Sui soggiorni altoatesini del grecista Manara Valgimigli (1876-1965)

  Manara Valgimigli

 

Rif. bibl.: Eugenio Matteucci, Manara Valgimigli e l’Alto Adige, «Adige Panorama», II (1971), n. 6, pp. 8-9.

 

MANARA VALGIMIGLI E L’ALTO ADIGE

di Eugenio Matteucci

 

«Una fronte larga, a bozze, e un profilo come quello un'antica moneta italiana appena uscita dalla terra. Due mani delicatissime, abituate a districar frustoli di papiri più fragili delle ali di una farfalla rinsecchita e a cercarvi la sillaba di un verso perduto. Una cravatta alla Lavalliére, annodata alla brava.»

 

Così ci presenta Manara Valgimigli, uomo e studioso, Leonardo Vergani durante il convegno in onore di Manara Valgimigli tenuto a Vilminore di Bergamo nell'agosto 1970 in mezzo alle montagne aduggiate allora dalla pioggia.

Ecco invece come, in modo ineguagliabile, Valgimigli si atteggia a gran montanaro, come difatti egli fu.

 

«Qualche felicità c'è, anche in questo mondo... E chi è savio sa ritrovare la felicità sua, confacente alla sua natura e ai suoi gusti; e così anch'io, che sono savio, la mia. E la mia, finché dura, è questa: sacco sulle spalle, grosse scarpe ferrate, pipa tirolese; e andare in giro per le Alpi. Più su, e meglio è; più solo, e meglio è.»

Il suo grande amore per la montagna gli fece fortemente amare anche l'Alto Adige, dove per una cinquantina d'anni qualche mese all'anno lo passò sempre, fino alla sua morte, che lo colse novantenne nella casa di montagna del figlio Giorgio a Vilminore di Bergamo.

Eppure egli avrebbe desiderato morire proprio qui in Alto Adige. Questo suo desiderio lo possiamo cogliere nel suo libro forse migliore: «Il mantello di Cebète». Quest'opera uscita in tre edizioni si presenta come una raccolta di elzeviri, di memorie, di prose varie che vanno dal 1921 al 1952. Leggendo questo libro si ha il ritratto di Manara Valgimigli, «la biografia interiore dello scrittore romagnolo» come bene dice Maria Antonietta Marcelli nel suo amoroso libro, che fu poi la sua tesi di laurea discussa con Giuseppe Ungaretti all'Università di Roma nel 1961, il perché del titolo del libro «Il mantello di Cebète» ce lo dice lo scrittore stesso con la sua prosa singolare cosi fresca, precisa, elegante, costruita a mano, come si direbbe di cosa non costruita in serie, ma con felice apposito intendimento.

 

«Ora eravamo a Padova... e quel giorno la mamma mi disse e sorrideva: “quei denari che hai avuto stamane... e non te li aspettavi, li devi regalare a me.” E il giorno dopo, con un grosso fagotto, arrivò a casa un fattorino della casa Frette... “Ora sono proprio contenta” mi disse; quei quattro lenzuoli contati, lo sai erano la mia preoccupazione. Se uno si ammala... e poi, aggiunse, ce ne vuole qualcuno di più... sì dico, da portare con sé”. Era lì con noi la nostra figliola che mi stava correggendo le bozze del Fedone. Alzò gli occhi e mi guardò: “Già, disse, l'ultimo lenzuolo, l'ultimo mantello: il Mantello di Cebète”. Quello che avvolge i morti.

 

Mi sono un po' diffuso su questo argomento, perché, oltre al ricordo della figlia adorata dallo scrittore, la quale morì giovanissima di mal sottile, dopo essere vissuta per anni in cura in Alto Adige, c'è questo pensiero di morte diffuso per tutto il libro e che appunto pare rivolgersi proprio per un suo speciale posticino qui in Alto Adige.

Ma andiamo con ordine. Nel suddetto libro ci sono vari capitoli che inneggiano all'Alto Adige e alla sua gente. I più importanti sono quelli di Castelrotto.

 

«È la mia scoperta più bella. Forse dicendo questo, ne scapita un poco la mia reputazione o arte o sapienza professionale, perché tutti i miei colleghi fanno scoperte: non dico i miei colleghi di scienza, che si sa con tanti lambicchi prove provette, reazioni chimiche microbi bacilli vitamine e lettere dell'alfabeto, è il loro mestiere; ma perfino i miei più prossimi colleghi di lettere i quali o un nuovo sistema filosofico o un nuovo codice o la centunesima interpretazione, ultima e definitiva, di un verso di Dante, qualche cosa scoprono sempre anche loro. Pazienza. Io ho scoperto Castelrotto. Fu così. Mi dissero Siusi. E andai a Siusi.

