Autore: Carlo Romeo

Rif. bibl.: Romeo, Carlo, Il Risorgimento di Luciano Bianciardi. In margine a “Aprire il fuoco”, in: “Il Cristallo. Rivista di varia umanità”, anno XXIX (1987), n. 3, pp. 61-68.

 

 

 

Il Risorgimento di Luciano Bianciardi. In margine a “Aprire il fuoco”

 

di Carlo Romeo

 

 

A quindici anni dalla sua scomparsa, la fortuna critica di Luciano Bianciardi (1922-1971) sembra ancora tutt'altro che consolidata. A ciò contribuisce senza dubbio anche la difficoltà di catalogare la sua narrativa, perennemente in bilico tra romanzo, pamphlet e, in alcuni casi, addirittura saggio storico.
Solo la docilità alla catalogazione, dicevano Adorno e Horkheimer, permette l'inserimento nell'industria culturale. L'osservazione non è casuale; insieme a Pasolini, Bianciardi è stato forse l'intellettuale più adorniano degli anni cinquanta e sessanta. Adorniano è stato il suo scetticismo nei confronti di tutto il «sistema»; adorniana la lucida coscienza del proprio ruolo subalterno, dell'impossibilità di uscirne, di smascherare le contraddizioni e le «perversioni dell'industria culturale».
Il suo percorso di scrittore, giornalista, satirico, storico divulgatore, mostra oggi una coerenza impeccabile nell'impianto riflessivo così come nelle soluzioni narrative e stilistiche; e coerenza, sarà utile sottolinearlo, nel coraggio della sua satira riguardo ad ogni compromesso, ogni viltà, ogni pigrizia intellettuale.
«Penna maldicente e sfottente» lo chiamò Paolo Spriano recensendo sulle pagine di «Rinascita» il suo primo libro, Il lavoro culturale (1957).
Spriano metteva in guardia i lettori da questo giovane compagno-umorista, che si prendeva la libertà di ironizzare, oltre che sulla caduta delle sue illusioni post-belliche, su tutto l'apparato cultural-propagandistico del P.C.I: i vari funzionari «responsabili», gli intellettuali conferenzieri che capitano da Roma, le «campagne culturali e politiche» lanciate dal centro alla periferia, la mania dei «comitati direttivi», dei «messaggi programmatici» e del loro linguaggio cifrato, le serate del cineclub con l'interminabile polemica tra «formalisti e contenutisti», le «grandi firme» che salgono in cattedra tra l'incomprensione e la relativa indifferenza degli operai, etc. Concludeva Spriano:

(...) Il libro finisce per deludere. Su un piano di vigore narrativo, polche si sente, in fondo, che al Bianciardi manca il fiato del vero satirico, manca l'animo appassionato di incidere nelle persone e nelle cose; e, su un piano morale-politico, perché, tutto sommato, è l'indifferenza. il distacco a provocare l'ironia... La conclusione del libro ha una sua morale: squallore, aria di sconfitta, il protagonista che, perdute le sue speranze, si rinchiude tra casa e archivio, uno slancio culturale che si spegne nella cittadina punteggiata dal grigio dominio dei vitelloni (1)

Ho voluto riportare questa precoce «stroncatura» perché essa profetizzava in un certo senso l'isolamento e la diffidenza che la «cultura militante» avrebbe riservato allo scrittore toscano, lungo tutta la sua attività.
Dunque un Bianciardi cinico, affetto da freddo «loicismo»? Tutt'altro. «Luciano è stato uno dei pochi arrabbiati italiani sinceri», scrive Oreste Del Buono in una commossa introduzione. Il fascino della sua prosa, almeno nei romanzi, sta nello sperimentalismo della sua scrittura, alla ricerca di una «narrativa integrale», qualcosa che va al di là della stessa autobiografia. Prontamente se ne era accorto Carlo Bo, all'indomani della pubblicazione della Vita agra (1962):

In genere lo scrittore satirico si contenta di uccidere il suo personaggio, insomma di fare un processo. Qui invece le cose sono molto più complesse, al posto di un quadro o di un ambiente (su cui esercitare la satira) c'è tutta la vita.

