Intervista sul “tempo sospeso” in Alto Adige, tra la fine della Prima guerra mondiale e l'ascesa del fascismo (1918-1922)

 

Il confine del Brennero 

 

Rif. bibl.: Patrick Rina, Carlo Romeo, Le punture di spillo della Storia. Carlo Romeo e la difficoltà di capire i nuovi tempi in una terra sospesa tra due mondi, in: Ulrike Kindl, Hannes Obermair (Hrsg. / a cura di), Die Zeit dazwischen. Südtirol 1918–1922. Vom Ende des Ersten Weltkrieges bis zum faschistischen Regime / Il tempo sospeso. L’Alto Adige tra la fine della Grande Guerra e l’ascesa del fascismo (1918-1922), Edizioni alphabeta Verlag, Merano (BZ), 2020, pp. 358-368.

 

 

 

LE PUNTURE DI SPILLO DELLA STORIA

 

Progetti, discorsi, manifestazioni e la comune difficoltà di interpretare i nuovi tempi

in una terra sospesa tra due mondi, tra la fine della Prima guerra mondiale

e l’ascesa del fascismo

 

 

di Patrick Rina e Carlo Romeo

 

 

Patrick Rina: Prof. Romeo, nel 1919-1920 l’Italia postbellica fu scossa dal “biennio rosso”, da un inasprimento del conflitto politico. Quali furono le sfide più difficili e i problemi più spinosi che incontrarono i fragili governi di allora?

 

Carlo Romeo: Molti problemi furono comuni a tutte le società coinvolte nel conflitto e cioè il ritorno a un’economia “normale”, disoccupazione, inflazione, riconversione delle attività produttive. In Italia i tre anni e mezzo di guerra avevano “congelato” enormi questioni sociali (agraria, operaia) che ora si ripresentavano all’improvviso e in forme molto più gravi e conflittuali. I milioni di soldati smobilitati che tornavano alla loro realtà quotidiana non trovarono certamente le prospettive che erano state loro promesse dalla propaganda.

Le elezioni del 1921 registrarono il successo dei nuovi “partiti di massa”, popolare e socialista. L’Italia uscita dalla guerra era una specie di “pentola a pressione” a cui i governi liberali contrapposero una politica dei piccoli passi, anche razionale ed equilibrata, ma che non riusciva a dare risposte immediate alle enormi contraddizioni e alle spinte contrapposte.

 

Rina: Roma si trovò tra le mani un ferro incandescente – la questione sudtirolese. Esisteva un concreto piano politico per il futuro di questa terra? Oppure c’era un ginepraio di contraddizioni?

 

Romeo: Il Regno d’Italia aveva mantenuto l’orientamento fortemente centralista con cui era nato. Non si era mai confrontato con questioni di minoranze nazionali, tranne quella francofona della Val d’Aosta, che però, incardinata sin dal 1861, aveva un profilo del tutto particolare (basti pensare alle radici francesi dei Savoia o a Cavour che parlava meglio il francese dell’italiano). La Venezia Giulia e il Tirolo meridionale presentavano quindi problemi del tutto nuovi. Non esisteva un piano preordinato e si procedette inevitabilmente con una certa approssimazione a causa di diversi fattori, spesso di segno diverso: da un lato, l’emergere dei singoli problemi concreti in sede locale e, dall’altro, l’immagine esteriore da dare all’opinione pubblica nazionale e internazionale. L’azione dell’Ufficio centrale per le nuove province, guidato dall’istriano Salata, fu talmente cauta e orientata al rispetto delle istituzioni preesistenti da attirarsi feroci critiche da parte di chi pretendeva misure drastiche in senso nazionale, soprattutto sul piano della lingua e della toponomastica. D’altro canto si trattava di una fase provvisoria in vista di una sistemazione definitiva.

