Autore: Enzo Collotti

Rif. bibl.: Collotti, Enzo, Ricordo di Claus Gatterer, in: C. Hartungen, H. Heiss, G. Pallaver, C. Romeo, M. Verdorfer (a cura di), Demokratie und Erinnerung. Südtirol Österreich Italien. Festschrift für Leopold Steurer zum 60. Geburstag, StudienVerlag, Innsbruck-Wien 2006.

Claus Gatterer

 

 

Ricordo di Claus Gatterer

di Enzo Collotti

 

Ho avuto la fortuna e l'occasione di incontrare Claus Gatterer al quale sono stato unito da amicizia e da grande reciproca simpatia. L'ho incontrato ripetutamente nel suo Südtirol e l'ho ripetutamente ritrovato in Austria, generalmente al margine dei convegni storici che soprattutto nell'era Kreisky era consuetudine del partito socialista e dei sindacati promuovere sotto gli auspici del Karl-Renner-Institut, rinnovando una vecchia tradizione di formazione politico-culturale che era stata tipica della socialdemocrazia austriaca e in particolare di quella viennese. Ci eravamo incontrati su un terreno che per ragioni diverse, nelle nostre diverse biografie, ci offriva un'area di esperienze e di interessi comuni: l'interesse per la pratica e non solo per la storia del socialismo e l'esperienza di un vissuto in aree, più che di confine, di contatto tra culture e nazionalità diverse.

Figlio della comunità di lingua tedesca del Südtirol ormai sotto la sovranità dell'Italia, Claus Gatterer era nato nel 1924. È stato sicuramente uno degli ultimi austro-marxisti, nel senso che, al di là della questione dei confini statali, egli ha costantemente considerato i rapporti tra la popolazione di lingua tedesca e la popolazione di lingua italiana come orientate verso il rispetto reciproco, nella garanzia delle prerogative linguistiche e culturali dei rispettivi gruppi nazionali. Profondo conoscitore della storia, delle tradizioni e dei costumi della sua terra, Gatterer apparteneva al ceppo umano di cui sarebbe stato testimone per le generazioni più giovani Alex Langer, per il quale la necessità di dovere optare per una determinata nazionalità aveva drammaticamente sottolineato la chiusura di un orizzonte che gli stava troppo stretto e che non gli consentiva non solo di dichiarare ma anche di praticare la sua vocazione di cittadino d'Europa (e forse anche del mondo). Per parte mia, io che non ero nato sul confine orientale (venivo dalla Sicilia) mi ero imbattuto nella mia adolescenza nel conflitto tra italiani e slavi e avevo vissuto tutto il corso della seconda guerra mondiale tra le lacerazioni e gli sconvolgimenti degli odi nazionali e razziali, che avevano coinvolto italiani e slavi, ebrei e non ebrei. Forse, proprio perché mi era estraneo l'odio verso i diversi che molti dei miei compagni di scuola di brave famiglie nazionaliste avevano introiettato sin dalla nascita, ero stato sconvolto dalle violenze contro i miei coetanei sloveni, che arrivavano a scuola sanguinanti dalle percosse ricevute sul Carso alla partenza delle corriere essendo rei di parlare fra di loro in sloveno. Ma non mi era estranea la cappa di piombo che sentivo aleggiare alla fine del 1941 nella Trieste ostaggio del Tribunale speciale, né la sorte dei nostri compagni di scuola ebrei che non tornavano in classe. E le scene cui avevamo potuto assistere dopo 1'8 settembre del 1943 e l'occupazione tedesca del Litorale Adriatico non erano destinate a ottundere la mia sensibilità nei confronti della violenza e della sopraffazione nazionalista e razzista. Come dimenticare le teorie degli slavi, partigiani e no, rastrellati dai tedeschi che venivano scaricati dai camion o dai torpedoni per essere inoltrati, incatenati in colonna, nelle carceri del Coroneo o gli impiccati di via Ghega? 

