Autore: Carlo Romeo

Rif. bibl.: Romeo, Carlo, “Luigi Bartolini: un artista randagio in riva al Passirio”, in: “Alto Adige. Corriere delle Alpi”, 14 ott. 2007, p. 54

 

 

 

Luigi Bartolini, Ponte dell'Adige verso Marlengo, acquaforte 1938, Coll. Luciana Bartolini, Roma

 

 

 

 

Luigi Bartolini: un artista randagio in riva al Passirio

 

di Carlo Romeo

 

 

Per Luigi Bartolini Merano non rappresenta un’ambita meta di vacanza e di cura ma il soggiorno obbligato del proprio “confino di polizia”. Vi giunge nell’autunno del 1933 e vi resterà fino a tutto il 1938. Quarantenne, ha appena raggiunto i massimi successi nazionali come incisore e si è fatto conoscere anche come autore di liriche e prosa. Non è però destinato a percorrere una comoda carriera. La sua irrefrenabile licenza espressiva, la polemica contro autorità d’ogni tipo e la corrispondenza con amici antifascisti, fuoriusciti in Francia, gli hanno causato una rapida disgrazia. La dissidenza di Bartolini non è una scelta politica consapevole, bensì un atteggiamento di anarchica insofferenza. La libertà dell’artista, come lui la intende, risulta naturalmente controcorrente e molesta a qualunque ordine costituito. Al di là delle contraddizioni che gli si possono addebitare, va comunque riconosciuto a questo singolare “randagio” (come ama definirsi) il merito di pagare di persona e senza sconti il proprio anticonformismo.

 A Merano Bartolini prende servizio come insegnante di disegno nel locale istituto tecnico inferiore. Affitta un appartamento nel centro cittadino e un piccolo locale che gli serve da laboratorio. Non subisce restrizioni o controlli particolari, salvo il divieto di allontanarsi senza permesso. La sua innata solitudine viene come “esaltata” dal confino. Nel rapporto con gli altri si definisce un “orso”, da sempre irrequieto e scostante. Alle spalle ha un matrimonio fallito e un figlio morto in tenera età. Compromessa la sua frequentazione con la cultura ufficiale, a Merano Bartolini conduce vita appartata. Si dedica poco alla bella vita cittadina e molto invece al lavoro di incisione e di pittura all’aria aperta. Sono più di un centinaio le opere nate a Merano o ispirate a soggetti meranesi. L’arte è la fortezza in cui si chiude orgogliosamente di fronte al mondo.

 Potrà lasciare Merano solo nel 1938 per trasferirsi a Roma, su parere favorevole delle autorità e grazie a un comando presso il Museo Artistico Industriale. Il ministro dell’educazione nazionale Bottai gli farà sapere che d’ora in poi “deve rifarsi da capo” e lui risponderà che “non ha proprio nulla da rifarsi”.

 

 

 

La figura di Anna

 

Questi sommari dati biografici sul suo periodo meranese bastano a disegnare lo sfondo psicologico in cui si colloca il romanzo “Vita di Anna” (1943). La storia interiore di quel periodo resterà infatti per sempre affidata a una figura femminile, la giovanissima Anna Stickler (Pichler per la cronaca). L’incontro, la relazione sentimentale e poi la brusca separazione dalla ragazza - mandata da genitori e autorità in una casa di correzione per minorenni - costituiscono la materia autobiografica attorno alla quale Bartolini crea uno dei suoi capolavori, un’opera sospesa tra diario e romanzo sentimentale. L’irruenza tipica della prosa bartoliniana trova argine nella limpidità del nucleo poetico essenziale: la figura “angelica” e salvifica di Anna.

 

Come molte delle figure predilette dallo scrittore, Anna Stickler è una marginale. Di umile condizione sociale, vive coi genitori e la sorella in una casa alla periferia della città. I litigi dei genitori e la loro incuria la spingono a ripetute fughe da casa a contatto con la natura in luoghi solitari. La fuga adolescenziale è uno dei miti privati più cari a Bartolini e compare spesso sul filo del ricordo dei conflitti con la severa figura del padre.