Fu un periodo di grandi discussioni, vi furono dichiarazioni di principio (rispetto della lingua, raccordo tra legislazione italiana e autonomie locali) e l’insediamento di commissioni che avrebbero elaborato le proposte di regime autonomo per le Nuove Province. Tuttavia ai governi liberali mancò il tempo.

 

Rina: Dal novembre del 1918 al luglio 1919 il Sudtirolo passò dall’amministrazione austriaca al governatorato militare italiano del generale Guglielmo Pecori-Giraldi. La popolazione di lingua tedesca come metabolizzò questa transizione epocale?

 

Romeo: La parola che sembra meglio sintetizzare la percezione collettiva è “shock”.  In pochi giorni si interruppero i collegamenti col Tirolo del nord. Circolavano militari di quello che da sempre era stato il “paese nemico” per eccellenza, il “nemico ereditario”. Tuttavia, se andiamo a vedere in profondità le cronache, la pubblicistica, la memorialistica meno ideologicamente condizionata, il quadro è diverso.  Rimaneva intanto una certa fiducia che sarebbe stata un’occupazione provvisoria e che il trattato di pace avrebbe risparmiato il Deutschsüdtirol dall’annessione. Nei primi tempi tutto (o quasi) andò avanti come prima, dall’amministrazione alla scuola, dalle polizie municipali ai simboli, insegne, monumenti che parlavano ancora dell’imperialregia Monarchia.

Economicamente la situazione poteva dirsi abbastanza stabile rispetto ad altri contesti, anzi nettamente migliore rispetto al vicino Trentino e persino a diverse regioni austriache. In quegli anni la stampa sudtirolese riferì con orgoglio dei soggiorni offerti a migliaia di bambini disagiati di Vienna in diversi comuni del Sudtirolo.

Le esportazioni (soprattutto di vino e frutta) perdevano i mercati centro-europei ma bisogna considerare che quest’ultimi, devastati dall’inflazione, si erano molto impoveriti. Il cambio corona-lira nelle Nuove province fu agevolato da parte dello Stato, che risarcì parzialmente anche i crediti di guerra.

In generale la vita dell’“uomo comune” non subì particolari tracolli. A livello politico, invece, una miriade di piccoli episodi segnalavano da parte dell’establishment locale (sindaci, giunte comunali, impiegati, insegnanti, parroci) atteggiamenti di orgogliosa e talora sprezzante avversione verso qualunque forma di collaborazione con le nuove autorità. L’immagine che si voleva dare è che tutto doveva andare avanti come prima. Talvolta nelle comunità dei paesi si innescarono dinamiche psicologiche ben note, che si possono riassumere in poche parole: chi collabora con lo straniero è un traditore.

 

Rina: Quale fu l’obiettivo della “penetrazione pacifica” del Sudtirolo prospettata da Pecori-Giraldi?

 

Romeo: Da quello che lasciò scritto, in particolare dalle sue quattro relazioni, il generale metteva in guardia da azioni radicali di snazionalizzazione. Si era già scontrato ad esempio con Tolomei e con coloro che pretendevano di imporre da subito misure che avrebbero provocato una reazione contraria da parte dei tedeschi, una “chiusura a riccio”. L’espressione che usa, “penetrazione pacifica” significa in sostanza “dare tempo al tempo”: non aggredire direttamente l’identità etnico-linguistica della minoranza (lingua, scuole, tradizioni) ma mirare a una graduale “integrazione” dei tedeschi dentro lo Stato italiano attraverso la normale attività economica, amministrativa, coinvolgendoli nei quadri della burocrazia locale. In altre parole: “far avvicinare” gradualmente i sudtirolesi all’Italia. Difficile dire di più su quale idea di tutela giuridica e di autonomia avesse in mente. Del resto non era compito suo, dato che era Governatore militare e quindi provvisorio, ruolo che svolse con indubbio equilibrio.