E così Geno Pampaloni:

Con «La vita agra» il passo avanti è decisivo... la satira di costume, la descrizione ironico-mimetica degli ambienti che prende a descrivere non è più fine a se stessa e, se si guarda bene, non è neanche il tema di fondo del racconto. «Io» non si nasconde, dietro la propria ironia, non sfugge al confronto con la realtà, ma si confessa nelle sue repugnanze, nelle malinconie, negli ardori, nei sogni, nella costruzione di un proprio linguaggio, tanto più «vero» quanto più ammiccante ed intarsiato; «io» è qui una presenza che, per essere funambolesca. non è meno vigorosa e accusatrice, diretta, integra e amara... (2)

 

Il «trittico della disperazione», formato da Il lavoro culturale (1957), L'integrazione (1960), La vita agra (1962), è il riflesso di delusioni che si susseguono una dopo l'altra, dagli infondati progetti di rivoluzione culturale dell'immediato dopoguerra e le egualmente infondate convinzioni di benessere economico degli anni sessanta.
La conclusione della Vita agra coincide con l'alienazione, la rinuncia e la sconfitta. L'autore-protagonista, che si era trasferito a Milano per «dar saltare col grisù» la sede dell'industria chimica responsabile della morte di 43 operai del suo paese, è stato lentamente integrato, alienato, ha rinunziato ai suoi propositi di bombarolo anarchico, costretto, per sopravvivere miseramente nella grande città, a tradurre libri di guerra americani, al ritmo serrato di venti cartelle al giorno. Il finale è la rituale liberazione del sonno, la resa incondizionata al meccanismo, alla alienazione:

Io resto lì mezzo coricato, coi pensieri sempre più nebbiosi. Mentre si guardavano soffiò la granata del bengala, e tracciò il suo arco iridiscente e sbottò nel paracadute. Dev'essere così: quel plopped è uno sbottò. Ma più avanti come la metto? E lo stesso plopped, no? Dice: the soft blob of light plopped and burst on the open page. E quando Gragnon sta leggendo Gil Blas, lo ricordo. La morbida bolla di luce gocciò e si ruppe sulla pagina aperta... Dunque quel plopped va bene così, no? Poi il sonno è già arrivato e per sei ore io non ci sono più. (3)

La Vita agra, coi suoi precisi riferimenti satirici, procurò a Bianciardi querele e inimicizie, tanto da indurlo ad abbandonare Milano. Scrive Oreste Del Buono:

A un certo punto dell'esistenza, oppresso dal fatto che il notevole successo de «La vita agra» gli aveva procurato soprattutto guai, attirandogli addosso invidie e processi, contestazioni ed inimicizie, Bianciardi aveva pensato di cercare rifugio fuori. Si era stabilito a Rapallo, tentando di convincere a parole gli amici, che quella era la soluzione migliore, che quella era l'unica possibile salvezza (4). 

In questo periodo Bianciardi abbandona il romanzo e si dà alla divulgazione storica del Risorgimento. Da storico attento ed appassionato, aveva già pubblicato Da Quarto a Torino (1960), nel centenario della spedizione dei mille. Ora è la volta de La battaglia soda (1968), indirizzato agli studenti delle scuole medie, e di Garibaldi (1972), la sua ultima opera in assoluto, pubblicata poco prima della sua scomparsa. Le parole con cui conclude quest'ultimo libro ci danno l'esatta dimensione di quel modo tutto suo di presentare, soprattutto ai giovani, la storia del Risorgimento, di quella «rivoluzione mancata»:

(...) Fecero un paio di discorsi, poi se ne tornarono a casa.
E subito gli fecero il monumento, lo misero, a cavallo o senza, in cima a un piedestallo, decisi a non farlo più scendere. Ancora oggi, per molta gente, il Garibaldi della leggenda torna più comodo del Garibaldi della realtà. Noi, modestamente, abbiamo cercato di farlo scendere dal piedestallo, di ritrovarlo uomo.
(5)