 

La marginalità di Anna si trasfigura subito da dato sociale a carattere spirituale. Il destino di “randagi” e il rifiuto delle convenzioni e delle regole cittadine accomunano l’artista e la ragazza. Anna vive in simbiosi con la natura circostante e se ne fa mediatrice con l’artista “forestiere”. Dipingere significa spogliarsi della cultura per aderire alla natura. Uno sguardo, un cenno di Anna bastano a far capire se “un quadro sia o non sia venuto bene”. Lo scenario del loro idillio sono le rive dell’Adige e del Passirio, i canaloni dei torrenti, i sentieri nei boschi e i ripidi prati attorno alla conca meranese.

 

La descrizione naturale non è sempre idillica. A volte è pervasa da un senso di imminente tragedia: una tempesta notturna, il cupo e maestoso burrone della “Ghilf” e soprattutto l’intenso capitolo della “Storia del martin pescatore”. Il rimorso per la stupida, gratuita uccisione dello splendido uccello, durante una delle sue maldestre prove da cacciatore, accompagna una potente rappresentazione, attraverso i colori, della linea di confine tra vita e morte, tra bellezza e caricatura, tra presente e passato.

 

 

 

I cittadini

 

La sensualità, così presente ed accesa in Bartolini, si esprime nel romanzo in una gioiosa naturalezza che la salva da ogni aspetto meschino, che viene invece rinfacciato alla “gente cittadina”. Sia l’artista che la ragazza non hanno bisogno di denaro, bei vestiti e degli idoli con cui “i cittadini” nascondono la loro rinuncia alla libertà. Saranno proprio costoro a disturbare l’idillio. Sui forestieri - cioè i numerosi turisti che affollano il Kurort internazionale - l’ironia di Bartolini diventa feroce caricatura. Superficiali, frivoli gaudenti oppure viziati tabetici, sembrano storni che migrano di stagione in stagione alla ricerca del sole. Tutto della città appare artificioso. All’ironia non sfuggono i cliché del “bel mondo” meranese: i concerti sul Passirio (“le lungaggini ultraterrene di Bach”), le dame dell’alta società (“lardellose, pallide signore che non vengono osservate neppure dai cani randagi”), i fiori finti che, trapiantati dalle serre, appaiono d’improvviso nelle aiuole che erano brulle e spoglie. Anche sui meranesi residenti il tono è astioso: un contesto di ipocrisia e grettezza che conferma, nel sentimento dell’autore, l’inconciliabilità della dimensione straordinaria dell’amore con Anna, con quella della mediocrità “cittadina”. Gli sguardi, i pettegolezzi cattivi, le maldicenze da cui cominciano ad essere circondati, segnano l’inizio della fine.

 

 

Merano senza Anna

 

 Il romanzo si conclude con il brusco allontanamento di Anna. Un primo tentativo da parte del padre di mandare la ragazza in una casa di correzione per minorenni, sulla spinta di parenti e conoscenti (e forse dell’autorità pubblica), la spinge ad un’ennesima fuga. Nell’impossibilità di darle aiuto, di realizzare il sogno di un comune trasferimento altrove, il protagonista affonda nello sconforto. Dopo un ultimo, tenero incontro clandestino, Anna decide di seguire il suo destino (“come un albero la cui sorte era già segnata da un taglio di scure, nel bosco”) e di consegnarsi ai familiari. Le due vite si separeranno per sempre. Tra loro sarà innalzato un muro invalicabile che impedirà ogni contatto.

Senza Anna, anche Merano spegne i suoi colori e quegli stessi luoghi che accendevano la fantasia gioiosa sono ora soltanto una “triste caricatura” di se stessi. Nel romanzo l’artista decide di partire (nella cronaca biografica è scaduto il termine del confino).

 Ancor prima del romanzo, saranno le Poesie ad Anna (1941) ad esprimere la malinconia di questo addio, nella lenta e pensosa cadenza dei “versi lunghi” di Bartolini. Sotto il profilo letterario essi testimoniano la conquista di nuova maturità espressiva e la compiuta elaborazione della figura di Anna in mito poetico.