 

Il generale Pecori Giraldi entra a Trento

 Il generale Pecori-Giraldi

 

Rina: “Los von Trient” – è questo lo slogan scandito ad un’imponente manifestazione autonomista tenutasi a Merano il 9 maggio 1920. Come reagirono la politica romana e l’opinione pubblica italiana? Perché questo primo “Los von Trient” è caduto nell’oblio?

 

Romeo: Nell’aprile di quell’anno la delegazione del Deutscher Verband (DV) aveva presentato a Roma la propria proposta di un’autonomia integrale e separata per il Deutschsüdtirol (da Salorno al Brennero, tanto per intenderci). La manifestazione di Merano fu voluta dai dirigenti del DV a sostegno di questa posizione e in particolare perché i più pericolosi avversari della proposta venivano considerati gli esponenti trentini, che volevano invece una provincia unica. Essi avrebbero avuto verosimilmente una certa influenza sulle decisioni del governo.

Il primo degli oratori di quella mattinata, l’avvocato tedesco-liberale Bernhard Zallinger, peraltro uno dei più aperti alla trattativa e alla collaborazione, esordì esprimendo il comune lutto per la prima battaglia che era stata irrimediabilmente persa (quella dell’autodeterminazione contro l’annessione). Chiariva poi la questione che si poneva ora. Detto in parole semplici, il concetto era questo: “Voi trentini, sotto l’Austria, avete sempre richiesto un’autonomia separata in nome della vostra nazionalità. Ora ci volete negare quello pochi anni fa ponevate come irrinunciabile per sopravvivere come gruppo nazionale: un’autonomia separata”.

Da buon avvocato, Zallinger sorvolava sul fatto che quell’autonomia non era mai stata concessa proprio per l’ostinata opposizione della maggioranza dei partiti tirolesi tedeschi, perché considerata un prodromo al separatismo irredentista trentino, quasi un cedimento al “nemico ereditario”. Sorvolava anche su una straordinaria coincidenza temporale:

esattamente due anni prima, cioè il 9 maggio 1918, nel “Deutscher Volkstag” di Vipiteno il Tiroler Volksbund (la lega transpartitica tedesca, socialdemocratici esclusi) aveva annunciato i suoi “14 punti” (contrapposti a quelli di Wilson) che prevedevano una politica ancor più dura verso le pretese autonomistiche del Trentino.  

Solo tanti anni dopo, nel secondo dopoguerra, in quello che presentava come una specie di “esame di coscienza” collettivo (Die Grundlagen der Südtiroler Politik, 1949), Zallinger osservò che la posizione sudtirolese nel 1920 sarebbe stata enormemente migliore se sotto l’Austria i trentini avessero già goduto di una loro autonomia.

Non bisogna comunque prendere come assoluti i toni, spesso enfatici, dei discorsi e dei proclami in occasione di adunanze di questo tipo, che per forza di cose devono corrispondere alla solennità del momento e del luogo (sotto il monumento ad Andreas Hofer, appena inaugurato). I colloqui e le trattative continuavano e vi erano alcune componenti del DV che vedevano realisticamente come inevitabile, almeno come primo passo, un “tetto comune” con i trentini e al suo interno competenze distinte per Trento e Bolzano.

Sia negli ambienti governativi sia sulla stampa italiana, la proposta di autonomia integrale del DV suscitò una negativa impressione. Essa ritagliava da Salorno al Brennero quasi uno “Stato nello Stato”, anzi, come scrisse Giuseppe Antonio Borgese nel 1921, uno “Stato tra due guanciali”.

 

La manifestazione di Merano del 9 maggio 1920

 La manifestazione di Merano (maggio 1920)

 

In campo tedesco non direi che quel Los von Trient del 1920 sia stato del tutto dimenticato. Senz’altro è meno conosciuto dell’altro (1957) ma, come tutte le grandi adunate sudtirolesi, è anch’esso rientrato nell’archivio di quegli exempla che servivano come monito per rafforzare nel tempo, in senso transgenerazionale, la coesione della Volksgruppe. Quasi ogni adunata nella storia sudtirolese si è aperta nel ricordo di un’adunata precedente, svolta dai padri e dai nonni, in nome di una linea comune e immutata della volontà popolare. La rivendicazione di un’autonomia integrale e specificamente sudtirolese ha avuto nella storia dopo l’annessione un valore non soltanto sul piano tecnico-giuridico ma anche e soprattutto identitario: una specie di “mir sein mir” che suppliva, compensandola a livello di psicologia collettiva, all’ingiustizia della mancata autodeterminazione.

