Autori: Carlo Romeo, Barbara Ricci, Valeria Vanni, Elisa Pavone.

Coordinamento tecnico: Marco Nobile. 

Trasmissioni radiofoniche a cura dell’Associazione Donne Nissà di Bolzano, Radio Tandem, col sostegno di: Comitato Provinciale per le pari opportunità di Bolzano, Città di Bolzano, Fondazione Cassa di Risparmio 

Associazione Donne Nissà 2010
 

   (…) La scrittrice Erminia Dell’Oro è nata ad Asmara, in Eritrea, dove il nonno paterno si stabilì nel 1896. Si è trasferita in Italia a Milano a vent’anni, mantenendo però legami profondi con la sua terra d’origine, legami che si riflettono costantemente nella sua produzione letteraria.

Racconta Erminia Dell’Oro in un’intervista:

 

   Mio padre nacque e morì ad Asmara. Anche lui, come il nonno e gli italiani che abitarono l'Eritrea fin dai primi anni della colonizzazione, era definito ‘un vecchio coloniale’. Arrivarono dopo, ai tempi dell'invasione italiana dell'Abissinia, nel 1936, migliaia di altri italiani: lavoratori, disoccupati che non avevano niente da perdere, avventurieri in cerca di fortuna, artigiani e professionisti che si inventarono una nuova vita nella nostra Africa. L'avventura coloniale durò poco. Nel 1941 l'Italia perse la guerra e le colonie. Entrarono in Eritrea, con un mandato decennale di amministrazione, gli inglesi. Furono anni difficili. Molti italiani rimpatriarono. Quelli che rimasero si diedero da fare perché non svanisse, anche per loro, il sogno africano (...)

Dopo la guerra, la mia famiglia perse tutto: mio padre aveva un’acciaieria, sono arrivati gli inglesi e gliel’hanno presa. Lui si era quasi deciso a raggiungere dei parenti emigrati in Venezuela, poi però rimase ad Asmara (…)

La maggior parte degli italiani invece se ne andarono via con le navi bianche, poiché era chiaro, la guerra era persa… Molti di loro poi si sono trovati male anche in Italia, dove la guerra era stata più devastante e magari gli aveva portato via anche dei familiari. I miei genitori non hanno mai pensato di lasciare l’Eritrea, neanche durante la guerra con l’Etiopia…Asmara è rimasta una città splendida, piena di giardini e con un clima meraviglioso (...)

 

Da "Mal d'Africa. Eritrea ed Etiopia"

Associazione Donne Nissà 2010

   Se tu dall’altopiano guardi il mare/ moretta che sei schiava fra le schiave/ vedrai come in un sogno tante navi/ e un tricolore sventolar per te!/ Faccetta nera, bell’abissina/ aspetta e spera che già l’ora s’avvicina!/ Quando saremo insieme a te/noi ti daremo un’altra legge e un altro re!  

   La legge nostra è schiavitù d’amore/ ma libertà di vita e di pensiero./ Vendicheremo noi camice nere/ gli eroi caduti liberando te!/ Faccetta nera, piccola abissina/ ti porteremo a Roma liberata/ dal sole nostro tu sarai baciata/ sarai camicia nera pure tu!/ Faccetta nera, sarai romana/ e per bandiera tu avrai quella italiana!/ Noi marceremo insieme a te/ e sfileremo avanti al Duce e avanti al Re. 

   Questo il famosissimo testo della canzone che fu lanciata nel 1935 da Carlo Buti. Autore delle musiche era Mario Ruccione mentre le parole, originariamente in dialetto romano, erano di Renato Micheli.La canzone fece da sfondo alle partenze dei soldati italiani nella guerra d’Etiopia. Esprimeva l’idea dell’impresa coloniale come liberazione dalla schiavitù e crea una stretta identificazione tra la donna africana e la terra da conquistare. Fin dall’Ottocento v’era stata una continua tradizione di “erotizzazione” del “nuovo mondo” che il colonizzatore si accingeva a conquistare. L’impresa etiopica, la fondazione dell’impero rappresentò però la drastica fine di questo processo, in nome della conservazione della razza, e quindi della lotta verso il madamato e il meticciato. Già nel giugno del 1936 a poco più di un mese di distanza dalla proclamazione dell’impero, Paolo Monelli anticipava sulla “Gazzetta del Popolo” quelle che saranno le direttive del regime riguardo ai rapporti tra le razze nelle colonie. L’articolo, del 13 giugno, si intitolava significativamente “Moglie e buoi dei paesi tuoi”. 

Le parole di Faccetta Nera sono peggio che idiote. Sono indice di una mentalità che vorremmo trapassata, d’uno stato d’animo rugiadoso e romantico corrotto di sdolcinatura e di vizio che dobbiamo seppellire sotto dieci metri di terra se vogliamo andare per il mondo a fare l’impero. L’amore è soprattutto fabbrica di prole. Ora che cosa vuol far fare alla faccetta nera il nostro cantastorie? Un figlio? Un meticcio? Qui l’ignoranza del cantore diventa delitto contro la razza (…). Ma noi dobbiamo popolare l’impero di intatta gente nostra, non disseminare intorno malinconici bastardi (…). Non è ammissibile per un popolo sano, forte, antico, la promiscuità con i barbari vinti.

Da "Il sogno della pace. Somalia"

 

Cartolina anni '30