Autore: Paolo Valente

Rif. bibl.: Valente, Paolo, Diario del maestro di Cordés, edizioni alphabeta Verlag, Merano 2013, ISBN: 978-88-722-218-7

 

 

edizioni alphabeta Verlag 2013

 

 

Il maestro di Cordés documenta, nel suo diario, il percorso di consapevolezza che lo porta a riconoscere gli inganni della propaganda e a cogliere l’anima di una terra, nella quale comincia via via a respirare aria di casa.

Mario è il nuovo insegnante di un piccolo centro dell’Alto Adige (o Sudtirolo). Siamo nella seconda metà degli anni ’30 e il regime fascista ha raggiunto l’apice del consenso popolare.

Il maestro di Cordés documenta, nel suo diario, il percorso di consapevolezza che lo porta a riconoscere gli inganni della propaganda e a cogliere l’anima di una terra, nella quale comincia via via a respirare aria di casa.

Man mano che la comunicazione (coi bambini, con le famiglie, con padre Josef e soprattutto con Anna) si fa più autentica, gli occhi (di tutti) si aprono e ognuno si trova di fronte alla scelta: fermarsi, arrendersi oppure andare oltre, superare il confine?

 

 

 

 

Paolo Valente

Diario del maestro di Cordés (incipit)

 

 

Il treno ansima. Ferma al primo binario. La stazione ha un aspetto moderno. Si scende. La giornata umida e grigia informa chi arriva che l’estate è finita. Anche qui. Le nuvole basse, dense, saldate alle pendici dei monti, impediscono di contemplare le cime che circondano il borgo. Paesaggi incantati che da un secolo almeno attraggono in città frotte di villeggianti da ogni parte del mondo.

Mi sposto sul tappeto di foglie gialle. D’acero. Il viale a quest’ora tace. Altro non s’ode che il fruscio ritmato dei passi. Mi guardo d’intorno. Un vasto piazzale in terra battuta. Al centro una statua di bronzo scuro, imponente, ritta alla sommità del pomposo zoccolo in arenaria rossa. Alzo gli occhi. Nubi. Ci siamo, penso, con una certa emozione. Ecco i “sacri confini della patria”.

Il viaggio non termina nella cittadina. In fondo al viale aspetta il carro che mi condurrà a destinazione.

 

“Noi sogniamo l’Italia romana!” Queste parole le pronunciò il direttore Moretti nel comunicarmi, alla fine dell’anno passato, il trasferimento nella nuova provincia. Le aveva quasi declamate. “La vostra è una missione di civiltà. Il duce vi manda a operare perché la vittoria sia piena!” A portare le lettere, il diritto, le arti, aveva aggiunto con un filo di boria, a “gente che ignorava la scrittura in un tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio ed Augusto...”

 

Il carro appartiene a un commerciante di legname. È sceso in città per il mercato settimanale. L’uomo si sgranchisce le gambe alla base di un palazzo dalle linee eclettiche. Curiosa architettura, tipica degli ultimi decenni del dominio asburgico. Indossa una camicia chiara e, sopra, un pesante gilet, da cui fuoriesce il lembo inferiore del grembiule bruno. Ben calcato sul capo un cappello scuro, di feltro, stretto in una fettuccia verde fieno.

Mi riconosce subito, il carrettiere, sarà per via della borsa che gli è parsa sinonimo di cultura. Saluta da lontano con un ampio movimento del braccio rigido e curvo. Ricorda la falce, quel gesto, quando disegna semicerchi a mezz’aria da destra a sinistra, da sinistra a destra. Il buon uomo sorride. La smorfia del volto, a pensar male, somiglia a un appunto ironico. Sistema i due robusti cavalli dai crini biondi. Si parte.

 

Mio padre possedeva un veicolo tale e quale a questo. La domenica lasciava che noi piccoli sedessimo vicino a lui, a turno ci porgeva le redini e via di corsa. Pareva l’oggetto più veloce del mondo, benché si muovesse assai più lento di quanto non facciano le odierne vetture automobili. Ma queste son cose che si capiscono dopo. Da piccini non si ha il senso delle proporzioni.

Mi tornano d’un tratto in mente, proprio adesso, durante il viaggio, i giorni di quell’infanzia remota. Inizio secolo. Tempo felice per chi, bambino, assaggia la vita. Giorni duri per chi, adulto, mastica e inghiottisce sapore di miseria. Quante famiglie hanno abbandonato il paese. Stagioni di poco raccolto, parassiti dell’uva, carestia, poderi sottodimensionati, incoltivabili, inutili. Quanti hanno seguito un sogno in terre lontane, oltre i monti, oltre l’oceano! Quanti allo sbando nei vicoli delle città! I più fortunati tra quei cercatori di futuro oppure i loro eredi potrei incrociarli proprio in queste contrade. Mentre la città ci scivola accanto semideserta – è mezzogiorno – leggo i loro nomi, così familiari, sulle insegne di qualche bottega.

 

Il mio compagno di strada non parla italiano neanche a pagarlo oro. Non per cattiveria, non ne conosce una parola. Però si fa capire. Vuole sapere se ho mangiato. No, gli dico. Estrae una pagnotta di segale, un salamino e una mezza fiaschetta di vino. Accetto l’invito a pranzo e getto via tutti i pensieri. Passiamo sotto un arco antico, lassù svetta una torre merlata, come quelle delle favole, più avanti un castello cinto di mura ricoperte d’edera. Tra le foglie e le pietre indugia una lucertola. La borgata e le sue nuvole basse ce le lasciamo silenziose (ma è il silenzio dell’autunno) alle nostre spalle. […]