Autore: Carlo Romeo

Rif. bibl.: Romeo, Carlo, Quelli fuori dal castello, in: “FF. Das Südtiroler Wochenmagazin”, 18.11.2007.

 

 

Quelli fuori dal castello.

Castel Firmiano 1957

 

di Carlo Romeo

 

 

La difficoltà di vedere nella manifestazione del 1957 il “mito fondante” di un’autonomia condivisa. Da un lato gli errori e i ritardi della politica italiana, dall’altro il rischio di trasformare in storia gli slogan di allora.

 

Non è facile riflettere sulla ricezione “italiana” del raduno di Castel Firmiano/ Sigmundskron del 1957. Ovviamente quel giorno al castello - a parte giornalisti, fotografi, forze dell’ordine e qualche ospite - non c’erano italiani. In quella giornata il loro ruolo era di antagonisti: il governo di Roma e quello regionale, i trentini e gli altoatesini, asserragliati là sotto, nella città-cantiere-Babele. Una città proibita per la manifestazione e difesa da centinaia di poliziotti e carabinieri chiamati per impedire una temuta “marcia su Bolzano”.

La questione non può limitarsi a un’analisi delle reazioni di allora: del governo, della stampa, dei rappresentanti politici locali o di qualche intellettuale. Più importante è chiedersi quale possa essere, oggi, una prospettiva “condivisa” di quell’evento, divenuto col passare degli anni un vero e proprio “mito di fondazione” dell’autonomia provinciale. Premetto che il termine “mito” è qui assunto nel suo significato proprio di “racconto”. Il racconto di un avvenimento esemplare, capace di polarizzare le aspirazioni e i destini di una comunità.

Sigmundskron ‘57 rappresenta il mito più carico di emozioni sulla “conquista” dell’autonomia anche perché è facilmente raccontabile. Concentra, nel breve spazio di un episodio, sentimenti collettivi, imprese ed eroi. La situazione iniziale del “Volk in Not”; l’arrivo dell’ultima, suprema minaccia, il telegramma da Roma; la frenetica organizzazione del raduno; il superamento di tutti gli ostacoli frapposti dagli uomini e dal fato, fino a quell’ultimo ingorgo stradale che rischia di impedire all’eroe di raggiungere il castello. Questi vi arriverà non con l’auto del politico, ma mescolato al popolo: la provvidenziale corsa in motocicletta attraverso stradine di campagna ed infine il trionfo. “Das Volk hat gesprochen”. La lotta ha avuto inizio.

Celebrata di decennio in decennio in forme sempre più solenni, quella manifestazione è ormai qualcosa di più di una semplice cesura storiografica: la crisi della Regione, il “Los von Trient”, l’inizio del percorso verso la seconda autonomia. Un traguardo che - al di là delle critiche su singoli aspetti - viene sostanzialmente giudicato positivo per tutti. Con date come queste i “Kinder der Autonomie”, a qualunque gruppo linguistico appartengano, devono fare bene o male i conti.

 

Una foto per tutte

Sin dall’inizio il raduno di Castel Firmiano mostra due volti. Da un lato, quello politico, rappresenta la più imponente manifestazione sino allora tenuta per la richiesta di autonomia provinciale. Dall’altro lato, quello simbolico ed etnico, la manifestazione ha un significato molto più ampio e indefinibile: l’affermazione della “Geschlossenheit” che corrisponde non solo all’unità ma all’esistenza stessa del gruppo etnico nel suo legame vitale con la terra-madre.

Le immagini sono narrativamente più efficaci di qualunque testo (come sanno bene i grafici e gli allestitori di mostre). Le fotografie di quella giornata, la grande affluenza di popolo da ogni angolo del Land, i cartelli e gli striscioni con le famose, drammatiche scritte rimangono le icone preferite di una rappresentazione dell’autonomia quale conquista di popolo. Sono incomparabilmente più efficaci di tutte quelle “politiche”, mute e noiose: la firma di un accordo, la relazione conclusiva di una commissione, l’emanazione di uno statuto.

 

Un giorno per tutti

La compresenza dei due aspetti, quello politico e quello sentimentale, è evidente già quella mattina. Dopo il saluto del segretario generale SVP Staneck, la parola è data ad un contadino, che sulla scorta del canonico Gamper (morto nell’aprile 1956) ricorda l’alleanza col Sacro Cuore. Seguono poi le parole di un operaio che testimonia la difficoltà di trovare lavoro e casa e la piaga dell’emigrazione sudtirolese. A fronte di una mobilitazione così ampia e sentita, il contenuto dell’orazione politica più attesa può sembrare persino limitato e restrittivo. Il discorso di Silvius Magnago, che prende la parola sotto tono per sedare la tensione, si riferisce a concetti anche astratti e difficili, quali “deleghe di competenze”, mancate “norme di attuazione”, etc. Ma lo “spirito” di Sigmundskron, il sentimento di quel giorno, è altrove: in quel “Los von Trient” c’è il ritorno al Volk, la sua unità pre-politica, la definitiva condanna della vecchia leadership rinunciataria, la ritrovata simbiosi tra un popolo e il suo partito.

Per questo Sigmundskron è oggi il racconto in cui tutti i sudtirolesi possono riconoscersi. È il racconto del partito che ha guidato con successo i destini della Volksgruppe. È il racconto del suo leader più carismatico. Ma è anche il racconto di chi, appena cinque giorni dopo, sarebbe passato agli attentati dinamitardi. E anche di chi nel congresso del 1969 avrebbe votato contro il Pacchetto. E persino di chi ancora oggi considera l’autonomia provinciale un limite e una rinuncia.