Le differenze tra i due Los sono comunque evidenti: il primo (1920) si riferisce a un mero progetto di autonomia, che dopo l’ottobre 1922 si capì non sarebbe arrivata né per Trento né per Bolzano. Il secondo (1957) si riferisce a uno Statuto d’autonomia regionale in vigore da quasi un decennio, di rango costituzionale e fondato su un accordo internazionale.

 

Rina: Il Deutscher Verband, ovvero il blocco dei partiti liberalnazionali e cattolico-conservatori ma anche i socialdemocratici sudtirolesi elaborarono dei modelli per una futura autonomia territoriale. Roma come reagì a questi progetti? Vi fu, come sottolineò il presidente del consiglio Francesco Saverio Nitti durante un incontro con il cancelliere austriaco Karl Renner nell’aprile 1920 a Roma, una reale volontà di concedere uno status autonomo ai nuovi concittadini?

 

Romeo: Non ci sono solo le dichiarazioni dei governi di allora (Nitti, Giolitti) ad andare in questo senso. Nella legge di annessione (26 settembre 1920) si prevedeva la necessità di raccordare la legislazione del Regno con quella vigente nei nuovi territori “e in particolare con le loro autonomie provinciali e comunali”.  Sul governo era forte era la pressione trentina, in particolare dei Popolari. Non ci fu quasi partito (a parte quello fascista) che non propose un suo progetto di autonomia sia in sede locale che nazionale. C’erano certo dei nodi importanti da sciogliere: rapporto tra Trento e Bolzano, attribuzione della Bassa Atesina e delle valli ladine, distribuzione delle competenze, garanzie di controllo etc.

La nomina delle Commissioni (una centrale e tre regionali) che dovevano elaborare l’assetto delle nuove province avvenne solo dopo le elezioni parlamentari, verso la fine del 1921. La Commissione regionale tridentina si riunì quattro volte nel 1922, poi arrivò l’ottobre 1922 e ogni prospettiva di autonomia svanì.

 

Rina: Il nazionalista Ettore Tolomei aveva tutt’altri progetti per la terra da lui chiamata “Alto Adige”. Quali furono i suoi rapporti con i governi liberali a Roma? La sua influenza diretta sulle decisioni politiche venne marginalizzata?

 

Romeo: È una delle fasi più intense dell’attività politica di Tolomei. Si è già fatto un nome nel Regno come esperto dell’Alto Adige coltivando contatti con ambienti accademici, istituzionali e politici. I suoi scontri, prima con Pecori-Giraldi e poi con Credaro, sono all’ordine del giorno. Le sue iniziative (soprattutto sulla toponomastica) vengono continuamente bloccate e alla fine il suo Commissariato per la lingua e la cultura viene sciolto. Freme perché si acceleri l’italianizzazione in ogni campo, stigmatizza l’azione del governo in Alto Adige come frutto di inerzia, debolezza, ignoranza. Non a caso trova i suoi migliori alleati nei nazionalisti e soprattutto nei fascisti. C’è un episodio che meglio di altri rappresenta la sua distanza dalle autorità di allora: nonostante le sue richieste, non venne invitato alla solenne inaugurazione del cippo del Brennero da parte del re (ottobre 1921): secondo lui per “non offendere il Deutscher Verband e perché non accostasse il Re”.