Fu questo tratto di biografia almeno in parte comune che costituì uno dei passaggi attraverso i quali si cementò un'amicizia facilitata dai miei frequenti soggiorni in Trentino e nel Südtirol, che seppure non caratterizzata da assidue frequentazioni poggiava su una naturale sintonia di sentimenti e di valutazioni. Gatterer aveva un senso innato della giustizia non tanto come legalità ma come equità ed una naturale predisposizione a prendere parte a favore dei deboli e non solo delle minoranze. Credo che il nostro ultimo incontro di una certa intensità avvenne (se non erro all'inizio dell'estate del 1982) al margine di un piccolo simposio che si tenne a Vienna nella ristrettissima cerchia di studiosi del movimento operaio internazionale, che per anni alimentò gli incontri di Linz, in occasione di un momento celebrativo legato a Dimitrov, alla Terza Internazionale e al V congresso del Comintern da cui prese le mosse la politica del Fronte Popolare. Fu in quella occasione che io rievocai la figura di uno dei maggiori protagonisti della politica dei Fronti popolari, Willy Münzenberg, eretico del partito comunista tedesco, uno di coloro che aveva smascherato l'atto d'accusa dei nazisti contro Dimitrov, il cui nome se non era stato demonizzato dai politici e dalla storiografia del movimento comunista internazionale era stato sepolto nel silenzio nelle storie di partito e nei lessici ufficiali del comunismo internazionale. Ciò che aveva colpito Gatterer e gli era piaciuto è che nel mio intervento il ruolo di protagonista non fosse attribuito a un personaggio ufficiale ma ad un uomo di minoranza, non ad un vincente ma ad un uomo “contro”, uno di quelli che con ogni probabilità era destinato a scomparire nel silenzio del terrore staliniano.

In questo episodio, quasi un aneddoto, è racchiusa la personalità di Gatterer, il suo intimo sodalizio con i perseguitati, la ribellione al conformismo, il valore della memoria che aiuta a fare rivivere quanti erano stati condannati al silenzio della storia ricollocandoli in una giusta prospettiva. Era, in fondo, un punto di vista analogo a quello nel quale si era collocato Gatterer nell’operazione, apparentemente paradossale, con la quale intese ribaltare di fronte al pubblico sudtirolese e in generale di lingua tedesca, soprattutto in Austria, l'immagine del "traditore" Cesare Battisti, quale era stata sfigurata almeno due volte, agli occhi delle autorità austro-ungariche prima e nella propaganda del fascismo poi. Nella ricca pubblicistica di Gatterer il libro su Battisti uscito a Vienna nel 1967 (Unter seinem Galgen stand Österreich. Cesare Battisti. Porträt eines “Hochverräters”, Europa Verlag) ha una duplice valenza: è anch'esso un libro autobiografico, nel senso che riscoprire la storia di Battisti significava ripercorrere la propria storia, quella di un appartenente ad una minoranza nazionale rispetto allo stato nel quale quella minoranza era incorporata; e non soltanto scrivere la biografia politica di un personaggio ormai storico depurata dalle mistificazioni propagandistiche prodotte da due opposti nazionalismi.

 La storia di Battisti sino all'epilogo tragico sulla forca, la sua appartenenza nazionale, era un pezzo di storia di quell'Austria che non era stata (a dispetto della caricatura che ne avevano fatto i libri di storia del nazionalismo italiano) una prigione di popoli. Prima ancora di analizzare il carattere del peculiare socialismo di Battisti, Gatterer teneva a sottolineare l'assoluta legittimità della sua rivendicazione dell'italianità, come espressione di una rivendicazione di diritti e di autonomia culturale che non metteva minimamente in forse la lealtà nei confronti dello stato asburgico. Ma non c'è dubbio che, attraverso il percorso biografico di Battisti, Gatterer cercava di ricostruire anche le linee degli sconvolgimenti interni che al di là della sconfitta militare avrebbero portato alla dissoluzione dell'Austria-Ungheria. Gatterer ha espresso ripetutamente l'opinione che a ferire a morte la compagine della duplice monarchia non fu certo l'azione di singoli irredenti; per lui i comportamenti illiberali e autoritari di settori-chiave della burocrazia asburgica furono responsabili del divorzio delle nazionalità dallo stato più delle spinte innovatrici del socialismo e di quelle centrifughe delle nazionalità. Sebbene egli non analizzi a fondo la natura del socialismo nella duplice monarchia né in particolare di quello di lingua italiana, in cui peraltro sarebbe stato da distinguere molto nettamente tra l'opzione italiana del socialismo di Battisti e del suo sodale Antonio Piscel da quella internazionalista dei socialisti triestini, le condizioni ambientali e sociali (il Trentino agricolo e contadino, la forte egemonia cattolica e parrocchiale nelle campagne, la debolezza di una borghesia locale) non sembravano favorire lo sviluppo di un forte movimento socialista. Da quel che sappiamo (e che anche Gatterer registra allo stadio degli studi degli anni sessanta), Battisti dovette essere consapevole del conflitto latente e del resto mai composto tra le due anime del socialismo trentino, quella classista e quella nazionale. Il punto forte della battaglia socialista nel Trentino, come del resto anche in altre parti della duplice monarchia e dell'Europa, non consistette nel conseguimento (se non indirettamente) di obiettivi specificamente socialisti, ma nel contributo per l'acquisizione dei diritti fondamentali e per il processo complessivo di democratizzazione della società, a cominciare dall'acquisizione del suffragio universale.