 

Aprire il fuoco

 

In questo clima matura Aprire il fuoco (1969), l'ultimo romanzo dello scrittore toscano. Sembra quasi che la riflessione sulla «rivoluzione mancata» abbia dato nuova lena al suo percorso narrativo, così legato a quello esistenziale. La parabola che sembrava conclusa con La vita agra, con la resa incondizionata di ogni istinto sovversivo, l'adeguamento al meccanismo, l'autoannientamento, la liberazione programmata delle sei ore di sonno, questa parabola ha un nuovo ed estremo sussulto, un feroce ed aspro inarcamento. Questo il disegno generale.
Il lettore deve anzitutto sottostare al presupposto bianciardiano: il Risorgimento non è mai stato compiuto, Milano è ancora sotto gli Austriaci, e, insieme ad essi, sotto i «collaborazionisti», i giudici, le forze dell'ordine, gli aguzzini, i banchieri, la I.G. Farben, le carte bollate, i programmi televisivi, etc. Dal suo esilio di Nesci (Rapallo) l'autore-protagonista rievoca, a dieci anni di distanza, le gloriose «cinque giornate milanesi del 1959», l'immaginaria insurrezione alla quale ha partecipato e di cui non esiste più traccia, perché, restaurato, il potere cercò di cancellarne persino il ricordo. L'inviso Radetzky rientrò a Milano sopra una jeep, tutti coloro che poterono scapparono in Svizzera, gli altri, come Bianciardi, vennero perseguitati.

La persecuzione, d'accordo, c'è stata, e io ne sono un esempio quasi vivente, ma fu una persecuzione sempre sorda e speciosa. Chi non ha dato bastevoli segni di ravvedimento, lo hanno tafanato con i pretesti più vari e più assurdi, incolpandolo dei delitti più incredibili: evasione fiscale, omessa denuncia dei redditi, porto d'arme abusivo, sosta vietata, vilipendio della religione, oltraggio al pudore, abigeato e via discorrendo. Lo so benissimo io, che pure avevo taciuto così a lungo, sperando magari nel cosiddetto reinserimento. Lo so per via delle tante ed inique vessazioni che mi hanno inflitto, e che già ho raccontato con ira e abbondanza di particolari, tante e tali da indurmi, adesso, a impugnare la penna e a raccontare i fatti. Se queste pagine vedranno mai la luce, e io comincio a dubitarne per gli indugi che mi frappone il protonotaro Pautasso [direttore artistico della casa editrice di Bianciardi, Nda], esse costituiranno il primo contributo, sia pure di tipo meramente letterario, di parte italiana alla storia di quella italianissima rivoluzione. (6)

Il travestimento storico ha qui diverse funzioni. La prima, di agire da solido impianto narrativo, talmente ampio da afferrare qualunque spunto di satira, o, comunque, di riferimento contemporaneo. In secondo luogo, la mimesi storica crea non tanto un diaframma - perché, anche in questo romanzo, Bianciardi parla in prima persona, il flusso narrativo sorge direttamente dall'autore-protagonista - quanto il fascino di una patina di polvere sulle pagine del libro. Il distacco, il «gioco» che vuoi farci giungere questa voce da una pseudo-lontananza secolare, dal cuore stesso del Risorgimento, è una «carta bianca» che Bianciardi si prende, e, allo stesso tempo, una precauzione che la rabbia non trabocchi, che la polemica satirica sia efficace, non travalicando l'arte.
L'ultima fondamentale funzione della mimesi storica è di carattere esistenziale. Aprire il fuoco è una sorta di Divina Commedia; Bianciardi parla ed agisce insieme ai grandi uomini del passato e del presente, giudica situazioni e fatti, li spartisce secondo le coordinate della sua morale anarchica. Ma, soprattutto, ritrova alleati al suo personale percorso tutti i grandi perdenti dal Risorgimento in poi.
La personale «rivoluzione fallita» di Bianciardi umorista, satirico e, in molti casi, moralista appassionato, diventa tutt'uno col Risorgimento, la gramsciana «rivoluzione mancata», con la Lotta di Liberazione, con gli entusiasmi del dopoguerra, tutti slanci autentici, «popolari», traditi, proprio quando erano sul punto di vincere, dalla istituzionalizzazione, dalla organizzazione programmata e perversa, fino al soffocamento, allo spegnimento.
Bianciardi, dopo essere stato autore-protagonista, diventa qui autore-personaggio storico. Introdotto come istitutore, dal «suo amico» Cesare Correnti, nei salotti della nobiltà illuminata milanese, partecipa ai dibattiti e alle accese discussioni che preannunciano il clima dell'insurrezione:


Milano insomma era tutto un predicatorio, tutto un dibattere segreto, ma nemmeno tanto. Si discuteva al Giamaica, si discuteva in casa Correnti, al caffè della Giannina, a via Pontaccio, alla casa della cultura, nei casini che poi a settembre chiusero, nelle botteghe degli artigiani, negli opifici, al mercato, nelle sale d'aspetto della stazione centrale, nei salotti della nobiltà, tutta concorde nell'opposizione all'austriaco.
L'oppressione, la provocazione e la prepotenza della sbirraglia austriaca fanno sorgere uno spontaneo e collettivo moto di resistenza, unitario, benché sfaccettato in diverse vesti ideologiche; le speranze sul nuovo papa, Giovanni XXIII, da parte dei cattolici, la «cosiddetta linea emme», cioè la lettera iniziale dei nomi dei teorici ai quali questa parte si rifaceva, «e cioè, il Marx, il Mao, il Min e il Marcuse. (Gli avversari loro ci mettevano anche, a beffa, il Mussolini).

Insomma chi la voleva cotta e chi cruda. Differivano gli obiettivi e più ancora differivano le concezioni dei metodi per raggiungerli. Qualcuno voleva la guerra regia sotto il monarca Tentenna, e magari con l'aiuto dei francesi. Altri, come per esempio i seguaci del Togliatti, giuravano che a fare l'Italia si sarebbe arrivati con la semplice scheda elettorale, gradualmente e progressivamente, ma erano poco ascoltati... C'erano di quelli che chiedevano la guerra di popolo condotta per bande, e a sostegno citavano l'autorità del Bianco, del Pisacane, del dottor Guevara e del Giap».

Crescono di mese in mese le dimostrazioni di insofferenza dei milanesi, che cementano gli animi, tessono le organizzazioni. Dai tafferugli con la polizia, ai concerti di Giorgio Gabersic, alle scritte inneggianti a Giovanni XXIII, al boicottamento della moda austriaca, fino al decisivo sciopero del tabacco. Gli austriaci perdono la testa e il 22 febbraio viene dichiarata la legge marziale. Milano si arma e dopo un mese scoppia spontanea e irrefrenabile l'insurrezione.


 (...) gli armaioli consentirono di buon grado che si vuotassero le loro botteghe, non un privato negò le armi, sia da caccia che da collezione, il museo Poldi Pezzoli fu prontamente vuotato, persino le armi da scena del Teatro alla Scala furono impugnate dagli insorti, e così quelle del Piccolo, che Paolo Grassi consegnò senza neanche chiederne la ricevuta ...