 

Rina: Uno dei personaggi più controversi del “tempo sospeso” fu Luigi Credaro, il commissario generale civile della Venezia Tridentina. L’allievo del celebre psicologo Wilhelm Wundt era un raffinato conoscitore della civiltà tedesca. Allo stesso tempo dovette rappresentare le istanze dello Stato italiano. Definirebbe Credaro come “servitore di due pensieri”? Egli fu fondamentalmente un monitore incompreso?

 

Romeo: Quando, nel luglio 1919, fu annunciata la nomina di Credaro come commissario civile, alcuni osservatori “maligni” indicarono due aspetti critici: i suoi trascorsi “neutralisti” (era sostanzialmente un liberale giolittiano) e la sua fama di anticlericale. Il primo aspetto induceva a prevedere una possibile sua accondiscendenza verso gli atteggiamenti antinazionali dei “tedeschi dell’Alto Adige”, il secondo alle antipatie che si sarebbe attirato in una terra ultra-cattolica come il Trentino-Alto Adige. Luigi Credaro apparteneva a una delle migliori classi politiche che abbia avuto il Regno d’Italia e che venne spazzata via dal fascismo.

Come governatore civile si trovò di fronte a una resistenza massiccia e capillare da parte delle autorità sudtirolesi locali, che probabilmente non si aspettava. Le sue destituzioni di sindaci e funzionari, i suoi interventi che possono sembrare persecutori erano conseguenti a plurimi richiami non seguiti. Si trattava di reazioni inevitabili a innumerevoli “punture di spillo” che facevano più male che bene alla causa sudtirolese. Perché l’altro problema che Credaro doveva affrontare era la pressione nazionalistica che stava crescendo in Italia. Ogni plateale dimostrazione di distanza dall’Italia da parte dell’establishment sudtirolese forniva alla stampa nazionale gli argomenti per criticare la “tolleranza” e la debolezza della politica italiana verso i cosiddetti “pangermanisti altoatesini”.

I fascisti erano prontissimi a cavalcare strumentalmente questi episodi e ad usarli in chiave eversiva. Le azioni fasciste, sempre più aggressive e provocatorie, miravano a destabilizzare l’ordine pubblico in nome della difesa degli italiani in Alto Adige, che a detta loro non veniva difesa dal Commissario civile, di cui Mussolini chiese in parlamento la destituzione insieme a quella di Salata.

Lo scontro assunse anche un’immagine concreta. Dopo la violenta spedizione su Bolzano del 21 aprile 1921 (il cosiddetto “Blutsonntag” con decine di feriti e l’omicidio di Franz Innerhofer), Credaro fece collocare a Salorno un posto di blocco militare per bloccare ulteriori iniziative degli squadristi. L’anno dopo l’ondata fascista avrebbe travolto anche quello sbarramento.

 

Bolzano, 24 aprile 1921. Piazza Erbe pattugliata dai militari

subito dopo l’aggressione delle squadre fasciste in cui fu ucciso Franz Innerhofer

 

 

Rina: In che cosa consistevano quelle che ha chiamato “punture di spillo” da parte delle autorità locali sudtirolesi verso Credaro? Potevano essere evitate?

 