Luogo bellissimo, bei prati, bei giardini, vialetti ombrosi, sottili acque correnti. Senonché, si era appena a mezzo settembre, e una prima mattina, una seconda mattina, sento un gran battere, e vedo cameriere in cuffietta bianca alle finestre degli alberghi che battono coperte e tappeti, e cameriere in grembiali verdi che su terrazzi e cortili battono materassi. “Signori, si chiude”. E uno di quei giorni anche il mio padrone di casa, il consigliere segreto signor Waldmüller mi disse: “Signor professore, prima del venti devo essere a Bolzano per la raccolta delle mele”...

Ma io frattanto, a tre chilometri di distanza, avevo incontrato Castelrotto. Una piazza antica, col municipio e altre case in perfetto stile locale, o con tetti a largo spiovente, o diritte fino al sommo di una sagoma merlata, e una finzione di tegoli sopra i merli, e tutte hanno finestre e balconi fioriti di fiori rossi, o garofani o gerani: un getto largo di fontana e un campanile altissimo che è del paese la più visibile gloria. Il quale sarà tozzo e rozzo sproporzionato di altezza quanto volete, ma quel grosso cipollone verde che ha sulla cima, e la torretta e la croce dorata che luccica al sole, fa sempre compagnia e piacere seguitare a vederli per ore ed ore dovunque si vada, anche lontano, o si salga sul Péz, o si prenda la via per San Michele e la forcella che scende in Val Gardena, o si cammini in cresta, da Collalbo, di là dall'Isarco per le praterie del Renon. Vecchi alberghi all'insegna dell'Agnello, del Cavallino, del Lupo, della Torre, niente Majestic Hotel».

 

 Castelrotto 1955

 

E potrei continuare con grande gusto e diletto a citare questa prosa piena di salute, ma desidero dispormi alla fine con il completamento - diremo così - della visione beatifica di Castelrotto che è l'amplificazione del cenno già fatto dal Valgimigli alla fontana di Castelrotto.

 

«Una fontana cosi fontana non l'avevo mai vista.

Acqua soltanto. Non ci sono tritoni, né ninfe, né tridenti, non ci sono maschere da getto né conchiglie, né giochi o schizzi o zampilli. C'è un muro di pietre squadrate, ampio e rettangolare; a uno dei due lati minori, da una colonnetta di legno e di ferro, s'incurvano due grossi tubi che buttano acqua con eguale abbondanza e violenza il giorno e la notte; e tutta la vasca è piena ondante lucidissima fino a livello di scarico. Al lato opposto, più basso, c'è l'abbeveratoio per le bestie... le bestie grosse, è la fine di settembre, già sono discese dagli alti pascoli e pascolano qui attorno sui prati in pendio... a vespro le mucche ritornano alle stalle, passano dalla piazza, si fermano all'abbeveratoio, guardano attorno con quei loro occhi stupiti, chinano il muso nell'acqua, lo ritirano, lo ritirano su sgocciolante e se ne vanno placide e lente. Suona la campana dell'Ave Maria. I pochi uomini che sono in piazza, contadini e pastori, si scoprono il capo, fermi, finché la campana suona. Di qui passano, fra la fontana e il campanile dov'è anche la camera mortuaria, e qui sostano i morti».

 

Manara Valgimigli ricorda come un giovane ventenne Siegfried Scharner per un incidente di montagna fu portato qui fra la fontana e il campanile, morto, e lo seguirono poi tutti i paesani all'ultima dimora.

E c'è presso il luogo dove cadde, sulla via che sale allo Schlern una targhetta metallica in sua memoria, Hier verstorben... E Valgimigli riprende il suo pensiero dominante.

 

«Sarebbe proprio pensiero romantico e sentimentale e malinconico se io desiderassi e mi augurassi di passare anch'io di qui, di finire anch'io qui fra la fontana e il campanile? Non mi parrebbe. E dico anzi che è pensiero sano e saggio, massime all'età mia, che l'ora non potrà più essere molto lontana. Comunque finché posso e come posso, ancora seguito e solo e ostinato, in pace e letizia a vagare per i miei monti. Potrei anch'io in certo momento avere da qualche parte la mia targhetta di ferro inciso, Hier verstorben Herr Professor... E dietro la barella potrei avere anche la banda di Castelrotto, la Musik-Kapelle. Me la meriterei, dopo tanti anni di fedeltà a questa gente, a quest'alpe, a questo paese. E ci sarebbe naturalmente anche il maestro della banda, il Kapelmeister, il mio caro amico Josef Goller…»

 

Non aggiungo niente di mio. Lascio splendere questa bellissima prosa che dice tutto e appunto riluce fresca candida e casta, come la neve dei nostri monti baciata dal sole.

 

Il mantello di Cebète