Naturalmente Gatterer non si pose in atteggiamento acritico verso Battisti: il suo problema fu di cercare di capire come un socialista fosse potuto diventare irredentista. Evidentemente non si trattava di un problema accademico, si trattava di cercare di dare una risposta a un problema storico che era anche un problema politico. In questo modo, superando i problemi di una travagliata conversione personale quale quella che nel contesto della crisi della duplice monarchia avrebbe accompagnato Battisti nel suo percorso dal socialismo all'irredentismo, Gatterer si avvicinava al cuore della crisi dell'Austria-Ungheria. Il passaggio di Battisti in Italia a poche settimane dall'inizio della prima guerra mondiale, alla metà di agosto del 1914, viene rappresentato come l'esito di un duplice fallimento: quello personale del politico Battisti che aveva esaurito allo scoppio della guerra tutte le armi di un approccio parlamentare per il conseguimento degli obiettivi di autonomia della minoranza italiana nel Trentino; e quello della politica della monarchia che non aveva dimostrato di volere trattare tutte le nazionalità al suo interno su un piede di sostanziale parità. Il soggiorno italiano di Battisti non fu meno scomodo e amaro di quanto era stata la sua battaglia contro la sordità dei governanti austriaci. Battisti che come politico, e non soltanto come geografo, era ben consapevole delle rivendicazioni che lui, come socialista e democratico, poteva legittimamente avanzare si trovò strumentalizzato e confuso tra gli estremisti del nazionalismo italiano. L’interventismo democratico, nel quale egli si riconosceva, insieme a Bissolati e a Salvemini, si rivelò null'altro che una pattuglia di minoranza all'interno di un irredentismo aggressivo che finì per rappresentare l'avanguardia del nazionalismo imperialista in ascesa, per il quale le rivendicazioni nazionali erano soltanto il paravento di conquiste territoriali che non avevano alcuna giustificazione di carattere nazionale ma obbedivano a obiettivi di natura prettamente imperialistica, dettati da esigenze strategiche e geopolitiche. Fu da questa strumentalizzazione che nacque la mistificazione e la manipolazione sfruttata sino agli estremi limiti dalla propaganda fascista che fece di Battisti, le cui rivendicazioni non si erano mai spinte al di là del Trentino di lingua italiana, il battistrada del confine al Brennero.

Ripristinare la verità su Battisti fu per Gatterer un atto di giustizia per un uomo che a suo avviso non aveva meritato di essere bollato dall'Austria come reo di alto tradimento, ma che dell'Austria in definitiva era stato vittima. Ma Battisti era stato doppiamente vittima anche del nazionalismo italiano; lo era stato dei Tolomei e dei fascisti durante e dopo la prima guerra mondiale; lo era stato dopo la seconda guerra mondiale quando fu nuovamente strumentalizzato, lui che ormai non avrebbe più in alcun modo potuto smentire chi abusava del suo nome, per coprire la soluzione sancita dall'accordo De Gasperi-Gruber, che non era mai entrato nelle sue prospettive. Le citazioni con le quali Gatterer richiama a chiarimento del pensiero di Battisti le testimonianze della vedova Ernesta Bittanti e di Gaetano Salvemini, strenui difensori del principio del rispetto delle nazionalità, ribadiscono il clima morale e la qualità del sodalizio e degli eredi spirituali di Battisti che custodirono l'autenticità del suo pensiero. Avendo intrattenuto negli ultimi anni purtroppo della sua vita un assai proficuo dialogo con Salvemini sui problemi non meno drammatici della Venezia Giulia, ritrovo nelle citazioni di Gatterer lo stesso sdegno con il quale il grande storico, con una vena di profonda amarezza, in una lettera del 1954 indirizzata al sottoscritto ebbe a scrivere:

“...L'Italia del Risorgimento nacque avvelenata dall'irredentismo del Trentino e della Venezia Giulia. Questa nuova Italia è nata avvelenata dal problema della Venezia Giulia. Sciupai una buona parte della mia vita fra quaranta e trenta anni fa intorno a questa materia fastidiosa. Non riuscii a persuadere neanche un cane fra italiani e slavi, che erano stati istupiditi e barbarizzati da mezzo secolo di lotte bestiali. Oggi le cose non stanno meglio, anzi stanno peggio che quaranta anni or sono (...). Gli uomini di frontiera, italiani o slavi che siano, sono sempre pazzi e malvagi. Bruciano il bosco della loro nazione per cuocere l'uovo dei loro odi locali”. 

Negli anni sessanta, che furono tra i più fecondi della pubblicistica di Gatterer, le polemiche sulle questioni alto-atesine non erano certo spente, anche se il contesto generale degli sviluppi italiani aveva consentito di allentare la pressione sulla componente di lingua tedesca e in generale di alleggerire la tensione tra i due gruppi nazionali. Superata la fase acuta del terrorismo a cavallo degli anni cinquanta e sessanta, con l' approvazione del cosiddetto "pacchetto" che avrebbe consentito l'adozione del nuovo statuto d'autonomia del 1972, il discorso politico incominciò a sottrarsi alla polarizzazione della contrapposizione italiani/sudtirolesi o Italia/Austria per aprirsi a un orizzonte più ampio. Non era soltanto il superamento del localismo, era anche l'acquisizione della consapevolezza che la questione delle minoranze aveva una vera dimensione europea, continentale. Fu il crescere della realtà dell'integrazione europea, in forme non soddisfacenti allora, come non lo sono neppure oggi del resto, che alimentò, negli spiriti più svegli e più capaci di captare i segnali di un cambiamento, la sensibilità verso il rifiuto delle chiusure nazionalistiche e verso il tentativo di costruire sulle diversità una sorta di identità che trascendesse i particolarismi nazionali per raccogliere gli apporti positivi della loro sintesi. Molti anni più tardi Alex Langer avrebbe parlato di una sorta di "sudtirolesità sovraetnica", frutto non di astratte teorizzazioni, ma di una opzione della pratica e della vita quotidiana. Fu in questo stesso contesto che Gatterer pubblicò nel 1969 Im Kampf gegen Rom, la sua opera maggiore, che sarebbe comparsa soltanto nel 1994 anche in lingua italiana. Cittadini, minoranze e autonomie in Italia suona appunto il sottotitolo dell'edizione italiana, che aveva tra gli altri il merito di sottrarre il destino del Südtirol all'angustia del caso particolare, per renderlo partecipe della sorte di una comunità molto più grande. Al di là di questa funzione di sprovincializzazione In lotta contro Roma è una sorta di summa del pensiero autonomistico, ben oltre l'origine culturale e territoriale dalla quale trasse spunto.

Libro di grande sapienza storica e storiografica, di passione politica e di sentimenti universali, Im Kampf gegen Rom giustifica la sua mole con una delle più peculiari doti di Gatterer: l'istinto didattico, che non era pedantesco richiamo ad un ipocrita correttezza formale ma volontà di argomentare e attraverso l'argomentazione di convincere. Gli italiani che non sanno le lingue e che ancor oggi, cattivi nipotini di Tolomei, quando si trovano nel Südtirol si rodono con arroganza perché gli abitanti del luogo non parlano l'italiano, e sentono in questo modo sconfitto il loro orgoglio di potenziali dominatori, non sanno che il plurilinguismo dei figli migliori del Südtirol è alla base del loro sapere della vita e della storia di più popoli, del Südtirol ma anche dell'Austria, della Germania, della Svizzera e della stessa Italia. Già con Gatterer ma soprattutto con Alex Langer i tempi si sarebbero dimostrati maturi perché dal Südtirol gli italiani non dovessero trarre soltanto ispirazioni negative, basate in genere sulla diffidenza nei confronti di chi non si conosce, ma anche sollecitazioni in positivo che li aiutassero in primo luogo a conoscere se stessi e a guardare dentro la propria storia. Gatterer non era un erudito locale, era dotato di una cultura storica vastissima che lo faceva muovere con tutta naturalezza non solo nel mondo della Mitteleuropa ma nel mondo della storia d'Italia che tanti momenti di incontri e di scontri aveva avuto con la piccola patria del Südtirol. Gatterer non aveva alcun rancore verso l'Italia; l'occhio critico che egli acutamente poggiava su quelle che considerava le malefatte della politica italiana non nascevano da una osservazione estrinseca o superficiale ma da una profonda consonanza con una generazione di democratici (prima ancora che di socialisti) italiani. Gli autori e i politici che egli cita più frequentemente sono gli eredi di un socialismo democratico o gli uomini della Resistenza nei quali egli identificava affinità ideologiche con la vecchia tradizione della socialdemocrazia austriaca e con il pensiero democratico del Risorgimento, da Cattaneo a Salvemini.

