza legislativa e amministrativa alle aspirazioni della minoranza etnica tedesca e che nel contempo secondo giustizia e non con ‘italica furberia’ assicuri l’avvenire anche agli italiani dall’Alto Adige e ai loro figli in una rinnovata pace etnica e sociale”. (Mazzoni 1989)

 

Qualche mese dopo, subito dopo la manifestazione di Castelfirmiano (17 novembre 1957), Mazzoni fu messo a disposizione del Ministero e poi trasferito a Treviso. Nel dicembre 1958 si tolse la vita.

 

 

Le reazioni dopo la Feuernacht

 

La Feuernacht fu ovviamente accolta con grande clamore e indignazione sia sulla stampa nazionale che locale. Fin dai titoli, “razzismo”, “intolleranza etnica”, “nazismo” furono subito i termini maggiormente richiamati come matrice ideologica degli attentati. L’atteggiamento prevalente nei commentatori e opinion maker fu di allarme verso gli aspetti più oscuri e inquietanti dell’odio etnico che l’azione terroristica sembrava rivelare. In questo senso, la reazione emotiva successiva alla Feuernacht favorì generalizzazioni che rischiavano di “far tornare indietro” la già confusa percezione delle richieste sudtirolesi. Infatti, anche le richieste di autonomia speciale per la provincia di Bolzano, delle quali si discuteva da qualche anno, rischiavano di assumere un “colore” particolare. Cercando di interrompere il dialogo italo-austriaco (cioè impedendo con richieste “massime” il raggiungimento di compromessi entro il quadro costituzionale), gli estremisti sudtirolesi avrebbero voluto “declassare la popolazione italiana nell’Alto Adige al rango di una minoranza appena tollerata. Così quelle che ora sono aberrazioni grottesche di singoli o di gruppi diventerebbero norme generali e codificate: opposizione ai matrimoni misti, separazione dei bambini dei due gruppi etnici nelle scuole e nelle chiese e anche, magari, attuazione della famosa proposta di costruire nelle nuove case popolari due scale, una per gli italiani e l’altra per i sud-tirolesi” (Vegas 1961). Il ricorso ad un uso così sproporzionato della violenza terroristica veniva giudicato come espressione virulenta di un indomabile revanchismo pangermanista, di spirito antieuropeo e antidemocratico. Si invocava quindi da parte del governo un atteggiamento di rigore e resistenza a ipotesi di cedimenti. Anche la posizione dell’Austria veniva presentata come notevolmente indebolita a livello internazionale. Si invocò subito la necessità da parte del governo italiano di pubblicizzare il quadro completo degli atti irredentistico-terroristici dal 1956 e delle responsabilità, dirette e indirette, di azione e di omissione, del governo austriaco. Per l’Austria sarebbe stato più difficile d’ora in poi ricorrere alle Nazioni Unite contro l’Italia. Da un punto di vista politico, considerate le pregiudiziali austriache, si invocava quindi l’assunzione da parte italiana di un’iniziativa propria; la questione tornava ad essere un affare interno italiano. “Il governo italiano ha dunque via libera – e farà bene a infilarla al più presto – per attuare, nell’esercizio della sua indiscutibile e indiscussa sovranità, ogni provvedimento utile a soddisfare quanto ci sia di giusto e di ragionevole nelle domande della popolazione alto-atesina di stirpe tedesca” (Salvatorelli 1961).

 

