Wolftraud de Concini 2018

 

L’ultimo libro di Wolftraud de Concini è la narrazione letteraria, ispirata al materiale documentario rimastoci, degli ultimi anni di vita dell’ebrea boema Klara Franziska Beck (Roberto Antolini).

 

  

Wolftraud de Concini

Le scarpe di Klara: storia di una ebrea boema,

con illustrazioni di Otilie Šuterová Demelová

Pergine Valsugana (TN), Publistampa edizioni,

2018, 91 p., € 12,00

 

 

UN FRAMMENTO DELLA CULTURA EUROPEA

PERDUTO NELLA SHOAH

 

di Roberto Antolini

 

Wolftraud de Concini è nata nel 1940 in Boemia (oggi Repubblica Ceca), ma appartenendo alla minoranza tedesca dei Sudeti, dopo la seconda guerra mondiale ne è stata espulsa, ed è cresciuta in Germania occidentale. Dal 1964 vive in Italia, ed ora abita a Pergine, vicino a Trento, sposata con un pittore di etnia sinti. Insomma di minoranze se ne intende, e nelle decine di libri da lei pubblicati ce ne sono diversi dedicati all’argomento: Gli Altri delle Alpi: minoranze linguistiche dell’arco alpino italiano (Comune di Pergine Valsugana 1997; Le minoranze in pentola: storia e gastronomia delle 10 minoranze linguistiche delle Alpi italiane (Piazza 1997); Gli Altri d’Italia: minoranze linguistiche allo specchio (Comune di Pergine Valsugana 2003). Boemia andata e ritorno (Publistampa edizioni, 2013), invece, scritto assieme a Milan Novák, è la storia della sua cacciata dalla Cecoslovacchia nel 1945.

L’ultimo libro, pubblicato da poco, è Le scarpe di Klara (Publistampa edizioni, 2018), narrazione letteraria - ma ispirata al materiale documentario rimastoci – degli ultimi anni di vita dell’ebrea boema Klara Franziska Beck (1905-42), ultima moglie dell’architetto Adolf Loos, e sua biografa (Adolf Loos: un ritratto privato, Castelvecchi 2014), inghiottita dalla Shoah: trucidata tra i pini del bosco di Biķernieki, presso Riga, sulla sponda del Mar Baltico.

L’occasione della nascita del libro lo spiega l’autrice nella posfazione: «Qualche tempo fa ebbi l’occasione di vivere - con un premio letterario … - per alcuni mesi a Pilsen in Repubblica Ceca». Pilsen/Plzeň - città della Boemia occidentale, celebre per l’omonima birra e per la Škoda, che conta oggi quasi 170.000 abitanti - è stata abitata nell’Otto- Novecento da una significativa borghesia ebraica, che ha spesso affidato la costruzione, o la sistemazione, delle proprie case al celebre architetto ceco-austriaco Adolf Loos.

«Le cercai – racconta Wolftraud – ma non era facile trovarle. Nulla infatti, guardando gli edifici da fuori, lascia supporre che dietro le facciate, semplici e disadorne, si nascondano veri tesori, capolavori di architettura, arredamento e design. Ebbi l’impressione che le famiglie ebree, committenti e abitanti di questi appartamenti, avevano voluto intenzionalmente non mettersi in mostra, quasi rendersi invisibili, abituate com’erano da secoli a nascondersi e a dissimulare ricchezza e prosperità».

Quando le trova è «una grande emozione. Una grande commozione»: splendidi colori, oggetti quotidiani elaborati del design moderno, ma «più della bravura di Adolf Loos mi emozionavano i destini delle famiglie sue committenti», scomparse nella Shoah. Una di queste famiglie ebraiche committenti di Loos è quella di Otto Beck, fabbricante di reticolati di fil di ferro. Una sua figlia, Klara, che ha studiato fotografia a Vienna, nel 1929 sposerà Loos, nonostante il grande divario d’età (sessantenne e già sposato altre due volte lui, ventiseienne al primo matrimonio lei), nonostante le differenze fra il suo ambiente familiare tradizionalista e quello frivolo e spregiudicato del marito, e soprattutto nonostante gli scandali sessuali che lo avevano segnato, procurandogli anche condanne penali.

Wolftraud si interessa a questo matrimonio, cerca le tracce documentarie della vita di Klara Beck Loos, conosce anche due nipoti e può visionare così fotografie, lettere e materiale ancora in possesso della famiglia. E decide di narrarne la vita: «per qualche motivo inspiegabile me la sentivo vicina, come se l’avessi conosciuta. E mi riproposi di farla diventare protagonista di un libro. Eccolo». Nelle foto, Klara compare sempre con un tipo di scarpe basse, con la punta tonda, chiuse da un cinturino in pelle, e le scarpe danno il titolo al libro.

 

 Klara Franziska Beck

Klara Franziska Beck

 

L’autrice, mescolando i piani temporali con la tecnica del flashback, ricostruisce prima gli spostamenti della coppia nei centri alla moda di una Europa già sull’orlo del baratro ma che cercava di essere ancora spensierata – Karlsbad, Parigi, Milano, la Costa Azzurra - presentando l’ambiente intellettuale che ruotava attorno alla strana coppia. Poi, dopo la separazione nel 1931 (che precede di 2 anni la morte di Loos), segue il calvario di Klara, fino all’occupazione nazista della Cecoslovacchia che le scarica addosso la politica razziale del Terzo Reich, e l’inizio della Shoah. Arriva la stella gialla da cucire sui vestiti, e «la ditta berlinese che aveva ottenuto l’aggiudicazione per la stampa, l’imballaggio e la fornitura degli Judensterne guadagnò in pochi giorni 30.000 Reichsmark». Arriva il divieto di lavorare e fare cose normali come comperare giornali, sedere su una panchina. Il padre è morto nel 1936, lei e la madre, a Praga, si inventano espedienti per poter vivere: fabbricano dolci, confezionano borse e cinture. Finché non arriva la separazione nella deportazione. Klara passa per lo strano campo di Terezin/Theresienstadt dove i nazisti fingono di lasciar vivere abbastanza decentemente gli ebrei, li costringono a recitare e far musica per ingannare una visita della Croce Rossa, ma poi gli attori e i musicisti vengono caricati su vagoni-merci ed avviati ai campi di sterminio. Prima Klara e poi anche la madre scompariranno negli eccidi consumati in un bosco in Lettonia: «In una radura del bosco di Biķernieki i camion si fermano. Klara viene fatta scendere a spintoni. Deve spogliarsi. Deve levarsi il capotto, il vestito, la biancheria, i calzini, le calze. Anche le scarpe».

 

 Herder-Institut (Stefan Lehr)

 Ebrei di Pilsen in attesa di trasferimento a Theresienstadt (gen. 1942).

Herder-Institut (Stefan Lehr)