Stranamente non compare tra gli autori a lui familiari uno dei pionieri più originali del pensiero federalista nella Resistenza europea, Silvio Trentin, la cui concezione dell'autonomia come cellula della democrazia, sin dal più piccolo aggregato per culminare nella costruzione dello stato, è probabilmente il nucleo teorico più affine possibile alla sua visione politica. In lotta contro Roma non è, infatti, un’ennesima ricostruzione del conflitto della minoranza sudtirolese contro la sopraffazione del centralismo nazionalista irradiato dalla capitale dello stato italiano.
E' piuttosto una ricostruzione drastica dal punto di vista del pensiero autonomista dei guasti provocati dal meccanismo centralizzatore e omologatore delle differenze nel processo di formazione, di crescita e di sviluppo della società italiana. Gatterer conosceva a fondo la molteplicità degli aggregati di popolazione che costituivano lo stato italiano, ne apprezzava le differenze in quanto potenziale fonte di reciproca ricchezza. Parlasse della valle d'Aosta o dell'area dei conflitti tra italiani e slavi lungo il confine orientale ne parlava con la stessa competenza con la quale affrontava i problemi dei sudtirolesi o dei ladini. Applicava in un certo senso alla questione sudtirolese lo stesso metodo che aveva usato a proposito di Battisti: non era di un episodio o di un caso a sé che trattava ma di un caso paradigmatico. Nell'uno come nell'altro caso, mutatis mutandis, si era, per usare una sua espressione, in presenza del “sintomo di un disagio generalizzato”.

Per Gatterer non era sufficiente ristabilire la verità storica facendo piazza pulita dell'infinità di luoghi comuni di cui si nutriva l'ossessione degli opposti nazionalismi; non era vero che i sudtirolesi fossero tutti nazisti, che fra di essi non vi fosse stata resistenza al nazismo, che dopo 1'8 settembre del 1943 avessero tutti accolto i nazisti a braccia aperte e che fossero diventati tutti collaborazionisti; allo stesso modo in cui anche nell'antifascismo e nella Resistenza italiana erano sopravvissuti limiti e pregiudizi di carattere nazionalistico. Il punto fondamentale era abbattere i pregiudizi negli uomini; egli che era così strenuo difensore dei diritti delle minoranze era altrettanto consapevole dei limiti e dei rischi che erano impliciti nel loro rinchiudersi in se stesse, sia pure a scopo di autodifesa (“egocentriste" le chiamò). La lotta contro Roma non doveva coinvolgere perciò i singoli gruppi nazionali minoritari, era la lotta per la riforma federalista dello stato, era la lotta per l'affermazione in crescendo della democrazia partendo da movimenti di base per contaminare tutti i livelli dell'amministrazione periferica e poi centrale e arrivare, risalendo una ideale piramide, al vertice dello stato. Non era un problema locale ma neppure soltanto italiano, era un problema europeo.

 

La concretezza del discorso di Gatterer, che non prescindeva dai necessari preliminari di chiarezza teorica senza disdegnare tutti gli aggiustamenti empirici che potessero agevolare l'approssimazione agli obiettivi massimi, sfumava nell'utopia europeista; ma senza il rischio di oltrepassare i limiti dell'immediatamente possibile neppure l'immediatamente possibile diventa realtà. Gatterer era un uomo fine, generoso, concreto. Era un ottimista perché credeva negli altri uomini, era tendenzialmente disposto a dare fiducia. Per questo anche la sua visione di un futuro europeista tutto da definire era la proiezione del suo carattere così naturalmente aperto al nuovo e al diverso. E' impossibile pensare ad Alex Langer senza ricordare che egli discende da una genealogia che ha come capostipite Claus Gatterer e tra i suoi legittimi discendenti Poldi Steurer.