Com’è noto, l’iniziativa italiana fu presa direttamente dal ministro degli interni Mario Scelba con l’insediamento, nel settembre 1961, della “Commissione dei 19”. Presieduta dal socialdemocratico Paolo Rossi, essa avrebbe lavorato in condizioni difficili (soprattutto a causa degli attentati, tra tensioni, rotture e riavvicinamenti italo-austriaci), portando nel 1964 al risultato di una base molto precisa di proposte. Quest’ultima avrebbe costituito in sostanza il fondamento di discussione del futuro “Pacchetto”, la soluzione politica alla quale spingevano gli sviluppi internazionali e nazionali. Nel discorso di insediamento della Commissione, ripreso estesamente dalla stampa nazionale, Scelba ribadiva che la “voluta drammatizzazione delle condizioni di vita della minoranza di lingua tedesca, non giustificata dai fatti, il ricorso all’appoggio straniero e la denunzia della controversia al Foro internazionale, avevano contribuito consapevolmente o inconsapevolmente a fomentare l’azione terroristica”. Il carattere di “misura interna” dello Stato e l’immutabilità della posizione assunta dal governo sul piano internazionale (e cioè sulla tesi dell’adempimento dell’Accordo di Parigi) avrebbe compensato “la legittima preoccupazione che eventuali modifiche, quali che fossero, non appaiano come un cedimento ai violenti, col risultato di renderli ancora più baldanzosi”.

 

A livello locale la reazione più appariscente fu l’appello a una più forte presenza dello Stato. Le immediate misure prese dal governo furono salutate come un ritorno del “filo diretto” tra Roma e Bolzano. Il clima di emergenza nazionale favorì la polemica (sempre accesa sul quotidiano “Alto Adige”) verso i rappresentanti politici italiani altoatesini – accusati di eccessivi compromessi con la SVP– e soprattutto verso quelli trentini a cui in un certo senso Roma aveva “delegato” la tutela degli italiani dell’Alto Adige. “Non sono intrusi gli italiani dell’Alto Adige” fu il primo messaggio che il ministro degli interni Scelba fece giungere a Bolzano.

Gli umori bolzanini si evincono compiutamente dall’intervento che il direttore del quotidiano “Alto Adige” Albino Cavazzani pronuncia al “Convegno di emergenza sull’Alto Adige”, tenutosi a Roma nel settembre 1961. Questi i punti principali dell’intervento.

-          La crisi avrebbe preso il via con il raduno di Castelfirmiano. La dirigenza SVP sarebbe finita nelle mani di oltranzisti guidati dal segretario Stanek e la Giunta Provinciale avrebbe lanciato una politica di sempre maggiore discriminazione razziale e di oppressione del gruppo italiano.

-          L’amministrazione provinciale avrebbe dato prova quindi di usare in funzione anti-italiana i poteri che l’autonomia le ha destinato. Si citava ad esempio la legge sulla tutela del paesaggio di Alfons Benedikter che avrebbe “imbavagliato e soffocato con cavilli legali la vita di un Comune, preferibilmente a maggioranza italiana” (Cavazzani 1961).

Nello stesso convegno romano un Comitato Italiano di emergenza, nato a Bolzano subito dopo la Feuernacht, esprimeva la paura del gruppo italiano per i cedimenti politici avvenuti sin ad allora. Le cause individuate erano l’impreparazione, la disinformazione e gli interessi partitici che avevano prevalso su quelli globali e nazionali. Anche in questo caso procedo con una breve sintesi.

-          Dopo lo scioglimento dell’Ufficio Zone di confine, l’azione governativa nei confronti della difficile provincia di Bolzano si era “frantumata” nelle mani di numerosi dicasteri e quindi si era indebolita.

-          Il governo avrebbe dovuto rifiutare come interlocutori gli elementi più oltranzisti.

-          Il gruppo italiano soffriva il problema della rappresentanza politica: mentre il gruppo linguistico tedesco contava 3 deputati e 2 senatori, quello italiano aveva un solo deputato. Si chiedeva quindi la creazione di una circoscrizione elettorale limitata all’Alto Adige con almeno due seggi alla Camera e uno al Senato riservati al gruppo italiano.

-          Si sarebbe dovuto trasferire a Bolzano il Commissariato del Governo.

-          Si sarebbero dovute difendere le autonomie dei Comuni (soprattutto quelli con forte presenza italiana) dallo “strapotere” della Provincia.

-          Nelle scuole tedesche si sarebbe dovuto vigilare sul pericolo di propaganda anti-italiana. Si sottolineava infatti la presenza tra gli autori degli attentati insegnanti elementari e medi.

-          Si sarebbe dovuta fondare un’università a Bolzano come “contraltare alla palestra di odio antiitaliano di Innsbruck”.