 

Errori e ritardi dell’Italia

Pretendere che esso diventi tout-court il racconto anche degli avversari di allora è forse troppo. Basta leggere il commento della pubblicistica italiana dell’epoca per capire come dei due aspetti della manifestazione venga messo in luce soprattutto quello etnico. “La manifestazione di protesta non si è allontanata dalle richieste di sempre e dai vecchi slogan”, scrive l’”Alto Adige” il giorno dopo, sottolineando che a fianco della dimensione ufficiale rappresentata dal discorso di Magnago, “ve ne è stata una faziosa”, che ha raggiunto il culmine col famoso volantino “insultante” (benché anonimo, si tratta della prima espressione pubblica del BAS di Sepp Kerschbaumer). Anche la stampa nazionale, a parte qualche eccezione, non contribuisce ad una compiuta informazione dei risvolti politici. Quello sudtirolese è un problema che dal 1948 è stato trascurato anche da tutti i governi centristi succedutisi a De Gasperi. In quegli anni l’Italia esce a faticosi passi da un difficile dopoguerra, segnato dalla perdita delle colonie, dall’esodo degli istriani e dalmati, dalla questione di Trieste. Inoltre, la classe politica dominante è impreparata, ideologicamente e culturalmente, ad affrontare persino il decentramento regionale previsto dalla Costituzione. I ritardi e le inefficienze degli organi centrali e periferici dello Stato si aggiungono al desiderio di “annacquare” l’accordo Degasperi-Gruber: i ritardi nell’emanazione delle norme di attuazione, la persistenza di normative dell’epoca fascista, la scarsa sensibilità nel trattare le minoranze linguistiche.

Tutti i segnali di crisi della soluzione regionale vengono ignorati. Si preferisce una risposta burocratico-giuridica a quelle che sono invece istanze politiche. Il governo non risponde nemmeno alla richiesta di una ridiscussione globale dell’autonomia, presentata già nell’aprile del 1954 dai parlamentari SVP in un corposo memorandum. Risponde al memorandum austriaco di due anni dopo, concludendo che l’accordo di Parigi è stato pienamente attuato. Nel febbraio 1957 la Corte Costituzionale dà giudizio sfavorevole all’interpretazione SVP dell’art. 14 dello Statuto, che potrebbe prevedere la delega delle competenze amministrative regionali alle Province. Il bilinguismo nel settore pubblico è ancora assai carente.

Insomma, da parte italiana “un problema altoatesino non esiste”, come ribadisce Tambroni a Bolzano nel settembre 1956. Tutto questo mentre monta la tensione alimentata anche dalle rinnovate campagne propagandistiche per il Südtirol in Austria (ormai pienamente sovrana) e dalle dimostrazioni italiane promosse dalla destra.

 

Processi, tensioni, bombe

Non si capirebbe il clima di Sigmundskron se non si tenesse conto del deterioramento dei rapporti in ogni ambito dell’opinione pubblica. Su tutto domina il processo ai “Pfunderer Burschen” (luglio 1957) per la morte del finanziere Falqui in seguito ad un’aggressione che si vuole a tutti i costi “etnica” e che porta a durissime condanne. Ma è nella quantità dei piccoli episodi che emerge l’incapacità dello Stato di fronteggiare la tensione con la sola repressione, quasi si trattasse di una semplice questione di polizia. Talvolta è proprio un ottuso rigore a peggiorare il clima. Il giovane Egon Mayr di Lienz aveva gettato da un treno in corsa volantini per la riannessione del Südtirol all’Austria; processato a Bolzano, è condannato a ben tre anni di carcere, ridotti poi a 10 mesi nell’appello di Trento. Scriverà Guido Lodovico Luzzatto: “È così che si fa propaganda antitaliana; con simili persecuzioni e processi il governo democristiano risuscita i fantasmi di Andreas Hofer e dei nazionalisti di tutto il mondo”. Grottesco è poi il caso dell’anziana signora brissinese che si vede costretta dalle autorità a far ridipingere le sue 38 persiane bianco-rosse.

Dalle esposizioni di bandiere e striscioni e dalle accensioni di fuochi si passa, verso la fine del 1956, alle prime bombe del gruppo Stieler. Dopo Castel Firmiano, col suo clima di mobilitazione, si aprirà definitivamente il lungo periodo degli attentati.

 

Dal mito alla storia

I miti tendono a proiettare le loro immagini in un quadro assoluto, immobile, fuori della storia. E allora si corre il rischio di dimenticare che gli slogan che appaiono sulle foto di quel giorno sono documenti di un momento di lotta, ma non possono di per sé entrare nella storia senza un filtro critico. Per fare un esempio, è forse il caso di considerare che la “Todesmarsch” del gruppo sudtirolese, gridata da quegli striscioni, non aveva le dimensioni allarmanti prefigurate. E che l’immigrazione italiana dei primi anni del dopoguerra era in discreta parte riconducibile alle dinamiche economico-sociali della ricostruzione, alla riattivazione amministrativa e delle infrastrutture. Sempre riferendosi agli slogan di allora, è anche opportuno segnalare la distanza della situazione altoatesina da quella coloniale dell’Algeria o dalla lotta dei ciprioti. Come pure che, in termini storici, è indubbia la cesura tra la politica fascista e quella repubblicana in Alto Adige. Tutto il periodo del primo Statuto di autonomia non può essere semplicemente liquidato come una continuazione della politica fascista.

La conquista della nuova autonomia è stata resa possibile anche dai profondi mutamenti della politica italiana e da un nuovo approccio culturale alla questione, che hanno portato a concessioni e soluzioni all’avanguardia a livello internazionale. Di questo lungo cammino Sigmundskron ‘57 rappresenta una delle immagini. Può incontrare un sentimento condiviso se non si isola dal quadro completo di un faticoso e prezioso “patto per la convivenza”.