Romeo: Mi riferisco a quei numerosi atti “simbolici” che non sembravano funzionali e conseguenti in termini di realismo politico e facevano più male che bene alla causa sudtirolese. Ad esempio, l’ostinazione da parte di alcuni sindaci e giunte comunali (soprattutto nella Bassa Atesina) nell’usare solo il tedesco nella corrispondenza con le autorità superiori o il rifiuto di presenziare a cerimonie, di fare gli onori di casa a visitatori “eccellenti”, di esporre il tricolore nelle date stabilite e così via. Il sindaco di Bolzano Julius Perathoner è forse la figura più esemplare in questo senso e il più “chiacchierato” sulla stampa italiana. Gli episodi più noti sono il rifiuto di rimuovere dalla sua scrivania il busto di Francesco Giuseppe, in occasione della visita del re, e la sua accoglienza dei sovrani alla stazione con un benvenuto esclusivamente in lingua tedesca. O ancora il “caso Petrarca” dell’agosto 1922, che contribuì ad alienargli qualunque residua simpatia nell’opinione pubblica italiana. Il sindaco di Arezzo aveva inviato a tutti i capoluoghi del Regno l’invito a contribuire all’erezione del monumento al suo poeta. Per fare qualche esempio, Trento se la cavò con 500 lire (poco più di 400 euro di oggi); altri comuni risposero semplicemente lodando l’impresa, altri non risposero neppure. Perathoner invece rispose, in tedesco, che le condizioni di bilancio del suo comune dopo l’annessione all’Italia era così impoverito da non consentire l’elargizione di un contributo degno di Bolzano, aggiungendo che comunque a suo avviso tale contribuzione non avrebbe dovuto riguardare i comuni tedeschi. Si scatenò il putiferio. Erano tutti atteggiamenti che mettevano in grande imbarazzo Credaro.   

 

Rina: Durante l’amministrazione di Credaro entrò in vigore la cosiddetta Lex Corbino (agosto 1921). La storiografia “patriottica” del Sudtirolo interpreta questa legge come preludio alla chiusura delle scuole tedesche e dunque alla snazionalizzazione della popolazione tedescofona. A Suo avviso si tratta di una lettura forzata?

 

Romeo: Fa parte di una lettura semplicistica e deformante. Il decreto Corbino, voluto fortemente da Credaro, conteneva certamente una forzatura rispetto alla libera decisione delle famiglie, ma non intaccava minimamente le scuole tedesche. Credaro si vide costretto a compiere questo passo, quando si accorse che non sarebbe stato possibile aprire classi italiane nemmeno in località dove i bambini che parlavano italiano in famiglia costituivano la maggioranza. Le famiglie iscrivevano di preferenza i figli in quelle tedesche, per la forza di inerzia di una tradizione pluridecennale, per la pressione esercitata dall’ambiente e per un senso di solidarietà con il contesto. Scatenante fu l’episodio di Laghetti (Egna) che era diventato un “caso nazionale”.

La “legge Corbino” si focalizzava soprattutto sulla Bassa Atesina, dove da circa mezzo secolo si era svolta una grande contesa nazionale che passava sopra le teste degli abitanti di una realtà sostanzialmente mistilingue. È legata fortemente alla questione dei censimenti linguistici. Soprattutto nella fascia dei Comuni sulla riva sinistra dell’Adige (ma non solo) la presenza italiana, divenuta strutturale, era stata “attenuata” sotto l’Austria chiudendo e impedendo la nascita di scuole e asili italiani.  Anche i censimenti, dove veniva applicato il criterio della “lingua d’uso”, venivano utilizzati come base per negare la necessità di scuole italiane. I trentini insediatisi nella Bassa Atesina tendevano ad adattarsi nel giro di un paio di generazioni al contesto ed era comprensibile che parlassero tedesco a scuola e nei rapporti di lavoro. Il decreto mirava ad aprire anche qualche scuola italiana accanto a quelle, maggioritarie, tedesche. Oggi possiamo percepirlo come una forzatura; nell’ottica di allora fu definito un “recupero delle anime”, cioè dell’identità italiana di questa popolazione significava rettificare gli effetti della politica “germanizzatrice” che aveva svolto l’Austria.

 

 Il Commissario generale civile Luigi Credaro (a destra)

insieme al Duca d’Aosta (Merano 24 settembre 1922)

 Luigi Credaro

 

Rina: Il 6 settembre 1919 nel corso della storica seduta della Nationalversammlung austriaca che vide per l’ultima volta la presenza dei deputati sudtirolesi, Eduard Reut-Nicolussi pronunziò il suo “irrevocabile No” al trattato di Saint-Germain. Maurizio Ferrandi sottolinea che proprio l’analisi di questo “No” perentorio servirebbe ancora oggi alla comprensione della diffidenza di molti sudtirolesi nei confronti dell’Italia. Condivide questo pensiero?