-          Da un punto di vista economico, al tentativo di accerchiamento di Bolzano da parte della politica SVP, si sarebbe dovuto rispondere con iniziative industriali “tecnicamente funzionali, economicamente sane” che consolidassero nel numero e nella forza la popolazione italiana.

-          Occorreva impedire che la provincia mettesse “le mani sugli uffici del lavoro”.

-          Si sarebbe dovuta revocare la cittadinanza italiana a quei rioptanti rivelatisi “infedeli allo Stato”.

 

Riguardo al dibattito pubblicistico successivo alla Notte dei Fuochi, è facile concentrarlo in pochi esempi emblematici di una produzione che durerà lungo tutti gli “anni delle bombe”. Da un lato, si assiste alla riproposizione di argomentazioni di tipo “difensivo” mirate a informare il pubblico italiano circa i reali termini del problema (ovvero circa l’insussistenza dei motivi di malcontento verso l’adempimento dell’Accordo di Parigi). Non a caso queste pubblicazioni sono spesso curate da esponenti di vecchia generazione, presenti sulla scena altoatesina da diversi decenni. Il volume più organico in questo senso è senz’altro Battisti, Vacante, Cajoli 1961. Sempre nell’immediatezza della Feuernacht comparve il volume L’Alto Adige fra le due guerre dell’agenzia di informazioni per la stampa diretta da Giuseppe Mastromattei, che era stato prefetto a Bolzano negli anni Trenta (Ics 1961). In esso veniva riservato notevole spazio alle “opzioni” del 1939 e al coinvolgimento del gruppo sudtirolese nell’ideologia nazionalsocialista.

Dall’altro lato, va sottolineata l’organizzazione da parte della casa editrice “Il Mulino” di Bologna di un Convegno internazionale a Bolzano (novembre 1961). Tra i protagonisti vi furono Lidia Menapace, Luigi Pedrazzi, Renato Ballardini, Silvius Magnago, Armando Bertorelle. L’importanza di questo convegno risiedette nello sforzo di “sospendere” la questione sudtirolese dalla “cronaca delle bombe”, dalla dimensione terroristica e militare, per analizzarla in un quadro politico e diplomatico (Il Mulino 1962). Da ricordare, inoltre, la pronta uscita dell’importante volume di Edio Vallini e Paolo Alatri su La questione dell’Alto Adige (Vallini/ Alatri 1961).

Vi è in generale da registrare nel dibattito locale la diffusione, a partire dall’autunno del 1961, di una nuova disponibilità al dialogo. Il quotidiano “Alto Adige” aprì una rubrica di interventi (“Tribuna libera”) offrendo la parola anche a voci verso le quali era stato assai critico. Tra le iniziative a livello locale, si colloca in questo periodo l’inizio delle equilibrate “cronache politiche” di Claudio Nolet (tuttora in corso) sulla rivista “Il Cristallo”, nata qualche anno prima per opera del Centro di Cultura dell’Alto Adige (Nolet 1981).

 

 

“guerra” e informazione

 

La reazione più immediata e visibile dopo la “Notte dei fuochi” fu la militarizzazione del territorio e l’applicazione di provvedimenti di emergenza. Tra questi, l’invio di diverse migliaia di unità tra carabinieri, militari, finanzieri e forze di P.S., l’introduzione del coprifuoco in prossimità di determinati obiettivi (che causò subito alcuni incidenti con un paio di morti), l’obbligo del visto per l’entrata in Italia etc. Le nuove unità arrivate in Alto Adige diedero l’idea di essere impiegate come forza di penetrazione in territorio nemico. Di fronte a questa “dimostrazione di forza” da parte dello Stato, la stampa italiana si mostrò compatta nel presentare queste misure come necessarie e inevitabili. Solo successivamente, negli anni delle stragi, si sarebbero registrate critiche di approssimazione e superficialità nei confronti delle tattiche di impiego delle forze e dei mezzi in un territorio particolare come quello altoatesino.