Con sanguinosi scontri viene preso il Broletto, il Castello Sforzesco, la «caserma» di San Vittore; tutte le roccaforti del centro cadono in mano agli insorti. Nascosto dietro Io schedario della «Polizei», viene trovato, pallido e tremante, il famigerato commissario Bolza. La folla vorrebbe linciarlo, ma viene fermata dal Cattaneo e dal Bocca;


«Sentitemi» gridò il Cattaneo, e tutti tacquero. «Ascoltate il professore» insisté il Bocca ...
«Quest'uomo è un cane e un traditore, colpevole dei delitti più nefandi. Lo affido al vostro giudizio. Se lo uccidete fate opera giusta, se lo salvate fate opera santa. La scelta a voi».
Si sa come son fatti i milanesi, e gli italiani in genere. Fecero salva la vita al Bolza, e fu tanto peggio per loro. Difatti adesso, domata la rivoluzione, se lo ritrovano daccapo sul gobbo, e più scellerato di prima. Andate a dar retta al Cattaneo o al Bocca, un'altra volta.

Ma il vero e proprio «miracolo» che Bianciardi nota e sottolinea è la solidarietà interclassista che cementa gli animi, in quello sforzo comune, durante tutte le cinque giornate. I milanesi, fatto grandioso, si danno tutti indistinta-mente «del tu», le case patrizie organizzano mense gratuite per gli insorti, le stesse nobildonne girano tra gli avamposti recando il desinare, i seminaristi dell'abate Stoppani si mescolano ai «monelli» del riformatorio «Beccaria», erigendo barricate, aiutati dai conducenti dell'ATM, che collocano i tram e gli autobus come ostacoli all'austriaco.
Viene infranto l'accerchiamento dei carroarmati nemici e ci si congiunge con gli insorti del contado e della provincia. Alla testa degli insorti di Linate, armati di schioppi, falci fienaie, roncole e forconi, Bianciardi riconosce distintamente «il giovane Enzo Jannacci».
Gli austriaci sono costretti a ritirarsi nel Quadrilatero, Milano si è liberata da sola, senza i «ventimila fucili» che dovevano arrivare da «re Tentenna». «Quei fucili», aggiunge Bianciardi, «li aspettano ancora».
La città esplode in un tripudio di bandiere tricolori, feste popolari, danze e cori. Sembra fatta. E, invece, proprio ora avviene il passaggio dalla rivoluzione alla istituzionalizzazione. C'è chi vuole pianificare, ordinare, regolare, «smetterla, insomma, con queste ragazzate».
Il Comitato del governo provvisorio, che non vuole rimanere provvisorio, organizza la pubblica sicurezza ed emana i primi proclami:

È  fatto divieto, si proclamava da un cantone, di circolare disarmati e senza l'uniforme della rispettiva provenienza.
È fatto divieto, echeggiava il cantore dirimpetto, di attingere acqua nelle ore non prescritte per i relativi quartieri.
È fatto divieto di lordare questa cantonata.
È fatto divieto di sporcare per terra.
È fatto divieto di calpestare le aiuole.
È fatto divieto di lasciare cani sciolti.
È fatto divieto di sostare lungamente.
È fatto divieto di radunarsi in meno di tre persone. (Questo divieto serviva a colpire le giovani coppie, e fu allora che cominciò la moda di fare all'amore in tre).
È fatto divieto di circolare con la targa turistica alterata.
Insomma, es war alles verboten, come e più di prima. Mancava solo che lo chiamassero vorläufige Regierung, questo governo provvisorio, e sarebbe stato come trovarci sotto i tedeschi daccapo. Voglio dire che la gioia, il tripudio, il generale abbracciamento durò poco oltre il ventitré di quel marzo. E subito riprincipiarono quelli a comandare e quegli altri a litigare.

L'entusiasmo dei milanesi scema di giorno in giorno, ritornano gli egoismi, le diffidenze, l'indifferenza. La rivoluzione si annienta da sé tanto che, un mese dopo, Radetzky può rientrare a Milano senza trovare resistenza, accolto anzi dal popolo che intona il ritornello:
El Radeschi 1'è turnà / Da Legnano a Vimercà / E crepa i sciuri.
Solo, dal suo esilio di Rapallo, Bianciardi lancia le sue invettive. Aspetta ancora, dopo dieci anni, un messaggio, un segnale dei vecchi compagni. E intanto medita e scrive su quella rivoluzione fallita. Si sbagliarono le alleanze, gli obiettivi, ma si sbagliò soprattutto nel dichiarare conclusa la fase rivoluzionaria.