 

Romeo: Reut-Nicolussi diede forma solenne a un sentimento diffuso e profondo, che rimanda anche nel linguaggio alle lotte nazionali ottocentesche, soprattutto nella sacralità del legame tra popolo e terra degli antenati. Sono temi che perdureranno a lungo nel Novecento e in parte arrivano anche fino ai nostri giorni. Anche in questo dobbiamo però tener conto del contesto. Si trattava dell’addio al vecchio parlamento austriaco, l’addio a un’epoca. Il pathos di Reut-Nicolussi in quella seduta è funzionale a quello che vuol essere un giuramento morale di fedeltà reciproca tra i sudtirolesi e l’intero mondo tedesco, austriaco e germanico. Dopo il 1927, cioè dalla sua fuga in Austria (prima di essere probabilmente confinato), Reut-Nicolussi incarnerà in tutto il suo percorso biografico questa scelta senza compromessi.

 

Rina: Il 1° e il 2 ottobre 1922 ebbe luogo la “marcia su Bolzano”, una grande azione intimidatoria organizzata dai fascisti. Con questo avvenimento cambia la storia del Tirolo a sud del Brennero. Lei ha parlato di una marcia voluta “per far paura a Roma”. Fu davvero la prova generale per la conquista del potere da parte di Benito Mussolini?

 

Romeo: Ovviamente non c’era un piano preciso che prevedesse una sequenzialità, ma il successo di quella spedizione fu un altro importante segnale che la tattica eversiva fascista stava funzionando: lo Stato liberale non riusciva più a difendersi. Come tutte le spedizioni fasciste in grande stile, anche quella su Bolzano del 2 ottobre 1922 (continuata poi a Trento) poneva come obiettivo principale il messaggio che ne sarebbe derivato a livello propagandistico in tutta la nazione. Quello era il “termometro” con cui decidere i successivi passi.  A Trento, arringando da un balcone le camice nere, il deputato fascista Francesco Giunta (che tra il resto era stato segretario del Fascio triestino) affermò che quelle erano le avanguardie delle legioni che avrebbero riconquistato alla Nazione le “terre redente”, che lo Stato non aveva saputo garantire. Aggiunse che aver introdotto con la forza il ritratto del Re nel municipio di Bolzano rappresentava una prima vittoria memorabile, “la prima tappa della marcia su Roma”. Qui abbiamo la precisa indicazione di ciò che l’Alto Adige rappresentava nella strategia propagandistica della rivoluzione fascista: solo dopo aver riconquistato i confini minacciati, la palingenesi, la rinascita dello spirito della vittoria, avrebbe potuto muovere verso il cuore della nazione (Roma) e conquistarlo.

 

Rina: A cent’anni dal “tempo sospeso” possiamo giudicare gli eventi e i protagonisti di quella finestra temporale con la dovuta distanza. Quali furono le occasioni mancate, quali le colpe e gli errori di quegli anni a cavallo tra due mondi e due tempi?

 

Romeo: Non so se si possa parlare di occasioni mancate. Fu un tempo davvero molto breve e sul quale si ripercossero fenomeni che si collocavano molto oltre la sfera d’azione dei protagonisti e delle forze in gioco a livello locale. Non dimentichiamoci delle conseguenze della guerra appena finita, della mobilitazione quasi totalitaria che aveva coinvolto le società, dell’improvviso crollo di imperi e “antichi regimi”. I leader sudtirolesi stentarono a capire i nuovi tempi, non seppero individuare i loro possibili alleati, mettendoli anzi spesso in difficoltà. L’Italia era uscita diversa dalla guerra e i governi liberali sembrarono “spiazzati” e travolti da una dialettica politica del tutto nuova. Riguardo all’Alto Adige cercarono con cautela soluzioni moderate a una questione del tutto nuova per un Regno centralista e unitario. Ma la marea montante del fascismo spazzò via tutto.