In generale, la solidarietà nazionale nei confronti dell’impegno dello Stato contro la sfida terroristica fece passare in secondo piano diverse questioni relative all’ordine pubblico. Un esempio di come la polarizzazione etnica portasse inevitabilmente a un ottundimento dello spirito critico fu senz’altro la lunga vicenda dei maltrattamenti denunciati dagli arrestati. A partire dalla metà di luglio, infatti, era cominciata l’ondata di arresti che aveva annientato la rete del Bas sudtirolese. La morte di due detenuti, che erano tra i denuncianti, sembrò per un attimo destare sconcerto anche in qualche settore dell’opinione pubblica italiana. Tuttavia furono poche le voci in campo italiano che avanzassero qualche interrogativo in merito. In Alto Adige, avanzare dubbi sull’operato delle forze dell’ordine poteva essere stigmatizzato come un indebolimento del necessario spirito di coesione nazionale. I risultati ufficiali delle indagini, che escludevano nella morte dirette responsabilità delle forze dell’ordine, non portarono in realtà a nessuna distensione. In occasione del processo ai dieci carabinieri accusati (Trento, agosto 1963) la stampa nazionale, con poche eccezioni, si uniformò alla versione più comoda, ovvero quella di denunce totalmente mirate e strumentali. La sentenza, uscita in un clima di grande pressione ambientale, di fatto mandò assolti gli imputati (con due amnistie), anche se, letta “in controluce”, non negava in toto gli episodi. L’applauso del folto pubblico presente alla lettura della sentenza, l’euforia e il trionfalismo con cui la stampa presentò l’innocenza degli imputati come totale vittoria delle tesi difensive finirono con l’esacerbare la reazione in campo tedesco.

 

Un accenno almeno va fatto riguardo al ruolo in questo periodo della Chiesa locale, seguita con molta attenzione dai media italiani. Nel febbraio 1961 il vescovo di Bressanone Josef Gargitter era diventato anche amministratore apostolico della diocesi di Trento, subentrando a Carlo de Ferrari. Gargitter sarebbe divenuto una delle figure di riferimento nel contesto delle tensioni etniche. Le sue lettere pastorali tornarono spesso sul “nocciolo” della questione etnica. Fu in quegli anni che venne elaborata anche a livello teologico la particolare vocazione della futura diocesi trilingue di Bolzano-Bressanone. Drastica fu la sua condanna della “Notte dei Fuochi”, soprattutto del tentativo di strumentalizzare la Festa del Sacro Cuore in senso etnico. D’altro canto, Gargitter fu anche colui che, con decisa presa di posizione, invocò la necessità di far chiarezza in merito alle voci di maltrattamento degli arrestati. Egli inoltre sarebbe stato il protagonista della “svolta” del 1964, quando la ridefinizione dei confini diocesani tra Trento e Bressanone fece coincidere i confini delle due diocesi con quelli delle due province. Ciò venne letto come un chiaro messaggio alla politica.

 

 

Il monte e la città: immagini del terrorismo sudtirolese

 

Quali furono le immagini e i modelli interpretativi che del terrorismo in Alto Adige si diffusero in Italia negli anni Sessanta? Sull’onda delle forti emozioni suscitate dalla crescente ondata di attentati si elaborò in campo pubblicistico l’immagine di una vera e propria “guerra”. Una guerra contro un nemico caratterizzato da un forte legame col territorio, nel quale poteva contare su un retroterra disposto, se non proprio ad appoggiarlo direttamente, almeno a coprirlo. Più volte il termine “omertà”, reso di comune utilizzo nelle contemporanee inchieste sulla mafia, tornò anche a proposito della situazione altoatesina. Il “nemico”, nascosto in “valli impenetrabili”, era pronto non solo a danneggiare i segni della presenza dello Stato all’interno del territorio che conosceva bene, ma anche a compiere incursioni al di fuori di esso, sconvolgendo con l’esplosivo la quotidianità urbana e colpendo i simboli della modernità.