La rivoluzione, se vuoi resistere, deve restare rivoluzione. Se diventa governo è già fallita. Se chiama i cittadini alle urne perché eleggano i loro capi, addio ... La rivoluzione milanese seppe darsi, spontanee, le sue norme di vita, seppe trovare dentro di sé i mezzi per trionfare e per resistere: si reperirono le armi, si eressero le barricate, si escogitarono modi nuovi di assalto, la popolazione si sostentò benissimo. Non uno morì di farne. Non un solo furto si ebbe a lamentare, fino a che rivoluzione vi fu. I ladri ricominciarono a rubare non appena fu ristabilito il rispetto della proprietà. Persino la prostituzione era spontaneamente quasi cessata. Insomma, Milano, durante le cinque giornate, fu una città funzionante e in modo egregio. La disfunzione, daccapo, ricominciò non appena si vollero rimettere i funzionari, sia pure nuovi, sia pure nostrani, al posto di quelli vecchi, nemici e stranieri.
La prossima volta bisognerà lasciar stare Broletti, Palazzi del Governo, Università, simboli dell'oppressione, ma bersagli di una rivoluzione infantile. Bisognerà invece occupare la Handelsbank, la Kreditbank, la Volksbank. Bisognerà «sganasciare l'economia urbana», lasciando piovere su Milano biglietti rosa da diecimila. Bisognerà poi mettere fuori uso la televisione; «colpire in quell'unico punto degli impianti che io so, e che qui non dico, nel timore che qualcun altro ci si provi, al posto mio. Voglio essere io a zittire la televisione.

Così, tra ricordi, invettive e proponimenti, l'esule trascorre le sue giornate, tribolando per sopravvivere miseramente. Ma la conclusione è ben lontana dalla rinuncia della Vita agra; è una sorta di amaro testamento. Bianciardi non mollerà, sarà pronto ad insorgere un'altra volta, sarà pronto, sempre e comunque, ad «aprire il fuoco».

Ecco fatto. Ora sapete tutto. Sapete come si può ridurre un uomo costretto dall'oppressore all'esilio. Io guardo ancora dal finestrone, giù verso il gabellino, ma c'è più speranza che il segno mi venga? Una cosa è sicura, e io voglio che lo sappiano, tutti gli Staatsanwalt degli Asburgo. Il Piat che distrusse i loro carri e i loro cannoni l'ho lasciato al deposito. Ma il vecchio Mauser che mi fu compagno nelle cinque giornate l'ho con me, nascosto. Se mandano qua un altro loro aguzzino. io sono pronto ad aprire il fuoco.

 

 

NOTE

1)      Spriano, Paolo Il lavoro culturale, in “Rinascita”, n. 7-8, anno XIV, luglio 1957.

2)      I passi di Carlo Bo e Geno Pampaloni sono nell'introduzione de La vita agra, IV ed., Milano 1980.

3)      Bianciardi, La vita agra, cit., pp. 193-4.

4)      Del Buono, Oreste, introduzione a Aprire il fuoco, II ed., Milano 1976.

5)      Bianciardi, Luciano, Garibaldi, Mondadori 1972, p. 139.

6)      Bianciardi, Luciano, Aprire il fuoco, Rizzoli 1969. Così per tutte le seguenti citazioni.


Tra le opere di Luciano Bianciardi

 

I minatori della maremma, Bari 1955, in collaborazione con Carlo Cassola.
Il lavoro culturale, Milano 1957.
L'integrazione, Milano 1960.
Da Quarto a Torino, Milano 1960.
La vita agra, Milano 1962.
La battaglia soda, Milano 1964.
Daghela avanti un passo, Milano 1966.
Aprire il fuoco, Milano 1969.
Viaggio in Barberia, Milano 1969.
Garibaldi, Milano 1972.
Il peripatetico ed altre storie, postumo, Milano 1976.