Le inchieste giornalistiche sull’Alto Adige di questo periodo tendono a rimarcare la distanza tra i due mondi: quello contadino, “feudale”, gelosamente arroccato nelle sue tradizioni, folklore, riti e valori ormai anacronistici e quello cittadino (italiano) portatore di sviluppo industriale, tecnologico, economico. Diversi servizi ruotano intorno ai costumi e agli istituti sudtirolesi (come il “maso chiuso”) che rappresentano icasticamente l’irriducibilità di questa comunità alle ragioni del progresso. “Il movimento altoatesino è anche la difesa del monte, della foresta, del ‘maso chiuso’, della vita patriarcale, della consuetudine contro l’industria, contro la legge scritta dei grandi Stati, contro il costume che tende ad avvicinare tutti i popoli. Naturalmente sono in piccolo numero i teorizzatori, i fanatici, gli arrabbiati. Ma hanno motivi sentimentali cui solo pochi hanno il coraggio di reagire. Non è facile attaccare certi tabù” (Jemolo 1961).

Solo col primo processo di Milano (1964) si avvertì un certo cambiamento nella percezione. Il pubblico italiano vide “sfilare” per la prima volta “a volto scoperto” gli attentatori, presentati sino ad allora in forme confuse (perlopiù come irriducibili nazisti). Gran parte dei commentatori ne misero in luce caratteri di semplicità contadina in stridente contrasto con i cliché sul terrorismo. Fu il momento più “politico” di Sepp Kerschbaumer (proprio lui che aveva combattuto la politica). La sua figura suscitò una certa curiosità e quasi simpatia per la dignità con cui si assumeva in pieno le proprie responsabilità (alleggerendo la posizione dei suoi più giovani compagni) e coglieva l’occasione del processo per presentare la situazione altoatesina. Pur nella condanna dei metodi di lotta intrapresi, gli fu riconosciuta dalla stampa l’attenuante di non aver mai voluto colpire vite umane. Il processo sembrò corrispondere a un momento di distensione (Gandini 1995). La “Commissione dei 19” aveva appena terminato i suoi lavori e la soluzione politica sembrava a portata di mano.

Invece la fase più cruenta degli attenti cominciava proprio allora. E la stampa fu costretta a riprenderne il racconto negli episodi più tragici e clamorosi, quelli del terrore diffuso, come gli attentati alle stazioni, ai treni, e quello delle stragi (Malga Sasso, Cima Vallona etc.).

Nel corso degli anni Sessanta si registra, nella ricezione pubblicistica del terrorismo sudtirolese, anche un suo netto e crescente passaggio a una dimensione di pura cronaca criminale, ambito privilegiato di inchieste di tipo sensazionalistico: interviste a latitanti, rivelazioni di trame occulte in stile “spy story”, collegamenti con il terrorismo internazionale. Famose sono rimaste le inchieste di Vittorio Lojacono per “La Domenica del Corriere” (Lojacono 1968) o di Gianni Roghi per “L’Europeo” (Roghi 1964; 1965). Questa specie di “spettacolarizzazione” è in parte cercata dagli stessi protagonisti delle azioni terroristiche. In altre parole, si verifica talvolta una convergenza di interessi tra la strategia di autorappresentazione dei terroristi e la sete di sensazionalismo da parte dei mass media.

Un ulteriore riflesso di questo fenomeno è l’immediata fortuna riscossa dagli appellativi che la stampa utilizza per rendere riconoscibili e “interessanti” da un punto di vista giornalistico i personaggi e i gruppi: “Klotz, il martellatore della Val Passiria”, “I quattro bravi ragazzi della Valle Aurina” (Siegfried Steger, Sepp Forer, Erich Oberleitner, Heinrich Oberlechner) etc.

Come immagine estrema della divaricazione tra immaginario e realtà a cui poteva portare il sensazionalismo, valga la copertina di questo numero di “Kriminal”, uno dei primi fumetti noir in Italia, dal titolo “Terrore in Alto Adige” (Magnus/ Max Bunker 1967).

 

 

Feuernacht e servizi segreti

 

In conclusione, questa rapidissima carrellata non può che accennare a un momento importante in cui la Feuernacht del 1961 tornò alla ribalta della discussione politica e pubblicistica nazionale. All’inizio degli anni Novanta, la Commissione Parlamentare di inchiesta sulle cause della mancata individuazione delle stragi raccolse alcune risultanze da diverse inchieste giudiziarie che coinvolgevano direttamente l’operato dei servizi segreti italiani in Alto Adige dagli anni Sessanta in poi (ovvero fino alla “seconda ondata” terroristica degli anni Ottanta). Tra queste, limitandoci alla prima fase, suscitarono grande interesse e clamore due pagine del 1965 delle annotazioni (cosiddetti “diari”) del generale Manes all’epoca vice-comandante dell’Arma dei carabinieri; in esse si indicava che “molti attentati in Alto Adige furono simulati dal Contro Spionaggio”. Oppure le dichiarazioni dell’allora capitano (poi colonnello) Amos Spiazzi, che riferiva di aver arrestato in Val Sarentino nell’estate del 1961 due agenti del Sifar (Servizio Informazioni Forze Armate), con zaini carichi di esplosivo, in procinto di compiere attentati. E ancora, gli indizi del coinvolgimento diretto della questura di Bolzano (retta all’epoca da Ferruccio Allitto Bonanno) nell’omicidio di Luis Amplatz nel settembre del 1964, per mezzo di Christian Kerbler, che quindi da semplice “informatore” si sarebbe trasformato in sicario.

La tesi delineata fu che i servizi segreti italiani, o alcune sue parti, avessero svolto un ruolo non solo di contrasto al fenomeno terroristico, ma anche di favoreggiamento della tensione. (Boato 1992; Bertoldi 1992). Così scrisse il senatore Libero Gualtieri nella “Relazione finale” approvata da tutta la commissione (1992): “Emerge il quadro di una partecipazione delle strutture dello Stato non per contrastare, reprimere, far cessare l’attività terroristica messa in atto da settori indipendentisti in Alto Adige, ma per alimentarla e aggravarla fino a veri e propri atti di controterrorismo predisposti nel nostro territorio ma anche, forse, in quello austriaco”. Occorre sottolineare che a riguardo non si giunse a certezze di tipo giudiziario.

 

 

 

Bibliografia

 

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Carlo Battisti/ Salvatore Vacante/ Renato Cajoli, Alto Adige: realtà e problemi, Bologna 1961.

Elisabeth Baumgartner / Hans Mayr, / Gerhard Mumelter, Feuernacht – Südtirols Bombenjahre. Ein zeitgeschichtliches Lesebuch, Bozen 1992.

Alcide Berloffa, Gli anni del pacchetto, Bolzano 2004.

Lionello Bertoldi, Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia. Relazione su episodi di terrorismo in Alto Adige, presentata dal sen. Lionello Bertoldi (22.04.1992)

Gianni Bianco, La guerra dei tralicci, Trento 1962.

Marco Boato, Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, Relazione preliminare su episodi relativi all’attività di corpi militari, di polizia o di sicurezza dello Stato in connessione con le vicende del terrorismo in Alto Adige/ Südtirol presentata dal sen. Marco Boato (22.04.1992)

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Romano Bracalini, L’ABC dell’Alto Adige, Milano 1968.

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Renato Cajoli, Alto Adige addio!, Milano 1967.

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1)Il testo corrisponde, con minime integrazioni, all’intervento tenuto all’incontro “12.06.1961. Die Feuernacht: Ereignis und Deutungen/ La notte dei fuochi: la storia, le interpretazioni” (Bolzano, Casa Kolping, 9 giugno 2011), organizzato dalla Provincia Autonoma di Bolzano Alto Adige.

 



[1] Il testo corrisponde, con minime integrazioni, all’intervento tenuto all’incontro “12.06.1961. Die Feuernacht: Ereignis und Deutungen/ La notte dei fuochi: la storia, le interpretazioni” (Bolzano, Casa Kolping, 9 giugno 2011), organizzato dalla Provincia Autonoma di Bolzano Alto Adige.